Condannata a tre anni e otto mesi la quindicenne rom accusata di aver rapito una bambina
Lunedì 11 gennaio presso il tribunale per minorenni di Napoli, davanti al collegio presieduto dal giudice dott.ssa Cirillo, si è concluso il processo ad A.V. la ragazza rom di quindici anni che nel mese di maggio venne arrestata con l’accusa di aver tentato di rapire una bambina di sei mesi a Ponticelli. Quei fatti, lo ricordiamo, contribuirono ai pogrom dei campi rom a Ponticelli.
Da allora la ragazza è rimasta nel carcere minorile di Nisida per detenzione cautelare. A difenderla l’avvocato Cristian Valle, del gruppo Soccorso legale. In questo tempo la ragazza non ha mai ricevuto visite di parenti o amici tranne quelle dell’avvocato difensore. Alla fine del processo è stata condannata a tre anni e otto mesi di reclusione per sequestro di persona aggravato.
Il processo è iniziato il 14 novembre. Il primo giorno, dopo sei mesi di carcere, la ragazza faceva probabilmente la sua prima uscita. Appariva molto giovane, quasi una bambina, ben vestita e curata, con lunghi capelli neri legati a coda, impaziente di esprimersi e speranzosa di trovare ascolto. Appena il giudice le chiedeva se volesse parlare, infatti, si affrettava a dire, in un italiano stentato: «Signor giudice, io non ho preso la bambina, sono entrata nel cancello ma poi basta, non sono salita», trattenendo a stento un pianto soffocato.
Nella stessa udienza veniva sentita anche la teste chiave del processo, Flora Martinelli, la mamma della bambina presunta vittima del sequestro, che invece raccontava tutta un’altra versione: erano le otto di sera, si trovava in casa con la sua bambina, in due stanze diverse; la bambina era legata a un seggiolone, a intervalli regolari lei si recava nella stanza della piccola, quando a un certo punto, «solo Dio sa come mai», si accorgeva che la porta d’ingresso era socchiusa; senza controllare la bambina, si avvicinava alla porta e vedeva sul pianerottolo, in procinto di scendere le scale, l’imputata con la sua bambina in braccio, quindi gliela strappava dalle mani e si metteva a gridare; la bambina piangeva, allora la riponeva su una seggiolina che si trovava lì nelle scale, ma senza legarla – «Non l’ho legata la mia bambina, non l’ho legata» – e passava a rincorrere la presunta rapitrice, a lei si aggregavano suo padre e poi altri abitanti del quartiere.
L’avvocato Valle ritiene la versione della madre, unica testimone, «oggettivamente poco verosimile»; nel breve lasso di tempo che intercorre tra un controllo e l’altro «A.V. sarebbe riuscita a introdursi nella sua abitazione, approfittando che la donna era in camera da letto per riporre dei vestiti, sarebbe riuscita a prendere la neonata, slacciandola dal seggiolone e a uscire dall’appartamento, il tutto in pochi secondi, senza il minimo rumore e senza provocare il pianto della bambina».
L’avvocato difensore formulava anche un’eccezione di carattere procedurale: «Gli atti comunicati alla minore non sono stati tradotti nella sua lingua d’origine». Eccezione respinta in quanto, a parere del collegio, la minore intendeva perfettamente la lingua italiana. In quella occasione l’avvocato chiedeva anche l’eventuale ammissione alla messa alla prova, che prevede un percorso di reinserimento sociale con attività di volontariato. Anche questa richiesta è stata respinta, perché da prassi del tribunale può essere concessa solo in caso di confessione dell’imputato.
L’11 gennaio, dopo le conclusioni del pubblico ministero – che, ricordando trattarsi «del processo a un singolo e non a un popolo», chiedeva per la minore sei anni di reclusione – e dell’avvocato difensore – che metteva in evidenza «le contraddizioni e l’oggettiva improbabilità che una quindicenne possa concepire e cercare di realizzare assolutamente da sola un tale disegno criminale, senza un’organizzazione alle spalle, senza un minimo di logistica e senza un mezzo per allontanarsi dall’abitazione» – il processo si concludeva con la condanna della minore a tre anni e otto mesi.
Si tratta della prima condanna di una minore per un reato del genere in Italia. Inoltre, come denuncia il difensore, il tribunale non ha concesso alcun beneficio di legge, sulla base della circostanza che la minore risulta a sua volta abbandonata (e quindi mancherebbero punti di riferimento per valutare la sua personalità e il contesto di appartenenza). È probabile che i legali propongano appello avverso la sentenza e ricorso in Cassazione.
Uno studio dell’università di Verona condotto dalla ricercatrice Sabrina Tosi Cambini, dal titolo La Zingara rapitrice, da poco pubblicato – si legge nell’introduzione che gli autori hanno accelerato la pubblicazione proprio dopo i fatti di Ponticelli –, e richiamato in giudizio anche dal difensore, riporta alcuni dati: negli ultimi vent’anni sono quaranta le denunce di donne italiane a carico di donne rom. Tutti i casi rispettano un preciso paradigma: si tratta di donne italiane giovani, accusatrici e uniche testimoni del fatto, con un unico primo figlio di pochi mesi. Quasi tutte le denunce si sono rivelate infondate prima dell’instaurazione di un giudizio: in molti casi le madri dichiarano di essersi sbagliate. Solo in sette di queste ipotesi si è aperto un processo penale, mai conclusosi con una condanna per sequestro di persona. Nei pochi casi di condanna questa avviene per tentato sequestro o derubricata nel reato di sottrazione di minore, in ogni caso mai a carico di una minorenne che agisce da sola. (francesca saudino)
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