Abbiamo intervistato Ernest Pignon Ernest, finalmente. Quanto segue nasce prima di tutto da una curiosità, dalla voglia di confrontarsi con chi, prima di noi, ha vissuto la città come un’atelier diffuso. Lo ringraziamo, prima di tutto, di aver gettato un seme nella nostra città, ma anche della passione e dell’entusiasmo dimostrato nel raccontarsi.
Prima di avere un contatto con il writing, quello d’importazione americana, per noi l’arte pubblica erano quei suoi corpi lacerati appiccicati al piperno. Forse, non tanto per la loro indubbia qualità pittorica, ma per il potenziale che il medium in sé esprimeva: la possibilità di dare a chiunque il proprio lavoro, distribuire la propria passione, scavalcando burocrazie, mercati e tutto quello che rende repellente molta dell’arte dei giorni nostri e i suoi perversi meccanismi. Solo poi sono arrivati i natali del Plebiscito, le stazioni dell’arte e i presunti rinascimenti.
Pignon è stato a Napoli a più riprese tra l’88 e il ’95. Parlare con lui ci dice molto anche su come è cambiato il tessuto sociale della città.
Come le è saltato in mente di venire a Napoli?
Un lavoro precedente mi fece considerare che ignoravo ciò che riguarda le culture che affrontano certe questioni fondamentali, dai grandi miti fondatori fino alla religione stessa. Non conoscevo niente di tutto questo e trovavo che fosse una mancanza, anche perché con le immagini che creo c’è sempre una specie di rappresentazione degli uomini legata all’archetipo. Lavoravo piuttosto su questioni che avevano un carattere politico o sociale. Mi dicevo che avrei dovuto nutrirmi di quello che caratterizza la mia cultura (sono originario di Nizza).
In un primo momento pensai di andare in Grecia, con l’idea d’interrogare le radici della cultura mediterranea, poiché credevo che fosse in quei luoghi il focolaio, l’origine, ma poi il caso mi portò a Napoli. Ascoltai della musica popolare napoletana alla radio, e immaginai questa città, pensai che sarebbe stato interessante conoscerla. Dopodiché ho preso l’aereo e sono venuto. Era il 1987, credo.
Quale fu l’impatto con la città?
Nel periodo in cui ci ho lavorato mi sono completamente fuso al suo interno. Appena arrivato telefonai alla mia compagna e le dissi che forse ero capitato in un giorno particolare, che probabilmente doveva esserci uno sciopero generale o un problema del genere, perché c’era un bordello incredibile dappertutto, un tumulto, una circolazione impossibile. Dopo qualche giorno mi resi conto che questa effervescenza e questo disordine erano quotidiani. Erano la norma.
Come nascono le sue opere?
I miei disegni nascono dal mio approccio ai luoghi. Non si tratta di disegni esposti per strada. Sono disegni che quando metto in relazione con un luogo, devono in qualche modo riattivare, esacerbare il potenziale suggestivo, interagendo con la forza del luogo stesso. Devo precisare che le mie opere non sono i miei disegni. Per esempio, il disegno dello spiraglio (Le soupirail), da cui usciva un corpo, è ispirato a un quadro di Luca Giordano. L’ho incollato nel periodo di Pasqua. Cerco di tenere conto dei luoghi ma anche del momento. Incontrare un’immagine della morte nel contesto di Pasqua, influenza la percezione dell’immagine. Lo incollai vicino piazza San Domenico Maggiore, sul palazzo San Severo. Mettendo un’immagine in questo luogo, si crea un’interazione, la mia immagine diventa più forte, più drammatica, carica di senso, perché è in “quel” luogo riattivato dalla presenza di “quella” immagine. Dunque, se possiamo parlare di opera riguardo a un mio lavoro, l’opera è tanto il luogo, la scelta del luogo, quanto il disegno e il momento in sé. Si tratta di un’osmosi con la città.
