Una domanda può sorgere spontanea dalla lettura dell’ultimo libro di Gioacchino Toni, Pratiche e immaginari di sorveglianza digitale (il Galeone, 2022, pp. 227, 15 euro): quando si troverà il modo di abbattere l’ultimo diaframma, l’ultima barriera fisica e neuronale che separa un cervello umano dal flusso incessante della iperconnessione globale, sarà ancora lecito parlare di un Io, di un Soggetto, di una qualche individualità in grado di essere definita, connotata, vantare una vita e una fisionomia propria? Dove si collocherà il confine tra “dentro” e “fuori”? Ed è lecito dire che le nuove generazioni post rivoluzione digitale non stanno condividendo più la medesima realtà delle generazioni precedenti – non come fatto antropologico o culturale, ma proprio come visione soggettiva, come percezione del reale? E dentro questo salto quantico generazionale, è ancora possibile tenere in piedi il postulato di ogni filosofia materialista, l’idea cioè dell’esistenza di un mondo oggettivo, condiviso, unico per tutti e conoscibile attraverso i medesimi strumenti gnoseologici?
Sono domande cruciali che, con metodo e misura, il lavoro di Toni prova ad affrontare, a partire dall’impatto crescente delle nuove tecnologie sul nostro quotidiano, sulle pratiche che abbiamo assimilato (coercitivamente) e che ormai diamo per scontate, dentro modelli e griglie rigidamente pre-impostate. Ragionamenti che, partendo dal modo di vivere e lavorare, invitano al dibattito sul rapporto tra realtà e immaginario, tra libertà e partecipazione (degli individui/utenti/clienti/produttori di rapporti sociali); così come sui margini di ulteriore assorbimento della nuda Vita dentro la meta-macchina digitale e l’Intelligenza Artificiale. La categoria di “capitalismo della sorveglianza” – mutuata dal lavoro di Shoshanna Zuboff – è lo strumento che Toni utilizza per tenere insieme l’alto e il basso di questo oceanico ragionamento: la riflessione sull’umano e sulla inaudita asimmetria di potere e conoscenza che gerarchizza la società attuale, deve trovare fondamento nell’indagine del quotidiano, nella scandalosa verità per cui i nostri comportamenti sono al medesimo tempo il prodotto e il mezzo di produzione, il sorvegliato e il sorvegliante, di questo raffinatissimo dispositivo di creazione di valore e di senso.
“In un panorama contraddistinto da una tendenziale messa in finzione e dematerializzazione della realtà, da una spiccata propensione esibizionistica degli individui e da un processo di desoggettivazione antisociale, il settore del capitalismo della sorveglianza trova il suo motore di crescita nei mezzi di analisi, predizione, indirizzo comportamentale e nella trasformazione dei consumatori in lavoratori senza che questi siano (o vogliano essere) consapevoli, sempre più dipendenti dal mondo digitale così come è strutturato. Quello che è stato definito come capitalismo della sorveglianza incide sul reale attraverso le applicazioni, le piattaforme e gli oggetti tecnologici che si utilizzano quotidianamente e lo fa sfruttando: i tempi ristretti imposti dalla società della prestazione; la propensione a ricorrere a comodi sistemi intuitivi e pronti all’uso percepiti come neutri; la parcellizzazione dell’apprendimento; l’accesso selettivo alle informazioni utili a esigenze immediate di relazione; il desiderio di aderire a una visione certa di futuro pianificata a tavolino dagli elaboratori aziendali a partire dalle informazioni sui comportamenti degli individui raccolte ed elaborate. Si è di fronte al più sofisticato strumento di monitoraggio, predizione e indirizzo comportamentale mai visto all’opera nella storia e tali pratiche di controllo e manipolazione sociale e individuale non sono in possesso di un tradizionale stato di polizia, ma di alcune grandi aziende private, vere e proprie nuove superpotenze, che agiscono con il supporto di un certo entusiasmo popolare: dopo tutto, questi accattivanti dispositivi digitali sembrano offrire gratuitamente ciò che tutti desiderano, compresa una sensazione di partecipazione, relazione sociale, identità e protagonismo. Cioè, tutto quanto è stato fatto loro perdere per strada un poco alla volta”. (pag. 27)
Farsi un selfie, postarlo sul social preferito, scambiare pareri e battute online, cercare informazioni commerciali o selezionare musica, sono tutte microscopiche azioni quotidiane che alimentano, attraverso miliardi di informazioni che scorrono in tempo reale, questo moloch inafferrabile e onnipervadente di raccolta e profilazione. Per Toni, il problema non è più quello tradizionale di come porsi verso i nuovi media, dividendosi tra apocalittici e integrati: qua siamo oltre, dentro una specie di mondo nuovo che però è stato già colonizzato da potenze e regole a noi sconosciute, di cui si avverte la strisciante pericolosità rispetto a una qualsiasi idea di libertà.
Da questo punto di vista, il nodo essenziale della formazione delle identità, va letto e inquadrato in una luce nuova, per le nuove generazioni. La infosfera non si presenta più come appendice o virtualità, quanto piuttosto come terreno costituente, fondativo, del processo di costruzione dell’Io.
