Un uomo di circa quarant’anni con le mani legate e infilate in lerci calzini di spugna fissati alla cintura dei pantaloni. La testa è chiusa in un casco di quelli usati per le arti marziali, che copre il volto, lasciando lo sguardo e il respiro dietro una grata di ferro. Ogni giorno, da oltre dieci anni. La notte, la “maschera facciale protettiva” (così la definisce la direzione sanitaria in una comunicazione) viene tolta, mentre le mani restano costrette in guantoni o calzini. La foto sembra scattata in un manicomio, ma è di questi giorni. L’ha pubblicata il quotidiano online Cagliaripad, corredata da alcune documentazioni in cui si legge: “Il paziente è ricoverato presso il centro Aias in regime riabilitativo di internato dal febbraio 1999 […], mostra scarsissimi contatti con l’ambiente: non ha capacità di comunicazione verbale, scarsissima quella gestuale, non è autosufficiente, necessita di assistenza anche durante i pasti e di costante controllo per i ripetuti allontanamenti dal reparto e il “pica” [la persona è ritenuta affetta da picacismo, un disturbo del comportamento alimentare caratterizzato dall’ingerire sostanze non commestibili, Ndr] inoltre, dorme in una stanza da solo sprovvista di qualunque arredo o oggetto che possa diventare pericoloso per la sua incolumità”.
Così, da oltre dieci anni, quest’uomo vive all’interno di un istituto di Cortoghiana, nel sud della Sardegna, gestito dall’Associazione italiana assistenza spastici, l’Aias. Per il direttore sanitario “il ricorso a una così pesante misura di restrizione trova una giustificazione come scelta di tutela dell’incolumità per una persona che presenta un sintomo assai grave e costantemente pericoloso che ha determinato più volte conseguenze che hanno messo già a repentaglio la sua vita”.
Maria Grazia Giannichedda, tra le protagoniste della équipe di Basaglia, in un recente seminario, ha commentato: «Sono scene che io ho visto in manicomio. Naturalmente, la motivazione che dà la direzione di questa struttura è: “Questa persona si potrebbe fare male”, esattamente la stessa motivazione che veniva data negli ospedali psichiatrici per i letti a rete e per tutte le pratiche più tremende». Sì, perché a fronte di donne, uomini, vecchi e bambini che subivano pratiche inumane e degradanti, la direzione ripeteva: «È per il loro bene».
Tra i tanti episodi, torna alla mente una scena nell’estate del 1970, quando l’Associazione per la lotta contro le malattie mentali, accompagnata dal fotografo Mauro Vallinotto, entra a Villa Azzurra, istituto ortofrenico di Grugliasco (Torino), dove sono internati i minori considerati “anormali”, tenuti costretti in ceppi che li bloccano mani e piedi ai letti e ai termosifoni. L’Espresso pubblica un articolo di Gabriele Invernizzi con le foto scattate da Vallinotto. Una, in particolare, resterà impressa nella memoria collettiva, così la racconta il giornalista: “Sotto le lenzuola c’è una bambina sdraiata sulla tela cerata marrone. Guarda e sorride, con gli occhi, con tutta la bocca, in silenzio. Avrà nove o dieci anni. È nuda sino alla vita. I suoi polsi sono fissati nei cappi di tela alle due sponde del letto, come in croce. Le caviglie sono legate assieme e anch’esse bloccate al letto. Dico ‘ciao’, le accarezzo il viso e lei è così contenta che cerca di alzarsi, di prendere la mia mano con la sua ma non può perché la cinghia è troppo corta, riesce solo a sollevare un poco la testa. Le mosche le devono dare molto fastidio, sulle gambe, sul sesso, attorno alla bocca. La capoinfermiera porta un mazzo di chiavi legato alla vita e la chiave più lunga di tutte è il cacciavite a due punte che serve per chiudere i ferri (ma perché non li chiamano ceppi, manette?). ‘Infermiera perché la bambina è legata?’. ‘Ma è per il suo bene! Non vede che ha tutta la pelle delle cosce irritata? Se le lascio le mani libere questa si gratta, diventa ancora più rossa e poi il dottore se la prende con me. Non la posso nemmeno mettere fuori con gli altri perché si sporcherebbe con la terra e finirebbe per infiammarsi ancora di più. Invece così, con la polvere di Fissan, tra qualche giorno starà benissimo’. Da tutti gli altri lettini pendono i cappi di tela coi ferri pronti per la notte”.