Ho messo un po’ di tempo a scoprire che dovevo nutrire le mie immagini di un dialogo con l’opera di Caravaggio, perché trovavo una familiarità tra Napoli e la sua pittura. Una prossimità anche fisica. Napoli è molto assolata, e al contempo con quelle stradine così strette, così oscure… C’è questo dialogo tra le tenebre e la luce. Il che fa pensare al Caravaggio. Molti scrittori hanno parlato di Napoli come di un corpo umano pieno di sensualità. Anche la sensualità che secerne questa città, almeno quella che io sentivo, mi ha dato l’idea di dialogare con Caravaggio.
Quali relazioni si sono create con gli abitanti del centro storico?
Molti incontri sono avvenuti di notte, mentre incollavo i disegni. Ricordo che una notte c’era un tipo che girava in vespa per cercarmi. Io stavo incollando un disegno in un vicolo del centro. Questo tizio finalmente mi trova, scende dalla vespa, mi prende per le spalle e dice: «Ti amo, ti amo!». Allora gli chiedo: «E tu chi sei?». E lui risponde «Gaetano, il proprietario del bar Mattone». Il giorno dopo andai nel suo caffè a parlargli del mio lavoro. In quel bar c’era molta gente, tra cui ricordo uno che mi disse: «Tu ci crei dei problemi, perché le tue immagini sembrano uscire dai muri, e uscendo dai muri fanno uscire la nostra storia». Ma ho avuto altri incontri assolutamente incredibili… In Francia quando incollo dei disegni non ci sono gravi problemi ma può capitare che ti fermi la polizia. A Napoli una notte stavo incollando una serigrafia enorme, quella di un tipo che porta un uomo sulla schiena (Epidemie), un riferimento alla peste, e avevo tutto il materiale con me. I poliziotti mi fermarono e vedendomi carico mi dissero: «Lasciate a noi la scala, ve la guardiamo e quando ne avete bisogno ve la portiamo noi».
Poi una notte c’erano due tipi che tornavano da una rapina, avevano svaligiato un magazzino e correvano. Io stavo incollando un disegno, loro non appena mi videro si fermarono e mi dissero «Ma allora sei tu che fai questo? Tutti si domandano chi li incolla questi disegni per la città!».
C’erano due donne che vendevano stracci e sigarette per strada, verso San Biagio dei librai. Queste signore stavano là tutti i giorni. Avevo incollato una citazione della “Morte della vergine” di Caravaggio proprio vicino alle loro bancarelle, pensando che le donne avrebbero potuto rappresentare il ruolo della veglia raffigurata nel quadro. In questo dipinto, nel primo piano, c’è un elemento che costituisce il passaggio, plasticamente, tra lo spazio esteriore e lo spazio del quadro. C’è sempre un passaggio del genere nella pittura di Caravaggio, come nella “Deposizione di Cristo”, in cui la lastra della tomba sembra uscire dal dipinto. Nella “Morte della Vergine” al primo piano c’è la Maddalena seduta su una sedia che crea questo tipo di passaggio. Ovviamente quando incollo i disegni sui muri non posso mettere più personaggi, perché questo rende lo spazio troppo profondo e non funziona sul piano del disegno. Le due donne avrebbero potuto giocare questo ruolo, plasticamente. Quindi avevo incollato quel disegno vicino alle signore con le bancarelle. Era un crocevia… Quando sono tornato, due anni dopo questo collage, volevo portare la foto a quelle donne, e un amico mi aveva detto che Antonietta, una delle due, era morta. Nella stessa notte con quella foto disegnai il ritratto di lei e andai a incollarlo nel luogo in cui stava con la bancarella da almeno quarant’anni. Quello fu un momento incredibile con la gente del quartiere. C’era una sua amica, l’altra donna anziana che si vede sulla foto, che era molto turbata. Il fatto di averla disegnata aveva un lato un po’ magico per lei. Il giorno seguente lo stesso amico mi aveva detto che gli abitanti avevano pensato di mettere un vetro sul disegno. Io avrei dovuto lasciarli fare, ma non era veramente quello il mio principio. Dissi che era meglio di no. Dissi che se il disegno si fosse rovinato, piuttosto sarei ritornato a farlo nuovamente, cosa che feci due o tre anni dopo.
