Fin dall’inizio dell’emergenza epidemica le istituzioni, i privati e i clienti hanno ritenuto il ruolo dei fattorini indispensabile. Nei dibattiti deliranti e distorti dalla realtà virtuale il lavoro delle consegne – svolto in condizioni di estremo rischio di contagio, senza tutela e giusta paga – non è contemplato, così come sono poco menzionate le categorie lavorative che non hanno smesso di produrre sulla base di autocertificazioni accordate senza controllo. I discorsi si inseguono superficiali all’interno della bolla mediatica, il tempo scorre dilatato e ognuno vive in un mondo parallelo, scollegato dal prossimo. Eppure un altro tempo, lineare e meccanico, sfrutta la precarietà di lavoratrici e lavoratori: basta scendere in strada per osservarne le dinamiche.
Il primo maggio lavoratori e lavoratrici del food delivery, stufi di questa ipocrisia, hanno infranto il divieto di assembramento e hanno lanciato lo sciopero delle consegne, avanzando rivendicazioni sinora inascoltate dal governo e dagli imprenditori. I rider chiedono il minimo orario garantito sganciato dalla produttività, una tariffa minima per ordine non inferiore a cinque euro, la cancellazione del ranking e di ogni parametro di valutazione; un monte ore definito, dispositivi di protezione e manutenzione del mezzo a carico dell’azienda, accesso a disoccupazione e malattia, come a tutte le generali tutele del lavoro subordinato, possibilità di rinnovare il permesso di soggiorno, cancellazione del tetto di cinquemila euro. Così si sono auto-organizzati, mentre i sindacati confederali hanno festeggiato la giornata dei lavoratori e delle lavoratrici in varie piattaforme e con campagne di sensibilizzazione on-line, fuori dalla realtà che esiste anche durante la quarantena. Sui vari siti delle organizzazioni sindacali sono comparsi slogan e niente di più: scrivono “Ripartiamo dal lavoro”, ma la realtà del virus indica una condizione più inquietante. Colpisce una foto del mattino di questo primo maggio, scattata a Torino: una decina di rider, colti di spalle e a distanza tra loro, stanno davanti al monumento di piazza San Carlo, dove tradizionalmente si conclude il corteo istituzionale con comizi e palloncini. Quest’anno Cgil, Cisl e Uil non si sono presentati e la vittoria dei rider è ottenuta a tavolino. Più tardi, nel tardo pomeriggio, in una città deserta e militarizzata, hanno iniziato a radunarsi lavoratori e lavoratrici in sciopero.
Il presidio è organizzato davanti al monumento dedicato ad Emanuele Filiberto, in piazza Castello. Muniti di mascherine, cassoni e biciclette, i fattorini mantengono la distanza tra loro per tutelare la salute, senza aspettare interventi delle aziende, che non hanno garantito le protezioni minime. È inoltre importante non creare pretesti utili alle forze dell’ordine, che osservano da tutti i lati della piazza, filmando i presenti e disponendo decine di blindati come in un Risiko. Uno striscione recita: “Se lavorare è essenziale, lottare è vitale”, sintetizzando perfettamente il paradosso di un paese dove le libertà fondamentali sono sospese ma la produzione no, nonostante l’esigenza di garantire la salute collettiva. Vengono distribuite le mascherine a chi non le ha e si aspettano colleghi e colleghe prima dell’inizio del turno. Il clima è rilassato, nonostante il numero sproporzionato di forze dell’ordine. Una presenza imbarazzante: quando i lavoratori si riuniscono davanti ai ristoranti per aspettare il proprio ordine, la forza pubblica non sente la necessità di vigilare o di sanzionare il ristoratore (ma quello è lavoro, l’unica cosa che conta). Per i fattorini è ormai consuetudine dividere le strade con polizia e pochi altri.
Per disturbare il più possibile le aziende e bloccare il servizio, i rider si dividono in tre gruppi: uno resta in centro, un altro va verso nord, un altro ancora a sud. Ogni gruppo si porta dietro una media di dieci camionette e decine di agenti in borghese, a bordo delle loro Fiat Punto. Come in altre coraggiose e sporadiche iniziative di queste settimane, chi guarda dai balconi e dalle finestre, o chi incrocia lo sciopero passeggiando, applaude ed esorta a continuare: il tempo della delazione sembra passato, qualcuno si unisce o si avvicina chiedendo informazioni. Per le strade s’urla in sella: “Sciopero! Sciopero! Lotta rider in tutte le città! Glovo schiavista sei il primo della lista!”.
In ogni zona i rider raggiungono i ristoranti che continuano a restare aperti e che spesso sono teatro di assembramenti obbligati per aspettare l’ordine e portare a casa il turno con un guadagno decente, dopo ore passate in strada. Presentarsi fuori ai locali più gettonati nelle app del delivery è anche un modo – uno dei pochi durante la pandemia, senza incorrere in sanzioni – per parlare e confrontarsi con colleghi e colleghe sulle loro condizioni lavorative e invitarli a scioperare. Le uniche aziende che non hanno smesso di assumere, infatti, sono quelle delle consegne. La speranza è anche quella di parlare con i ristoratori stessi, che nell’emergenza versano quasi un terzo dell’ordine ai gestori delle app. I rider cercano di convincerli a “staccare il tablet” e smettere per qualche ora di fare profitto. La risposta è spesso corporativa: alcuni sbuffano, si lamentano delle condizioni, dicono d’essere costretti a utilizzare l’app per campare e cercano la complicità di chi sta lavorando e aspetta l’ordine. Altri, ma sono una minoranza, accettano, staccano il tablet e consegnano agli scioperanti gli ordini inevasi che serviranno a rifocillare innanzitutto i colleghi in Ramadan alla fine del turno.
Lo sciopero continua tutto il giorno, i gruppi si riuniscono e infine si sciolgono insieme in piazza Castello. Le consegne vengono portate a termine a fatica, s’accumulano i ritardi e tanti sono gli ordini rifiutati per mancanza di rider disponibili. Le chat di assistenza sono intasate per il numero altissimo di richieste. Nel settore del food delivery, e a Torino soprattutto, queste pratiche di sciopero e blocco del servizio sono ormai consolidate da anni, già note, ma questa volta assumono un tono ribelle mai avvertito prima. È ossigeno, in questa soffocante quarantena ricca di assurdità, partecipare a uno sciopero che chiede dignità e sicurezza sul lavoro. In città, durante la giornata, sono comparsi intanto striscioni affissi da collettivi e solidali, in alcune occasioni identificati dalla polizia. I richiami scritti ricordano quel mondo sommerso di cui le istituzioni non si vogliono occupare: “Confindustria comanda, il governo esegue”, “Prima la nostra salute del loro profitto”, “I tagli alla sanità uccidono”, “Se non lavoro non pago l’affitto”. Due striscioni erano appesi all’esterno di due ospedali chiusi e abbandonati, uno fuori lo stabilimento Fca, a Mirafiori. La fase due è pronta a iniziare. (ilaria magariello)
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