Anni fa intervistai un venditore ambulante di film che divenne appassionato di cinema a furia di vendere i dvd. A un certo punto mi disse che quando aveva visto Riff Raff e Piovono pietre si era ritrovato a riflettere tra sé, pensando al regista di quei film: “Guarda a questo! Eppure vive da un’altra parte, sa i problemi nostri e li sta mettendo sulla pellicola! Ma allora tutti quanti abbiamo gli stessi problemi?”. Ricordo quel suo tono meravigliato nell’affermare, con estrema naturalezza, il significato intimo e universale di un certo cinema; nell’esprimere, forse senza rendersene conto, l’emancipazione di una coscienza (di classe) che ritrova in certe opere la sua ragion d’essere (o non essere). Mi sono tornate in mente le parole di quel venditore ambulante dopo aver visto l’ultimo film di Ken Loach.
In genere, alla fine dei film di Loach prevale quel sentimento di rabbia mista a tristezza, ma la rabbia scaturita dopo aver visto Sorry we missed you può essere di natura diversa. Stavolta non deriva solo dalla condizione materiale del protagonista, che si ritrova a lavorare con una ditta di trasporti e non per una ditta di trasporti, senza obiettivi di produzione ma con standard di consegna, senza salari ma parcelle. Ricky non timbra il cartellino ma si rende disponibile, firma un contratto di lavoro e diventa il titolare di un’azienda affiliata, è “padrone del suo destino”.
I capelli rossicci, il viso un po’ stravolto, sulla quarantina eppure già troppo vecchio per il mercato del lavoro, Ricky risponde al capo durante il colloquio che aspetta un’occasione come questa da una vita. Il vincolo di eterodirezione smentito dal contratto di lavoro che stipula Ricky con quel capo viene espresso nella sua ambiguità attraverso queste semplici parole: «Tu non sei assunto qui, tu sali a bordo». Già nelle prime battute la retorica aziendalista utilizzata oggi dai responsabili delle risorse umane coglie nel segno. Prima di procedere all’affiliazione il capo gli chiede se ha un suo furgone o se lo vuole affittare da loro. Ricky prende tempo. «Come tutto qui, Ricky, è una tua scelta».
Ricky diventa un marinaio dell’asfalto al servizio della logistica urbana di Newcastle, ed è a partire da questa scelta che la vicenda degenera, anche tra le mura domestiche. Gli viene consegnata una “pistola”, uno scanner palmare che può mandare messaggi, scansionare, firmare, contattare i clienti, programmare percorsi, e che fa un sacco di bip, anche se Ricky sta fuori due minuti dal furgone. Il suo capo gli dice che quello scanner è il cuore pulsante del magazzino: «È prezioso, molto costoso, prenditi cura di lui e lui lo farà di te. Quando scannerizzi un pacco nel tuo furgone diventa tuo, è nel sistema, e noi tracciamo ogni centimetro del suo viaggio dal magazzino alla porta di casa».
Un collega gli spiega che bisogna consegnare entro una precisa finestra di orari, centrare i tempi stimati di arrivo che ha sulla pistola. In un’altra scena, Ricky guida il furgone e la figlia accanto riflette su quell’affare. Chi mette tutti i dati qui dentro? Un robot o un’app o un programma di computer, risponde lui. La figlia allora chiede chi mette i dati nel robot, ma Ricky non sa niente, le risponde «uno smanettone quattr’occhi».
Quello che fa rabbia di Ricky è il suo carattere mansueto, remissivo. Cos’altro sappiamo di lui? Sappiamo che ha fatto di tutto prima di ritrovarsi a quel colloquio di lavoro («dinne una e io l’ho fatta»), soprattutto nell’edilizia; sappiamo che ha smesso perché «lì hai sempre qualcuno addosso», ma in verità, dal dialogo tra la moglie Abby e una donna anziana attiva negli anni di sciopero dei minatori, sappiamo che Ricky ha perso il suo lavoro proprio mentre erano in procinto di comprare casa (il conflitto qui appare sotto forma di memoria storica, nostalgia di un tempo andato).
Sappiamo che è uno che lavora sodo, che per orgoglio non ha mai preso il sussidio («piuttosto muoio di fame»). Il suo carattere è quello di «un combattente» agli occhi del capo del magazzino. È proprio il tipo di persona che sta cercando per la sua attività di servizi logistici per conto terzi. Un buon lavoratore che vorrebbe mettersi in proprio ed essere il capo di se stesso, uno che desidera il meglio per la sua famiglia, un po’ tonto, con la velleità di pagarsi un mutuo e avere una casa di proprietà dopo che gli anni della crisi gliel’hanno impedito.