Sono trascorsi giusto cinquant’anni e si continuano a giustificare queste pratiche manicomiali “per il loro bene”. Come sta accadendo nell’istituto Aias e in tanti altri cronicari in Italia e nel mondo. Ha detto ancora Giannichedda: «Si continua a dare questo tipo di motivazione come se in cinquant’anni non fosse accaduto nulla, come se non si fossero attuate quelle pratiche che dimostrano che quella persona, trattata diversamente, può riavere una vita. […] Oggi in Italia non esistono più i manicomi, che siamo riusciti a chiudere, ma ci sono oltre 300 mila posti letto in istituzioni varie, che hanno i nomi più diversi […]. C’è stata una colossale re-istituzionalizzazione delle persone anziane e delle persone considerate, a vario titolo, non capaci di occuparsi di sé stesse. […] Pure senza i grandi contenitori manicomiali, si riproduce, anche in ambito psichiatrico, l’internamento come privazione della libertà in ragione “del tuo bene”».
Sulla vicenda sarda è intervenuta Gisella Trincas, presidente dell’Unasam, Unione nazionale delle associazioni per la salute mentale, con un esposto alla Procura della Repubblica in cui il trattamento riservato all’uomo ricoverato da oltre dieci anni viene ritenuto inumano e degradante, in violazione della Convenzione Onu sui diritti delle persone con disabilità. L’Unasam chiede di conoscere quali percorsi personalizzati, negli anni, siano stati attivati, e con quale coinvolgimento dei servizi territoriali; se siano state utilizzate tutte le figure professionali necessarie per superare la condizione di vita in cui l’uomo è ancora oggi costretto, e di valutare la sussistenza di eventuali profili di illiceità penale, verificando anche la correttezza della complessiva attività socio-sanitaria dei Centri Aias. La Procura accerterà l’eventuale rilevanza giudiziaria di questa vicenda, di cui, però, non può essere sottaciuto il significato politico, sociale e culturale.
Sono trascorsi giusto venti anni dall’approvazione, l’8 novembre del 2000, della legge 328, che disciplinava l’architettura dell’intervento sociale, sancendone l’ingresso nel sistema delle politiche pubbliche, stabilendo una connessione formale tra il sociale e il sanitario. Una norma che, prevedendo un intervento diretto a sostegno della disabilità e del disagio psichico, ridisegnava i rapporti di forza e ambiva ad aprire spazio agli interventi sociali. In questi anni, l’equilibrio tra politiche sociali e politiche sanitarie è stato completamente assorbito da una logica sanitaria; una logica che non è però quella della cura, non passa dai servizi territoriali, ma si realizza attraverso la costruzione di contenitori a cui diamo nomi diversi (Rsa, Centri di detenzione per migranti, Rems, comunità terapeutiche, centri per minori, ecc.). Negli ultimi quindici si è proceduto a realizzare scatole, perdendo quella dimensione dell’intervento sociale che agisce nella prospettiva del cambiamento e dell’autonomia delle persone. Standardizzare l’intervento ha portato a preferire modelli residenziali e semi-custodiali che cronicizzano gli utenti invece di potenziare servizi territoriali e rivolti alla inclusione delle persone. Il sociale si è smarrito nel linguaggio della sanità, senza acquisire la stessa autorevolezza e perdendo di vista il proprio principio guida, l’autonomia e l’indipendenza delle persone fragili.
La pandemia ci ha insegnato quanto si siano enormemente diffusi i modelli che, tra cura e custodia, scelgono quest’ultima. L’immagine dell’uomo costretto a indossare un casco e legato con i calzini, che vive così da dieci anni in una struttura del privato sociale, evidenzia come la prevalenza di un modello rispetto ad altri è strettamente correlata alla capacità politica di immaginazione e alla disponibilità di risorse. La spesa sanitaria in questi anni è cresciuta enormemente, ma non è cresciuta la cultura che la accompagna, sicché ancora oggi in troppi luoghi che si vorrebbero di cura, l’umano scompare. I modelli reclusivi strutturati a scatole obbediscono unicamente a una logica organizzativa ed economicistica che permette di massimizzare il controllo e il profitto. Ci sono, naturalmente, eccezioni ed esperienze differenti, ma restano purtroppo minoritarie.
Le foto di quest’uomo legato con i calzini, prima che scompaiano inghiottite dalla velocità dei social, oltre che indignarci debbono richiamarci a un interrogativo: a che serve l’intervento sociale o socio-sanitario, se invece di restituire libertà e inclusione ci restituisce l’immagine a colori di un manicomio che pensavamo di avere chiuso per sempre? (dario stefano dell’aquila / antonio esposito)
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