Se in pochi sono a conoscenza del fatto che, per buona parte del secolo scorso, la Campania si è retta su di una vera e propria economia dei manicomi (tre civili e tre giudiziari), ancora meno persone conoscono la storia delle lotte che hanno consentito, anche a partire da qui, l’approvazione della legge 180 e della riforma dei servizi di salute mentale. Una stagione che si è protratta ben oltre l’approvazione della legge e che in Campania ha avuto come protagonista Sergio Piro, figura intellettuale di raro pregio che sarebbe riduttivo definire solo come psichiatra. Primavera 180. Le lotte e le esperienze psichiatriche alternative in Campania nella stampa quotidiana (Sensibili alle foglie, 2018) è il titolo del libro firmato da Teresa Capacchione che ricostruisce attraverso la stampa quotidiana la storia della psichiatria in Campania e delle lotte che, tra il 1965 e il 1999, hanno portato dall’abolizione dei manicomi alla creazione della rete dei servizi territoriali. La Capacchione, psichiatra, allieva di Piro e oggi presidente dell’associazione che porta il suo nome, con un lavoro di meticolosa ricostruzione degli eventi e del dibattito che se ne sviluppa, non solo interviene a colmare un vuoto della ricerca storica in questo campo, ma ancor di più, dimostra che nessuna analisi del presente può prescindere dalle dinamiche del passato.
Il libro ripercorre le fasi iniziali della lotta per la chiusura dei manicomi (1965-1975), i primi tentativi di umanizzazione che si saldano con le altre esperienze nazionali (in particolare con quelle di Gorizia e Trieste), per approdare a una stagione di lotte aspre per le quali si sono pagati prezzi alti. Per esempio, nel 1969, lo stesso Sergio Piro viene licenziato dall’incarico di direttore del manicomio di Materdomini (Nocera Superiore). Piro, in qualità di direttore, ha intrapreso un percorso di comunità terapeutica aperta, volto al superamento del manicomio, sospendendo l’uso dei mezzi di contenzione e consentendo a Luciano D’Alessandro di fotografare le terribili condizioni di abbandono nelle quali giacevano gli internati. (Gli esclusi, foto documentario del 1969). Tutto questo porta a un conflitto con la proprietà del manicomio (appartenente a una famiglia che beneficiava dei contributi della Provincia) non intenzionata a ridurre i propri margini di profitto per migliorare, sia pur di poco, le condizioni di vita degli internati. Il licenziamento di Piro, che chiedeva al Ministero una commissione di inchiesta per verificare le condizioni di vita degli internati, fu il segno dell’apertura a livello nazionale di un fronte più radicale di lotta. La lotta non è per l’umanizzazione dei manicomi, ma per il loro superamento. Nel 1973, assieme al suo amico e compagno Franco Basaglia, Sergio Piro fonderà Psichiatria Democratica, entrando a far parte della segreteria nazionale.
La fase della riforma, nel periodo a cavallo tra il 1976 e il 1983, segna il passo in avanti decisivo per l’approvazione della 180 e fa registrare esperienze avanzate, sia nel lavoro interno alle istituzioni manicomiali che nella creazione di esperienze territoriali. Nell’Ospedale psichiatrico Frullone, scrive la Capacchione, già a partire dal 1975 si svolge “una sorta di piano di anticipazione della riforma che prevede una contemporaneità di lavoro tra manicomio e territorio e un’organizzazione territoriale anticipatrice dell’istituzione delle unità sanitarie locali”. A Giugliano, in quello stesso anno, nasce il Centro di Medicina Sociale, struttura sanitaria di base per rispondere in modo integrato ai bisogni sanitari elementari del territorio. Questo periodo, in cui alla progressiva chiusura dei manicomi si accompagna la lenta strutturazione dei servizi territoriali, seppure non priva di criticità, è il più ricco e interessante in termini di sperimentazioni e proposte innovative. A questa fase seguirà la lenta strutturazione dei servizi (1984-1993) e la lotta – alla quale parteciperanno attivamente anche le associazioni dei familiari – per consentire il loro reale funzionamento. Una strutturazione che assumerà forme differenziate a seconda dei territori e che pagherà un grandissimo prezzo alla fragilità di un modello costretto a emergenze e cronicità e alla scarsità di risorse finanziare.
Il libro parte da lontano per arrivare, agilmente, ma senza perdere in ricchezza di dettagli, fino ai giorni recenti, quelli in cui si è affermato il modello di aziendalizzazione dei servizi sanitari. Cosa dire, dunque di questo presente? Scrive la Capacchione: “Questo libro viene da lontano per un ultimo motivo: è stato concepito negli anni in cui sembrava che il manicomio e i suoi orrori fossero stati definitivamente liquidati e che il modello di una salute mentale territoriale non fosse più ritrattabile. In realtà in questi ultimi venti anni si è assistito, soprattutto con l’avvento della aziendalizzazione, a un depauperamento delle risorse sia economiche che umane destinate ai servizi di salute mentale”. Inoltre, aggiunge, “la quasi totalità delle strutture intermedie residenziali si sono trasformate in piccoli manicomi, gli SPDC (i servizi psichiatrici di diagnosi e cura) si sono trasformati in veri e propri lager dove sommersione farmacologica, contenzione fisica, segregazione sono gli strumenti utilizzati per il trattamento delle crisi”.
A quaranta anni dalla legge 180 siamo come tornati a un nuovo punto di partenza. In questo senso, l’importanza del libro della Capacchione sta nel fare memoria senza concedersi alle celebrazioni e alle retoriche. Per questo è un libro importante. Perché serve a costruire un orizzonte di senso entro il quale fissare i nuovi obiettivi delle lotte in corso, che poi sono gli stessi di quella primavera che ancora deve trasformarsi in estate. Includere, accogliere, curare, piuttosto che escludere, custodire, punire. (dario stefano dell’aquila)
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