Il libro di Stefano Portelli, La ciudad horizontal. Urbanismo y resistencia en un barrio de casas baratas de Barcelona (Edicions Bellaterra), è la tappa importante di una ricerca intrapresa più di dieci anni fa, in parte condotta individualmente e in parte collettivamente, che si situa al confine tra l’indagine di campo e l’attivismo politico. La versione in lingua castigliana – in attesa di quelle catalana e italiana – è l’occasione per stabilire dei confini a un lavoro che ha preso le mosse in ambiti molto distanti dall’accademia, salvo rientrarvi in dirittura d’arrivo – e per certi versi nella forma del testo, che seppure concepito secondo gli schemi classici della ricerca sociale conserva una chiarezza di stile, una ricchezza di dati e riflessioni, ma soprattutto una libertà di approccio che quasi mai si riscontrano nella produzione accademica.
L’immagine di Barcellona che ci restituisce la lettura è distante anni luce da quella veicolata in anni recenti dai principali mezzi di comunicazione italiani, folgorati dalla capacità delle élite catalane di trasformare in poco più di vent’anni una città dell’Europa meridionale, economicamente e socialmente depressa, in una scintillante metropoli globale.
Portelli ci mostra, analizzando a fondo un caso esemplare, l’apparente paradosso di una città che ha alimentato la sua fama dichiarando una guerra senza quartiere proprio a quel tessuto urbano sul quale tale popolarità era basata: un patrimonio materiale ma soprattutto immateriale, fatto di socialità, fierezza, vita comunitaria – le tante barcelonas di cui parlava Manuel Vázquez Montálban – il cui simulacro viene ancora oggi contrabbandato come caratteristico della capitale catalana, ma che in realtà è stato ridotto, letteralmente, a un cumulo di macerie – e di sofferenze vive, tangibili – attraverso la manipolazione dei meccanismi democratici e l’instaurazione, in più luoghi della città, di uno scenario da guerra civile.
Un libro complementare a questo, seppur lontanissimo per origine, strumenti e posizionamento dell’autore, ma che descrive un processo simile ambientato nel centro di Barcellona, è Raval di Arcadi Espada, uscito nel 2003, l’inchiesta di uno dei migliori giornalisti spagnoli che mette a nudo il modo subdolo e spregiudicato con cui le élite hanno rottamato in questi anni gli ambienti e le persone meno presentabili della loro città, facendo leva sulle contraddizioni che la marginalità reca con sé per isolarli nell’opinione pubblica e poi cancellarli dalla mappa con piena legittimità.
Un quartiere orizzontale
Era il 2004 quando Portelli cominciò a fare interviste approfondite agli abitanti di Bon Pastor, un piccolo quartiere alla periferia di Barcellona, costituito da un agglomerato di 784 casas baratas, casette unifamiliari e quindi estese su una cospicua porzione di terreno, costruite nel 1929 per alloggiare gli operai provenienti dal resto della Spagna per lavorare all’Esposizione Universale di allora, ma anche per dare un tetto ai molti baraccati ancora sparsi per la città.
Oggi la metà di quelle case sono state abbattute e gli inquilini rialloggiati nei nuovi edifici a torre, costruiti a poche centinaia di metri di distanza (ma su una superficie ben più ridotta); la riconfigurazione dello spazio in senso verticale ha cancellato le antiche forme di socialità, limitando pesantemente la mobilità degli anziani e dei bambini; e già ora alcune delle famiglie rialloggiate nelle torri non sono più in grado di pagare l’affitto, dieci volte più caro di quello che pagavano nelle vecchie case “orizzontali”. Chi ancora abita al Bon Pastor, si trova invece intrappolato suo malgrado in una delle tante “zone di transizione” che si aprono qua e là nel tessuto urbano della Barcellona rinnovata, a volte in centro a volte in periferia: buchi neri della convivenza, inospitali e abbandonati a se stessi, in cui gli abitanti assomigliano a sopravvissuti di un cataclisma, in attesa di conoscere quale sarà il proprio destino.
