«La situazione ai confini di Delhi, dove i contadini sono accampati in modo pacifico da più di due mesi, sta diventando tesa e pericolosa. Ogni possibile trucco e provocazione viene usato per dividere e screditare il movimento. Adesso, ancora più che in passato, dobbiamo stare al fianco dei contadini». Con queste parole la scrittrice e attivista indiana Arundhati Roy ha aperto il discorso tenuto a Pune il 30 gennaio, non lontano da Mumbai, in occasione della seconda edizione di un’iniziativa contro le differenze di casta. Nel gennaio 2018, la prima edizione si concluse con un violento attacco da parte di gruppi nazionalisti hindu vicini al governo, che causò la morte di alcuni “fuoricasta” (dalit) e l’arresto di vari organizzatori dell’evento. Da allora, l’iniziativa è stata sospesa, ma quest’anno più di duecentocinquanta organizzazioni hanno preteso una seconda edizione.
A quasi millecinquecento chilometri da lì, al confine tra il Territorio Federato di Delhi e lo stato dell’Uttar Pradesh, migliaia di contadini e contadine in agitazione continuano il loro presidio nella città temporanea di Ghazipur, tra raccordi autostradali, tralicci dell’alta tensione, templi, moschee, palchi improvvisati e una delle discariche più grandi dell’India intera. Il 30 gennaio, anniversario dell’uccisione di Gandhi, molti dei contadini accampati lì e in altri luoghi intorno a Delhi si sono uniti in uno sciopero della fame (dharma) di un giorno in segno di protesta contro le ritorsioni della polizia dopo la manifestazione del 26 gennaio, quando i trattori sono entrati nel territorio della capitale.
Sempre il 30 gennaio, nel cuore di Nuova Delhi, a poche centinaia di metri dal parlamento, il cortile alberato del Press Club of India ha ospitato un incontro pubblico per condannare le denunce di “sedizione” ai danni dei giornalisti che hanno raccontato i soprusi della polizia durante la manifestazione di qualche giorno prima. Poche ore dopo l’incontro, nella notte tra il 30 e il 31 gennaio, due giovani giornalisti (Mandeep Punia e Dharmender Singh) sono stati arrestati per aver documentato la violenza con cui un gruppo ultranazionalista hindu il giorno prima aveva provato a cacciare i contadini accampati a Singhu, il più grande tra i sette presidi alle porte della capitale.
LA MANIFESTAZIONE DEL 26 GENNAIO
Ma che cos’è successo il 26 gennaio, data in cui ricorreva la 71° Festa della Repubblica Indiana? Per quel giorno una moltitudine di sindacati del settore agricolo ha convocato il quarto sciopero generale da novembre. Obiettivo di questo sciopero, così come dei precedenti, era l’abolizione di tre controverse leggi di riforma del settore agricolo approvate dal parlamento a settembre 2020, senza consultazioni con i sindacati. Anche se lo sciopero del 26 gennaio ha avuto luogo in tutti gli stati del subcontinente (a eccezione di quelli del nord-est e di Jammu & Kashmir), tutti gli occhi erano puntati su Delhi.
I cortei di contadini partiti dai sette accampamenti hanno superato di prima mattina il confine che li separava dal territorio della capitale, sfilando pacificamente lungo i percorsi concordati con la polizia. Nella tarda mattina, alcuni manifestanti hanno deviato rispetto al percorso stabilito. Le autorità di Delhi e il ministero dell’interno hanno invocato il ritorno all’ordine, che si è tradotto nel blocco delle strade con container e autobus sottratti al servizio pubblico da parte della polizia. Per rallentare la diffusione delle proteste, oltre alle strade sono state bloccate anche le connessioni a internet in molti luoghi affollati dai manifestanti.
L’attenzione dei media si è concentrata sulle masse provenienti dall’accampamento di Singhu, in prevalenza contadini di religione sikh arrivati al margine settentrionale di Delhi dagli stati dell’Haryana e del Punjab, al confine con il Pakistan. Alcuni di questi si sono riversati nei pressi del Forte Rosso, luogo simbolo di Old Delhi. Il monumento, patrimonio Unesco e meta di fiumi di turisti prima della pandemia, è stato teatro di scontri tra reparti speciali della polizia e manifestanti, conclusi con l’invasione del sito da parte di questi ultimi. Nonostante le diverse versioni, gli organi di stampa più vicini al governo e quelli più critici concordano su alcuni numeri: circa centocinquanta feriti, più di ottanta indagati e un morto, Navneet Singh, contadino sikh dello stato dell’Uttarkhand.
