da: perUnaltracittà
Da trent’anni la Clean Clothes Campaign (campagna globale Abiti Puliti) denuncia lo sfruttamento del lavoro nel settore tessile e della moda, puntando un faro su discriminazione e disuguaglianze specialmente nel sud del mondo e ai danni delle lavoratrici donne.
Ma oggi queste asimmetrie si manifestano anche qui, accanto a noi, nei capannoni del distretto tessile di Prato, e colpiscono senza distinzioni di genere. A testimoniarlo sono gli operai accampati davanti ai cancelli di una fabbrica incastonata tra le abitazioni nella zona nord ovest della città, la Iron&Logistics, stireria industriale che lavora per l’alta moda, che il 3 ottobre scorso ha licenziato in tronco ventidue dipendenti. La colpa di questi lavoratori sarebbe quella di fare attività sindacale e di avere chiesto puntualità nel pagamento dello stipendio, uno stipendio che poteva tardare da dieci giorni a quattro mesi.
Arriviamo ai cancelli della Iron&Logistics dopo un episodio di aggressione che ha mandato al pronto soccorso uno degli operai in presidio, con dodici giorni di prognosi per trauma cranico e una ferita da taglio alla mano. Spieghiamo chi siamo e i presidianti ci indicano Tariq, sarà lui a raccontarci la storia: «Tutti noi licenziati da Iron&Logistics prima lavoravamo in un’altra stireria, la TopLine. Il lavoro era di dodici-tredici ore al giorno, sette giorni su sette, a quattro euro l’ora. Avevamo il contratto registrato per quaranta ore settimanali, ma non ci hanno mai versato i contributi. Questo il trattamento riservato a noi stranieri, pakistani e nigeriani, mentre gli italiani lavoravano otto ore a dieci-quindici euro l’ora e con i contributi versati. Noi non avevamo tutele, nemmeno la malattia: un operaio nigeriano si è schiacciato una mano nella pressa e restò a casa quindici giorni senza stipendio.
«Il gioco a cui sta giocando il padrone della Iron&Logistics – ci dice Sarah Caudiero, del SiCobas – questi operai lo conoscono bene, perché la stessa cosa è successa alla TopLine, solo che la battaglia sindacale ha scritto una storia diversa». Quando nel giugno 2021 i lavoratori entrarono in agitazione sindacale alla TopLine, furono licenziati e la proprietà iniziò immediatamente a smantellare lo stabilimento, per riaprire poco distante ma senza il peso del sindacato, aggirando così i controlli dell’ispettorato del lavoro. Macchinari e commesse passarono alla Iron&Logistics. «Nel silenzio delle istituzioni questo distretto è diventato terra di “delocalizzazioni interne”, dove le fabbriche si “fanno e disfano” a scopi elusivi. Ma grazie alla mobilitazione sindacale – si legge sulla pagina Facebook del SiCobas di Prato – fu garantito che Iron&Logistics assorbisse in blocco i dipendenti della TopLine e che a questi fossero riconosciuti i diritti dovuti».
Così i ventidue licenziati della TopLine si ritrovarono assunti dalla nuova ditta, con condizioni migliori: contratto, lavoro di otto ore, contributi versati. «Sono stati assunti con il secondo livello del contratto tessile-moda – spiega Sarah Caudiero – ma anche su questo aspetto sono state necessarie battaglie perché in genere vengono assunti al primo livello e vi rimangono per cinque-sei anni. Lo stipendio di un primo livello, per intendersi, è di mille e duecento euro lordi per quaranta ore e quindi mille, mille e cento euro al mese. Infatti tutti gli altri operai della Iron&Logistics, una cinquantina, non iscritti al sindacato, hanno ancora il primo livello».
Le condizioni nella nuova fabbrica sono notevolmente migliorate ma c’è ancora qualcosa che non funziona. Racconta Tariq: «Il nuovo padrone non paga regolare. Il contratto prevede il pagamento il giorno 20 del mese, ma il bonifico non arriva. Allora io e gli altri chiediamo quando arriva e lui dice sempre “domani”», ci mostra la chat dal suo telefono: periodicamente ha dovuto chiedere e insistere per giorni prima di ottenere l’accredito. «Come faccio a pagare l’affitto? Come faccio ad andare al mercato, a mangiare?». I ventidue operai che arrivano dalla TopLine non si limitano a chiedere, scioperano. E ottengono che gli stipendi vengano pagati, a tutti. Il “virus sindacale” si diffonde in fretta, e presto anche altri operai vanno nell’ufficio del padrone per pretendere un pagamento puntuale. Troppo per quel genere di imprenditore. E così il 3 ottobre scorso, quando Tariq e gli altri arrivano al lavoro, le loro tessere-badge non funzionano, sono state smagnetizzate, i cancelli per loro sono chiusi: sono stati licenziati.
Mentre parliamo con Tariq, arriva Neefz: «Dov’è la legge italiana? Noi vogliamo tornare a lavorare, vogliamo i nostri stipendi, i nostri diritti. Abbiamo controllato. È vero che la Iron&Logistics paga i contributi, ma non tutti. Ad alcuni mancano cinquemila, settemila, fino a diecimila euro di contributi. Il tribunale è troppo lento. Anche il comune è venuto a controllare ma non fa niente, così la prefettura, la polizia, gli altri sindacati, la Cgil. Tutti difendono i padroni. E gli operai? Gli operai chi li difende?».
Il SiCobas Prato ha presentato ricorso contro i licenziamenti al Tribunale del lavoro e sono in corso incontri di mediazione con la regione Toscana, ma intanto il presidio davanti ai cancelli continua. Subito dopo l’aggressione sono in tanti a portare solidarietà ai lavoratori che dormono in tenda, all’aperto. Quando arriviamo noi c’è anche un gruppo di giovani studenti. La fabbrica oggi è rimasta chiusa, nessuno si è presentato per smontare i macchinari. Gli operai resistono e fanno i turni per essere sempre presenti nonostante l’umidità, le scomodità, le piccole tende a igloo aperte sul duro asfalto del piazzale. Avevano un bagno chimico, ma è stato rimosso perché occupava abusivamente il suolo pubblico, senza tenere conto dei bisogni di queste persone che stanno lottando per il posto di lavoro. Il SiCobas ha portato un piccolo camper. Prima di salutarci veniamo invitati al presidio organizzato per il giorno dopo nel centro di Prato, in quelle stesse strade dove in vetrina si espongono gli abiti di lusso stirati da loro stessi o da altri lavoratori sfruttati.
Gli invisibili sono usciti allo scoperto, sono scesi in strada, si sono mostrati alla città, con una richiesta tanto semplice nel significato quanto difficile da ottenere, scritta su un pezzo di cartone: “Lavoro come legge italiana”. Niente di più, niente di meno: del resto sono persone emigrate per questo, per lavorare ed essere pagate. «Io conosco bene il mio lavoro – afferma Neefz che è arrivato in Italia a piedi, attraverso la rotta balcanica – ho cinque anni di esperienza, sono da dieci anni in Europa. Ora voglio tornare a lavorare, ma secondo le regole della legge italiana. Mi piace l’Italia, voglio stare qui». (
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