Una storia, due versioni
Gli effetti del Plan de Remodelacion, voluto dalle autorità municipali per cambiare faccia al quartiere – ma di fatto per cancellarne ogni traccia – è il perno intorno a cui ruota il libro. L’autore comincia a intervistare per conto della Piattaforma contro la speculazione – un coordinamento di attivisti presente in diversi quartieri – gli abitanti di Bon Pastor interessati dalla prima fase del Piano comunale: più di cento persone, quasi tutti coloro le cui case dovranno andare a terra per prime. Anche se non tutti si mostrano apertamente contrari alla trasformazione, è evidente che quel processo sta risvegliando in ognuno di loro inquietudini di antica data. Anche tra quelli che si dichiarano favorevoli al trasloco nei nuovi appartamenti, “moderni e confortevoli”, molti manifestano un malessere che Portelli mette in relazione con la perdita di uno stile di vita fortemente legato alla forma stessa del quartiere. “Un’incredibile varietà di posizioni – scrive – sfidava le semplificazioni del discorso ufficiale, rivelando le complesse costruzioni culturali che gli abitanti associavano allo spazio e alla sua trasformazione”.
Per verificare il discorso utilizzato dalle autorità a sostegno della demolizione di un intero quartiere per edificarne uno nuovo poco distante, ma in spazi del tutto differenti, Portelli ricostruisce la storia di quel posto dal punto di vista delle fonti ufficiali: una storia fatta spesso di isolamento ma non di separatezza, che si inserisce pienamente in quella più ampia della città catalana, a partire dalle lotte sociali che si svilupparono, soprattutto per influenza anarchica, negli anni Trenta, passando per gli anni bui della guerra e della dittatura fino al risveglio associativo del dopo-Franco e alla cattiva fama che si diffuse con il dilagare dell’eroina negli anni Ottanta.
La stessa storia, nel capitolo successivo, viene narrata desde dentro, dall’interno, attraverso le voci di chi nel quartiere ci ha abitato per tutta la vita. Le differenze sono evidenti. Se, per esempio, la storia ufficiale dà per scontato il presupposto di un quartiere fatto di immigrati e baraccati, disposti a trasferirsi in quella che allora era una terra di nessuno pur di garantirsi un tetto sulla testa, la versione di chi discende da quelle famiglie mette in discussione proprio quel presupposto, soffermandosi sul perché, in quel momento, i loro antenati fossero così poveri: la guerra, il vizio del gioco, un dissidio con la famiglia: nelle parole degli intervistati le spiegazioni si moltiplicano. Secondo molti le loro famiglie non erano affatto povere, ma si trovavano in condizioni di bisogno per una qualche ragione, il cui ricordo è stato tramandato fino a loro. “Si dice – scrive Portelli – che la storia non si fa con i ‘se’: forse però molto dipende dal lato della storia in cui ci posizioniamo. Di fronte a una narrazione dominante che converte sistematicamente le storie delle persone più umili in storie di sconfitte, immaginare una versione alternativa del passato è una maniera di costruirsi una identità accettabile”.
La ricchezza delle narrazioni si manifesta nella parte più propriamente etnografica del libro, rivelando le trasformazioni della vita sociale nel quartiere, ma anche la persistenza dei suoi miti fondativi, costruzioni narrative non registrate in alcun documento ma profondamente radicate nella coscienza popolare. Attraverso i racconti degli abitanti l’autore analizza la percezione degli spazi pubblici e l’estrema permeabilità, fin quasi all’indistinzione, tra questi e gli spazi privati; la diffusione di reti di prossimità molto estese, che comprendono non solo i familiari ma anche i vicini de toda la vida, in una dinamica da “paese dentro la città” che può considerarsi una lontana eco delle città-giardino, il modello urbanistico che un tempo era stato alla base di insediamenti come quello di Bon Pastor; e poi il modo peculiare di risolvere i conflitti, facilitato dalla forma urbana orizzontale e dall’onnipresenza del chafarderío, la versione locale del pettegolezzo, un “fatto sociale totale” che porta con sé innumerevoli implicazioni, non ultima il suo configurarsi come forma decentralizzata di controllo del territorio, esercitata in modo diffuso, da tutti verso tutti.
Il passato di Bon Pastor ci mostra diversi esempi di opposizione non frontale da parte dei suoi abitanti ai tentativi di penetrazione istituzionale, esercitata attraverso forme di resistenza informali e non del tutto consapevoli. In questo senso, Portelli contrappone al “discorso delle mancanze”, che istituzioni e mezzi di comunicazione sono soliti articolare quando si parla di periferie – descritte come “società senza”: controllo, organizzazione, risorse – quello di “società contro”, vale a dire organizzate per impedire la nascita di meccanismi di controllo centralizzato, che metterebbero in pericolo la sopravvivenza stessa della comunità.
