Il 6 marzo abbiamo pubblicato un’intervista a una lavoratrice del terzo settore a Torino. La testimone, come altre quattro colleghe e compagne, scioperava per contestare i demansionamenti e le scelte organizzative della associazione per cui lavorava, Eufemia. L’atto delle lavoratrici si è rivelato un’occasione per ragionare sulle contraddizioni del lavoro nel terzo settore, a Torino e non solo. Il 5 aprile, presso il Polo del Novecento, le lavoratrici hanno indetto un’assemblea per dialogare, ascoltarsi, costruire una rete di solidarietà e lotta. All’assemblea ha partecipato anche Nicoletta Salvi Ouazzene, operatrice sociale in pensione. Pubblichiamo una lettera di Nicoletta indirizzata alle cinque lavoratrici di Eufemia in sciopero.
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Care compagne,
partecipo con attenzione alle vostre vicende perché attraverso di esse elaboro infine la mia storia di attivismo da operatrice sociale. È una storia iniziata nel 1980, nel pieno della rivoluzione delle politiche sociali, sulla spinta della deistituzionalizzazione di Basaglia, dell’avvento dello stato sociale universale con la legge del ’78, con lo smantellamento delle istituzioni benefiche. Era un momento esaltante in cui ci buttammo tutti con immensa passione e motivazione: ci sembrava di avere il cambiamento del mondo nelle nostre mani e la possibilità di dare voce e dignità a tutti gli emarginati della Terra. Quasi tutte le cooperative torinesi sono nate in quel periodo.
Ma dopo quarantatré anni di duro lavoro me ne sono andata, assistendo, impotente, allo sfascio delle politiche sociali, al ritorno di pensieri reazionari in cui i “poveri” e gli “emarginati” sono dei buoni a nulla che vanno rieducati attraverso metodi e prassi paternalistiche, sempre meno improntate alla relazione. Tutto è accaduto con una sempre maggiore svalutazione del nostro ruolo, dei nostri pensieri e delle nostre capacità progettuali. Alla fine ci siamo ritrovati, noi stessi, schiavizzati ed emarginati, lavoratori poveri e senza voce.
Com’è stato possibile? Me lo sono chiesta mentre stava succedendo, mentre annaspavo insieme a pochi altri, nel tentativo di oppormi, di resistere, di non farlo accadere. Nel frattempo, la maggior parte di chi aveva iniziato insieme a me aveva fatto carriera, era presidente di una cooperativa da oltre vent’anni, era diventato onorevole in parlamento o consigliere di una fondazione bancaria. Le cooperative in cui lavoravo, invece, sparivano per mancanza di ricambio alla dirigenza o per fallimento vero e proprio. Mentre gli altri si attrezzavano per stare sul mercato, la nostra spinta ideologica ci faceva sparire.
Credo che questo sia il punto: è il mercato che ha vinto. Non solo nel nostro settore, ovviamente. Ma la spinta liberista che si è dipanata dagli anni Novanta ci ha travolto in ogni settore della vita e della gestione sociale. Il settore sociale poteva forse delineare piccole sacche di resistenza, piccolissimi Bantustan felici, ma non poteva resistere nel suo complesso.
I buoni, l’importante libro di Luca Rastello che è stato menzionato ieri è, se vogliamo, una parte di questa vicenda. Il romanzo descrive in maniera egregia le dinamiche delle organizzazioni a matrice culturale cattolica: le strategie e le manipolazioni che ne sono tipiche per la gestione e il mantenimento del potere. Eppure mi sembra importante scavare più a fondo. Non ci sono “cattivi” da cercare in questa storia, ma dinamiche capitaliste e liberiste che si sono imposte nel tempo. Non è un caso che la crisi di Eufemia nasca da un corso di formazione imprenditoriale gestito da una fondazione di origine bancaria: la Compagnia di San Paolo. Quanto è lampante!
L’arrivo delle fondazioni bancarie nella gestione dello stato sociale ha velocizzato lo stravolgere del nostro mondo: esse erogano soldi, definiscono bandi, parole d’ordine e prassi che riducono le associazioni a “progettifici” a loro immagine e somiglianza. In questo modo non si costruiscono solo progetti sociali (che non vanno mai da nessuna parte, ormai lo abbiamo capito) ma si plasmano prassi e dirigenze che stanno nel solco dell’imprenditorialità e delle relative retoriche. Questi progetti non cambiano nulla, anzi riproducono le dinamiche di diseguaglianza e ingiustizia sociale di cui una società capitalista ha bisogno per esistere e per svilupparsi.
Avete idea di quanto il metodo della Compagnia di San Paolo (insieme a tutte le direttive europee sulle gare d’appalto e le concessioni di bandi) abbia plasmato i servizi sociali pubblici? Quanto le dirigenze che si sono formate abbiano organizzato strutture gerarchiche e oppressive sia all’interno che all’esterno?
Nei primi anni del nostro secolo ci fu un interessante laboratorio al riguardo gestito da Terry Silvestrini, che era coordinatrice della IV Commissione consigliare sulle politiche sociali. Si lavorò in maniera interessante per alcuni anni, poi, come ogni cosa, anche questa è naufragata tra senso di impotenza e altri impegni. Il laboratorio riuniva operatrici pubbliche e del privato sociale in una riflessione che tentava di contrastare le politiche di dismissione dei servizi e di repressione al loro interno.
Vorrei segnalarvi, per una riflessione sul rapporto tra fondazioni bancarie e stato sociale, un interessante articolo uscito su Gli asini due anni fa: Filantropi che siamo! Confusione tra Stato e filantropia nel welfare italiano. Io credo che la riflessione sullo stato del lavoro sociale debba ripartire da qui e debba smascherare, almeno a noi stessi, quali sono le reali regole del gioco. Coraggio e buona lotta. (nicoletta salvi ouazzene)
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