Ricky ha conosciuto la moglie Abby in un rave, tifa per il Manchester United e ha dei tatuaggi sulle braccia robuste. Il resto lo capiamo dall’evolversi della storia, dalle immagini che lo vedono smistare pacchi in magazzino o correre tra una consegna e l’altra. Ricky è un lavoratore modello, ha ottimi feedback finchè riesce a tenere testa a quei ritmi. Merce fungibile tra le altre, rimpiazza un corriere in difficoltà provocando la sua collera. Si arrabbia bonariamente quando un cliente lo prende in giro a causa della sua fede United (porta la maglietta della sua squadra di calcio mentre lavora). Il suo errore – o meglio la sua illusione – è di credere che mettendosi in proprio riuscirà a guadagnare di più, lavorando quattordici ore al giorno per sei giorni la settimana. Si troverà ad affrontare tutti i classici problemi di chi lavora nell’ultimo miglio delle consegne a domicilio: il pacco pesante, l’ascensore guasto, il traffico, l’indirizzo sbagliato, lo stress.
Non abbiamo a che fare con lo Steve disagiato di Riff Raff, che alla fine appicca il fuoco nel cantiere edile in cui lavora, ma con un proletario inglese ammansito, privo o quasi di quell’aggressività insita in una certa cultura operaia, con qualche scatto d’ira irrilevante. Vediamo un uomo che si fa mancare di rispetto dal figlio nel pieno della sua turbolenta età di mezzo. L’unica amicizia che si vede nel corso del film è quella con un collega di lavoro, che lo introduce in quell’attività, gli suggerisce il furgone da noleggiare e poi gli regala una bottiglia di plastica dicendogli che gli servirà per pisciarci dentro mentre lavora.
Non ci si può sottrarre a quel senso di solidarietà nei suoi confronti (così come non ci si poteva sottrarre seguendo le vicissitudini di Steve in Riff Raff, di Daniel Blake, di Paul, Mick e gli altri). Eppure Ricky a tratti risulta patetico. Loach e il suo storico sceneggiatore sanno come far scattare l’empatia dello spettatore dalla lacrima facile: disagio e semplicità, bontà, piccole scene di vita quotidiana, poche contraddizioni, elementi tutto sommato lineari. La storia si sviluppa senza intoppi e a costo di risultare didascalica arriva dritta al punto. Ma se a essere messo in scena non è lo stesso disagio di Piovono pietre,Ladybird Ladybird o Riff Raff, quali sono le ragioni di una soluzione narrativa del genere a quasi trent’anni di distanza da quei film? Perché, negli anni Novanta, la figura emblematica dei film di Loach era lo Steve di Riff Raff e oggi, nel 2020, il profilo delineato è quello di un personaggio dai tratti così bonari?
Loach mette al centro della scena la figura di lui ma è della moglie Abby che vuole parlare, per descrivere il contrasto tra i tempi della vita e quelli del lavoro. Sforzandosi di essere fedele alla bellezza e all’inferno degli oppressi, Loach le mette entrambe sullo stesso piano d’azione, ma qualcosa suggerisce che quella realtà in cui Ricky e Abby sono calati sia molto più brutta di come lui la racconta, molto più arida, rude, violenta, cinica e insignificante di ciò che lui mostra. Come la realtà de La promesse dei fratelli Dardenne, o come quella della regista britannica Andrea Arnold (Fish Tank), più controversa, meno appagante, più fastidiosa, meno accomodante.
Sarebbe stato più interessante offrirci un Ricky abbrutito dalla vita, più duro, ma Loach preferisce un protagonista dall’indole docile, che guida un furgone in giro per la città coi cuoricini attaccati al cruscotto invece di un “la tua invidia è la mia fortuna”. Uno che prova a organizzare invano gli altri corrieri solo quando ha bisogno di giorni liberi, per far avere a ciascuno la possibilità di un rimpiazzo. Non un eroe che decide di far rivoltare un magazzino di corrieri e facchini, né un perverso alienato dal lavoro condizionato dalle tecniche digitali. Ricky sta nel mezzo, a stento bestemmia i santi o le madonne mentre guida, e infine dentro a quella bottiglia ci piscia, subendo una realtà che man mano gli si rivolta contro.
L’unico personaggio che riesce a esprimere una condizione di conflitto è la moglie Abby, assistente domiciliare con uno “zero-hour contract”, che in un dialogo a letto gli dice che sogna spesso di sprofondare nelle sabbie mobili. È lei che, sempre paziente al lavoro, litiga al telefono con un suo superiore che le vuole appioppare altri turni nel giorno previsto per stare in famiglia. È lei che sacrifica la sua auto per l’avvio dell’attività del marito, che si prende cura degli anziani mentre porta avanti le questioni familiari. Ed è lei che si rivolta al telefono con il capo di Ricky mentre lui attende l’esito delle radiografie in seguito al pestaggio subito.
Loach ha fatto leva sul carattere docile e cocciuto di Ricky, sulla pena che possiamo provare verso di lui e su quelle scuse prese dal foglio che i corrieri lasciano ai clienti quando non li trovano nel momento della consegna, scuse che nel titolo assumono il tono di una excusatio non petita. Ha colto da questa fase dello sviluppo capitalistico gli elementi più significativi, declinandoli in una storia troppo umana per essere vera, seppur efficace. Nonostante le botte prese, a Ricky non resta altro da fare che tornare al lavoro contro il volere della famiglia, ancora dolorante e pieno di debiti. E sembra quasi che alla fine ci venga chiesto di compatirlo, di accettare passivamente le scuse di un uomo privo di scelta. (andrea bottalico)
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