L’unità di questa piccola comunità periferica, che nelle interviste si autorappresenta spesso come una grande famiglia o come un paese dentro la città, è destinata a rompersi senza rimedio con il progredire del piano di riqualificazione comunale. La polarizzazione tra favorevoli e contrari agli abbattimenti sarà uno degli elementi che metteranno in crisi le forme di assorbimento del conflitto che avevano funzionato fino a quel momento, minacciando in modo irreversibile la forma urbana che ne aveva permesso lo sviluppo e contrapponendo giovani e vecchi, arrabbiati e rassegnati, nostalgici e modernizzatori. La stessa struttura di relazioni sociali che aveva mantenuto il quartiere relativamente unito per decenni, si trasformerà in un potente strumento di pressione ai danni della minoranza di abitanti che cercherà di opporsi fino all’ultimo alla demolizione delle case, in un crescendo di tensioni e sofferenze che confluiranno in un’esplosione di violenza annunciata.
Per una antropologia collaborativa
Gli avvenimenti di Bon Pastor sono il tassello di un processo più ampio di trasformazione urbana che riguarda il modo in cui una città ha deciso di ricostruire se stessa, sia dal punto di vista fisico che simbolico, adoperando un metodo solo apparentemente paradossale, quello di cancellare gli spazi di socialità dei suoi abitanti meno garantiti, disarticolare le loro forme di organizzazione comunitaria, aumentarne la dipendenza dalle istituzioni e dal mercato, indebolire infine i legami tra loro esercitando una spietata pressione sui pochi refrattari, spingendosi fino a pregiudicarne l’equilibrio psichico e la salute. La diffusione dei traffici illeciti e delle bande criminali sono spesso – dice Portelli – un risultato e non un presupposto di tali processi, che rompono la coesione interna e la capacità degli abitanti di controllare il territorio occupandolo in forme autonome e vive – e per verificare tutto questo non c’è bisogno di andare lontano, basta pensare al moltiplicarsi delle “zone di transizione” e alla deriva camorrista di tanti nostri quartieri un tempo operai.
Per inquadrare il proprio lavoro Portelli parla di “antropologia collaborativa”, che nel caso specifico nasce dall’incontro tra un gruppo di abitanti di Bon Pastor interessati a far conoscere le proprie opinioni e il gruppo di ricerca di Portelli, desideroso di creare alleanze in zone dove di solito non si spingono gli attivisti dei movimenti sociali. Da qui la collaborazione, il tratto decisivo della ricerca, un modo di procedere che manda all’aria ogni presunta esigenza di “neutralità”, quasi sempre un pretesto – sostiene Portelli – usato da chi fa ricerca per mettersi al di sopra di ciò che studia, e immancabilmente al fianco dei poteri costituiti. L’antropologo collaborativo non si schiera a priori, ma semplicemente non ha timore di prendere posizione quando la situazione lo richiede. Il risultato del suo lavoro è il frutto di una negoziazione costante con gli abitanti oggetto della ricerca, dal momento della raccolta del materiale fino alla redazione definitiva del testo, ma arricchita in maniera decisiva da questa vicinanza e da altri tipi di interazioni quasi quotidiane – di appoggio mutuo, di complicità, di festa –, in una pratica che rimescola identità, luoghi comuni e diffidenze nel tentativo di inventarsi collettivamente un futuro.
Quel che è accaduto in questi anni a Bon Pastor si riflette nell’aspetto odierno del quartiere, ancora gradevole con le sue piccole piazze, i giardini, le fontanelle all’ombra degli alberi, che contrastano con le finestre murate e i tetti rotti delle case poste sul confine tra la parte demolita e quella che resta in piedi. Le case abbandonate, con i cancelli arrugginiti e le macchie d’umidità che si allargano a vista d’occhio si alternano a quelle ancora ben tenute, con le facciate dai colori vivaci e le mattonelle a decorare l’ingresso. È l’immagine di un luogo che si trova nel limbo, lo specchio di una lenta agonia ma anche della fierezza indomita di un posto duro a morire. (luca rossomando)
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