I suoi disegni contemplano spesso la questione della memoria, ma sono destinati a sparire nel tempo. Pensiamo al lavoro in Algeria su Maurice Audin, ma anche ad altri suoi interventi…
È una sorta d’interazione generale che cerco di creare. La prima volta è stato nel 1971 a Parigi, ho lavorato espressamente sulla memoria, creando degli anacronismi. Avevo incollato delle immagini di morti della Comune sulle scale della metropolitana Charonne, laddove ci furono dei morti per l’indipendenza dell’Algeria. Cercavo di sconvolgere la storia. Sulle scale di quella metropolitana, la polizia nel 1961 aveva ucciso otto militanti contro la guerra coloniale. L’opera non può durare molto tempo in questo caso. L’opera qui è veramente la presenza dell’immagine dei cadaveri che riattiva il ricordo, perché la gente passa tutti i giorni per la metro e ha dimenticato il dramma che accadde in quel luogo. La mia immagine cerca in qualche modo di far riemergere il ricordo in superficie. Per Maurice Audin è lo stesso. Si tratta di percorsi di memoria, di memorie dei luoghi. Recentemente a Ramallah ho lavorato sulla memoria di Mahmud Darwish, in luoghi simbolici. Si tratta di far risalire in superficie delle cose svanite.
Sul Caravaggio per le strade di Napoli, lei ha parlato di dramma…
Avevo l’impressione che Napoli fosse fatta apposta per questo tipo di lavoro. Lì ho sentito una familiarità con il pericolo, per così dire. C’era una familiarità con l’idea della morte che non ho mai visto altrove. Una gravità e nello stesso tempo un’ironia. Non so se questo è legato alla vicinanza con il Vesuvio o al fatto che dall’antichità si convive con l’idea che la morte possa arrivare ogni giorno. Già nell’Eneide, Virgilio pone l’inferno sotto Napoli. C’è una relazione con il sottosuolo della città che fa pensare all’inferno, alla morte. Tutte quelle cavità, quelle catacombe… e poi delle immagini mi colpirono molto, come il Cristo velato nella cappella di San Severo, il cimitero delle fontanelle. Insomma, c’è una rappresentazione della morte onnipresente. Ci sono rituali di morte dappertutto. Anche questo sentimento è presente nelle opere del Caravaggio, nelle quali c’é al contempo la sensualità dei corpi e l’onnipresenza della morte.
E il disegno in cui sono rappresentate le teste mozzate di Caravaggio e Pasolini?
È una citazione del “Davide e Golia”. Caravaggio dipinse la testa mozza di se stesso, è un autoritratto. Ho associato Pasolini per creare un parallelo. A Napoli soprattutto ho sentito la sua importanza, cioè il suo modo di affermare un pensiero che proviene anche dal vangelo, come una maniera d’iscriversi in questi duemila anni di storia che ci precedono. È un modo dialettico d’inscriversi nella storia. Inoltre ha in comune con Caravaggio di trattare, nei suoi film, i grandi riti sacri non come degli eventi eccezionali, ma come esperienze vissute insieme, dagli uomini umili nel quotidiano. Entrambi hanno questa caratteristica. Quella mia citazione mirava un po’ a re-inscrivere nella vita quotidiana, nei luoghi in cui la gente vive ogni giorno, queste grandi questioni.
Quando ha cominciato a disegnare per strada? Qual è stata la motivazione iniziale?