“Non è difficile scorgere nella contemporaneità, una vera e propria ossessione per la trasparenza e una propensione all’esibizionismo. Si tratta di questioni contraddittorie. Se la smania per la visibilità e l’ossessione per la trasparenza possono derivare da finalità nobili, come per esempio rivendicare, pubblicamente e con orgoglio, condotte e culture apparentemente indigeste al pensiero dominante, non di meno rispondono anche a un’urgenza dettata da un sistema che richiede pressantemente all’individuo di fornire e gestire un’immagine personale adeguata alle richieste sociali prestazionali e mercificate. In cambio di un rassicurante riconoscimento pubblico, sancito magari dall’ottenimento di tanti like, si è facilmente indotti a mostrarsi e condividersi in maniera omologata in modo da risultare graditi ai più.(…) Se, in generale, la sorveglianza agisce per gestire, controllare e indirizzare la popolazione, il tipo di sorveglianza reciproca e orizzontale che si sta dispiegando – la cosiddetta sorveglianza sociale – produce autodisciplina: lo sguardo della sorveglianza tende dunque a essere interiorizzato agendo sulle pratiche degli appartenenti alla comunità coinvolta”. (pag. 30)
Le pagine in cui Toni si sofferma sulla prima generazione “datificata ancor prima della nascita” alludono a scenari distopici: l’utilizzo privatistico delle immani raccolte di dati sui futuri nascituri (agevolati dalle pratiche social dei genitori) e dei relativi profili medici e biometrici, per non parlare dei dati generati dai processi educativi, ormai largamente digitalizzati.
“Sebbene negli Usa e in Europa vi siano leggi che proibiscano alle aziende private di vendere a terzi dati raccolti nell’ambito dell’educazione, non è poi così difficile per tali piattaforme aggirare i vincoli legislativi e aggregare i dati sotto un unico profilo ID in grado di seguire l’individuo lungo la sua intera esistenza. Una ricerca del 2019 pubblicata dal British Medical Journal ha mostrato come buona parte delle app relative alla salute, condividano i dati raccolti con fornitori di servizi, che a loro volta li girano soprattutto a società di ambito tecnologico, pubblicitario e persino ad agenzie di credito: anche i dati raccolti prima della nascita possono concorrere all’ottenimento o meno di un credito nell’età adulta”. (pag. 192)
I capitoli sull’Intelligenza Artificiale – che Toni invita a liberare dall’immaginario hollywoodiano per meglio coglierne la pericolosità “domestica” e quotidiana – sono altrettanto densi di suggestioni.
“È importante chiedersi che tipo di relazione strutturino i bambini con agenti dotati di IA. Sebbene non vi sono al momento risposte univoche da parte degli studiosi, quanto il rapporto possa diventare intimo e personale, di certo occorre non dimenticare che tali tecnologie domestiche sono pianificate con preconcetti culturali e sociali, dunque è importante domandarsi quale tipo di valori trasmettano ai bambini. Di certo Alexa e Google Assistant sono progettati per incentivare e facilitare il consumo, ma quali preconcetti culturali trasmettono? La scelta della voce femminile in molte tecnologie smart, per esempio, rafforza il pregiudizio culturale che vuole la donna assistente e servizievole. Tra i casi che hanno fatto più discutere, si possono citare quello riguardante Hello Barbie, una bambola rivelatasi in grado di registrare le conversazioni casalinghe per la raccolta di dati sui bambini e i loro familiari e la profilazione attuata da Amazon attraverso Echo Dot Kids. (…) Si tratta di raccolte che avvengono sempre più sfruttando la la ricognizione vocale”. (pag. 193)
Importanti sono anche i nuovi scenari – narrati quasi “in diretta” –, nei quali le forme stato tradizionali stanno cercando di rinegoziare con le grandi piattaforme-mondo, un rapporto meno squilibrato e più condivisivo della sovranità digitale. Fenomeno questo parallelo a una più spiccata “nazionalizzazione” di tali piattaforme, chiamate sempre più a schierarsi a difesa dei rispettivi regimi politici di riferimento. Si sta andando verso una forma di “imperialismo digitale” che ricalca la descrizione leniniana del capitalismo monopolistico di Stato – la “compenetrazione monopolistica tra grandi conglomerati industriali, capitale finanziario e potere statale”? Finora la politica è sembrata in ritardo su questi processi, svolgendo un ruolo ancillare o parassitario nei confronti degli oligarchi del web. Oggi il futuro di questo rapporto è in piena ridefinizione. Di sicuro – e su questo Toni è abbastanza esplicito – sono da archiviare tutte le vecchie utopie libertarie che hanno accompagnato la nascita della rete e l’apertura delle sue insidiose agorà: social e piattaforme si stanno rivelando processi moderni di enclousures, non autostrade di libertà per i movimenti e le idee di cambiamento. Come rapportarsi a questa condizione oggettiva, senza coltivare altrettanto utopiche suggestioni di fuga e sottrazione dalla infosfera, è probabilmente la questione centrale del presente, tutt’ora aperta e irrisolta per un deficit di discussione politica collettiva su questi nodi.
Gioacchino Toni – esperto di queste tematiche, che affronta con regolarità sulle pagine di Carmilla, sorretto nel suo lavoro di indagine da una poderosa bibliografia –, propone una lettura che unisce rigore nella ricerca e dovere etico della divulgazione: un campo di esplorazione ancora ostico per il largo pubblico, ma verso il quale è necessario conquistare un punto di vista critico più avanzato. L’oggetto di questo saggio, in fin dei conti, siamo noi, non la tecnologia. (giovanni iozzoli)
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