Oltre che sulle cause della morte del contadino, i media si dividono su un fatto avvenuto nel corso dei tafferugli. Secondo i giornali meno allineati con il governo, come The Caravan o The Wire, alcuni manifestanti sono saliti sul forte per issare la bandiera simbolo della religione sikh (Nishan Sahib) al fianco del tricolore indiano. Secondo la maggior parte dei giornali e delle reti televisive, i manifestanti avrebbero invece sostituito il tricolore indiano con una bandiera simile, simbolo del movimento separatista che ambisce alla creazione di uno stato autonomo in Punjab (il Khalistan), con un possibile sostegno da parte del Pakistan. Nonostante questa versione dei fatti sia stata smentita dall’analisi delle immagini girate al Forte Rosso, vari esponenti della destra nazionalista hindu al governo (BJP) non hanno esitato ad accusare l’intero movimento contadino di essere strumento delle istanze terroristiche e anti-nazionali di stati rivali.
I fatti del 26 gennaio segnano l’inizio di una nuova fase nel difficile confronto tra i contadini relegati ai confini di Delhi da due mesi, il governo e i media indiani. Nei dieci incontri avvenuti finora tra sindacalisti e governo nessuno ha cambiato la propria posizione: i primi chiedono l’abrogazione delle nuove leggi, il governo vuole realizzarle a ogni costo. Nell’ultimo incontro, il governo ha proposto la sospensione delle leggi per diciotto mesi e la costituzione di un comitato di esperti – tutti favorevoli alle leggi in questione – nominato dalla Corte Suprema indiana per valutarne la legittimità. I sindacati hanno rifiutato, sottolineando anche la varietà della composizione delle proteste – che riflette quella del lavoro agricolo in una nazione composta per il settanta per cento da contadini –, in risposta alla domanda del presidente della Corte Suprema S.A. Bobde: «Perché portate a manifestare anche le donne e gli anziani?».
A proposito delle differenze tra i manifestanti e della necessità di restare uniti nonostante tutto, Arundhati Roy nel suo discorso a Pune ha dichiarato con rabbia e commozione: «Le molte sigle sindacali che si sono unite per la protesta dei contadini rappresentano milioni di persone con diverse ideologie e storie. Ci sono profonde contraddizioni tra grandi e piccoli contadini, tra chi possiede la terra e i braccianti che la lavorano, tra sikh della casta Jat e sikh Mazhabi, tra i sindacati di sinistra e quelli più vicini al centro […]. Ci sono contraddizioni e anche storie terrificanti di violenze passate tra caste […]. Queste differenze non sono state nascoste alla vista o dimenticate. Eppure, queste diverse sigle sindacali si sono unite per combattere quella che ormai sappiamo essere una battaglia esistenziale […]. Una battaglia che va combattuta da militanti e vinta in modo meraviglioso».
LA KASHMIRIZZAZIONE DELL’INDIA
I due mesi di proteste sono stati difficili da raccontare al resto del subcontinente, soprattutto perché i principali media hanno tentato in tutti i modi di delegittimare l’operato dei contadini, con interviste mirate a persone che rispondevano a tentoni o direttamente indicate da esponenti del governo. La risposta dei manifestanti è stata di boicottare gli organi di informazione filo-governativi, inventando nuovi canali di comunicazione via internet o attraverso la stampa di giornali cartacei distribuiti di persona tra i diversi presidi.
Negli ultimi giorni, in seguito alla manifestazione del 26 gennaio, il governo ha chiuso i profili Twitter delle testate più critiche, come The Caravan, e ha oscurato pagine gestite direttamente dai contadini come Trolley Times e tractors2twitter, facendo ricadere su di loro l’accusa mossa dal ministro dell’interno Amit Shah di diffondere informazioni false e istigare alla violenza. Queste misure, insieme all’arresto di alcuni giornalisti e all’accusa di “sedizione” mossa contro alcune testate, sembrano essere segnali di una progressiva “kashmirizzazione dell’India”, ovvero un’estensione del modo in cui il governo ha già represso le proteste politiche in Kashmir, bollandole come attacchi all’unità della nazione.
Dalle mobilitazioni contro la nuova legge di cittadinanza dello scorso inverno alle proteste degli studenti fino alle attuali manifestazioni contro le nuove leggi sull’agricoltura, la recente storia politica indiana – e di Delhi in particolare – mostra un costante attacco ai diritti democratici di larghi strati della popolazione. Nelle moltitudini che hanno invaso la capitale prima e dopo il lockdown si ritrovano volti e parole d’ordine comuni, sintomo di un malessere generale verso un progetto di nazione hindu che strizza l’occhio ai grandi gruppi economici del paese, promettendo benessere e sicurezza a chi non si metta di traverso.
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