Ho iniziato nel 1966 con gli stencil, ma mi sentivo limitato plasticamente. Nel 1971 pensai di risolvere facendo delle serigrafie. Volevo dipingere quadri, inizialmente; pensavo di fare il pittore. Così andai a vivere in Provenza, in un paesino verso Avignone. Proprio in quel periodo, a venti chilometri da quel villaggio avevano impiantato la “forza d’urto atomico”, i missili di difesa per la Francia. Erano dei missili atomici cento volte più potenti delle bombe di Hiroshima e Nagasaki. Tutto questo in piena Provenza, tra gli olivi e le lavande. Provai a dipingere dei quadri al riguardo, ma era ridicolo in rapporto alla potenza di morte che stava lì. Così un giorno mi resi conto che non avrei potuto rappresentarlo, e che era nei luoghi stessi che bisognava lavorare. Avevo scoperto una fotografia famosa scattata a Hiroshima, che mostra l’ombra di una persona sopra un muro. È la foto di un muro bruciato dal bagliore della bomba, sul quale non restava altro che la silhouette nera di una persona, l’ombra della sua sagoma. Infatti la persona era stata annientata dalla bomba, ed era rimasta soltanto la sua ombra impressa sul muro. Quindi presi questa silhouette, che è un po’ un fantasma della morte nucleare, la ritagliai e ne feci degli stencil che incollai lungo tutte le strade che andavano verso la zona in cui avevano impiantato i missili. L’idea era di stigmatizzare i luoghi. Bisogna prendere in considerazione i luoghi, perché sono carichi di storia. Si tratta di associare, di far sì che l’immagine sia indissociabile dalla storia del luogo. In ultima analisi ho iniziato a lavorare sui luoghi per via di un’incapacità. Sentivo che i temi che volevo trattare erano in contraddizione con l’idea della pittura su un quadro, con la prospettiva di fare un’esposizione in una galleria. Anche perché incontrare un’opera nel contesto di un luogo, nel quotidiano della sua vita sociale, fa si che l’incontro non sia vissuto allo stesso modo in una galleria. Non dico che sia meglio, ma l’esperienza vissuta è di un altro ordine. C’è un rapporto con lo spazio, la strada, il quotidiano, con gli altri, completamente diverso.
Conosce la scena attuale dell’arte urbana?
Penso che ci siano delle cose interessanti. Allo stesso tempo, penso che ci sia una mancanza di riflessione sul rapporto con i luoghi. Spesso sono delle immagini o dei graffiti che sono messi per strada, e tra l’altro ce ne sono molti, da quando hanno avuto un po’ di successo poi li fanno sui tetti e nelle gallerie… voglio dire che c’è un grande recupero. Comunque si tratta di disegni esposti per strada che spesso mancano di una relazione profonda e giusta con i luoghi. Quando iniziai io, trent’anni fa, non c’era niente. Era molto più interessante. Adesso i muri di Parigi sono tutti coperti.
L’immagine, quando lei ha cominciato a lavorare, non era ancora manipolata a tal punto e soprattutto non era così dominante. Spesso si rischia o l’artificio o di fondersi con l’impero dei segni commerciali…
Il rischio esiste. Per esempio, c’è un tipo in Francia che fa delle cose belle, si chiama JR, lui crea delle grandi foto… Il rischio è che qualche volta assomigli molto alla pubblicità. Esistono dei principi nel mio lavoro: innanzitutto restare al bianco e nero, non fare opere “fuori scala”, perché una grande parte del mio lavoro consiste nella ricerca di una sensualità con la gente, nella relazione che cerco di creare. Quindi disegni a “grandezza naturale”, che possano ricreare come un incontro fisico… Deve esserci la presenza per strada affinché possano interpellare, toccare la gente. Ma nello stesso tempo lascio le immagini sempre in bianco e nero, per affermare che si tratta di una finzione, e che non è un’immagine per Benetton. Dunque c’è una semplicità, una contraddizione volontaria. Bisogna che ci sia un effetto reale per creare le relazioni fisiche e sensuali con la gente, e nello stesso tempo qualche cosa che dica che si tratta di un’immagine. Bisogna equilibrare questi due elementi. Il bianco e nero è un modo per affermare la convenzione del disegno. Un modo per non confondere il mio lavoro con le immagini pubblicitarie. (cyop & kaf / andrea bottalico)
Leave a Reply