Persino i libanesi si sono scoraggiati. Gli stenti e il timore più che fondato di un collasso imminente hanno indurito i loro volti. Valuta locale in caduta libera, prezzi alle stelle. Chi non ha dollari o valute straniere forti può a mala pena permettersi i beni di prima necessità. Semafori spenti, l’elettricità scarseggia e viene razionata, a volte anche il carburante. Il paese di notte è al buio, ma anche di giorno si fatica a scorgere un barlume di luce e di speranza. La leggendaria vita notturna della capitale si è spenta, fatta eccezione per qualche sacca di opulento benessere. Chiudono locali storici, negozi che erano sopravvissuti a quindici anni di guerra civile. In termini di crisi economica, il Libano non hai mai visto nulla del genere. «Quando c’era la guerra almeno i soldi giravano», mi dice caustico il signor Henri, gestore di un liquor bar di Hamra che aprì all’inizio degli anni Settanta e che si rifiuta di chiudere nonostante ormai da mesi non veda un cliente. Sprofondano le classi medie, si affamano quelle subalterne. Tutti sembrano presi da una strana premura. I sorrisi scarseggiano e quando fanno capolino nei volti esangui sono velati da un’amara rassegnazione. Rivedi in giro gente che non vedevi da mesi invecchiata di anni. Provati da una crisi che peggiora di giorno in giorno, tutti attendono increduli e spaesati il prossimo sviluppo mentre la politica non si cura nemmeno più di mentire.
Un accordo col Fondo Monetario Internazionale, conditio sine qua non per aggiudicarsi l’ennesimo pacchetto di salvataggio, ancora non si trova, il governo libanese non è in grado o più semplicemente non intende offrire garanzia alcuna. La tragica verità è che persino gli strozzini dell’FMI appaiono ragionevoli se equiparati ai livelli di cleptocrazia della classe politica libanese. Si stringe anche la morsa censoria in un paese che da sempre si vanta delle sue libertà, più o meno leggendarie. A giugno il procuratore di stato ha emesso un ordine che prevede fino a due anni di reclusione per chiunque osi insultare il presidente. Impresa non facile in un paese dove lo sfottò ai danni dei potenti e un senso dell’umorismo trans-confessionale sono spesso l’unico coping mechanism a fronte di una quotidianità sfibrante.
SVIZZERA DEL MEDIORIENTE
Paese da sempre votato al fondamentalismo capitalista, il Libano ha anticipato il Cile di Pinochet, la Gran Bretagna della “Lady di ferro” e l’America di Ronald Reagan nell’implementare quella che effettivamente è stata una dottrina liberista avant la lettre. Al pari di Von Hayek e del famigerato Milton Friedman, Michel Chiha, il più brillante tra i padri fondatori del Libano, perorò la causa di un’economia globalizzata, spalancata al libero mercato e refrattaria a ogni forma di regolamentazione statale. Mentre il nazionalismo arabo nella vicina Siria e nell’Egitto di Nasser si tingeva di rosso puntando su industria, agricoltura e “collettivizzazione” militaristica, l’eccezionalismo “fenicio” fece i voti alla madonna della finanza. Nacque così la Svizzera del Medioriente, espressione mutuata da Alphonse de Lamartine che la coniò per primo colpito dall’aspetto montuoso del paese dei cedri quando lo visitò nell’Ottocento. Chiha, che fu banchiere, editore, polemista, poeta e consulente politico del cognato nonché primo presidente del Libano indipendente Bechara el Khoury, declinò l’espressione in chiave economica. Nei suoi Propos d’économie libanaise il nostro teorizzò la necessità geostrategica di un paese che facesse da intermediario tra i mercati europei e quelli del Levante (ruolo per altro che la borghesia libanese già ricopriva da decenni). Commercio, terziario e finanza (con tanto di segreto bancario), a scapito dei settori produttivi dell’economia, rappresentarono le fondamenta di un paese che a partire dagli anni Cinquanta fino all’inizio della guerra civile nel 1975 conobbe una crescita tanto strepitosa quanto sospetta e iniqua. Hotel di lusso, fuori serie americane che sfrecciavano sul lungomare di Beirut, minigonne, cocktail a bordo piscina, il music hall e la danza del ventre. Insomma, l’oriente dei primi film di James Bond. Questa la leggenda, consolidata dall’iconografia di un modernismo arabo ammaliante e dall’appendice di efflorescenza culturale che i boom economici spesso determinano.
La realtà però raramente combacia con la leggenda e in Libano, come ovunque, non sono mai stati tutti ricchi. Tutt’altro. A oggi uno dei due o tre paesi al mondo con la più ampia forbice sociale, la Repubblica dei Mercanti era in verità abitata da una maggioranza invisibile di poveri (a maggioranza musulmana). Un cartello composto da una manciata di famiglie endogame ha monopolizzato l’economia del paese e i suoi settori strategici, gestendo il tutto come una bisca clandestina. Gli stessi venti cognomi si ripetono ovunque, nelle vie della capitale, in parlamento, negli organigrammi aziendali, nei titoli di coda dei film e nel corpo docenti delle università più prestigiose del paese. Nel 1944 il patrimonio delle quindici famiglie più in vista ammontava a nove volte tanto il bilancio statale dell’anno medesimo. Alla fine della guerra, nel 1990, il due per cento dei “risparmiatori” libanesi possedeva il settanta per cento dei depositi bancari del paese. Nel 2013, il Global Wealth Data pubblicato da Credit Suisse indicava che il quarantotto per cento della ricchezza privata in Libano era nelle mani dello 0,3% della popolazione adulta. Insomma, la Trickle-Down Theory funziona davvero! Al contrario però…
E nel centenario della sua fondazione per mano coloniale, il Libano festeggia con una bancarotta di dimensioni epiche. Default del debito pubblico, penuria di dollari sul mercato, valuta locale a rischio di iperinflazione (sarebbe la prima volta in Medioriente). La Banca Mondiale stima che tre quarti della popolazione libanese potrebbero finire sotto la soglia di povertà entro la fine dell’anno. Il movimento di protesta che meno di un anno fa era riuscito a disarcionare il governo arranca, incapace di trasformare la mobilitazione in un progetto politico di più lunga gittata. In una società dove tutto è stato privatizzato, il mutuo soccorso fatica ad articolarsi anche solo come possibilità. Ciliegina sulla torta: la pandemia, che all’inizio era stata affrontata con inaudita prontezza, sta sfuggendo di mano. I casi aumentano mentre gli ospedali, quasi tutti privati, non possono può permettersi i medicinali che hanno sempre acquistato in dollari. Tutti si ripetono che peggio di così non può andare, eppure la situazione continua a peggiorare.
BOMBE E DRONI
La vita però, anche in queste circostanze, continua. Mentre cerco di laurearmi ho cominciato a lavorare col mio amico George Azar, che ho conosciuto all’università dove insegna fotogiornalismo, a una serie di progetti. Il primo è il tentativo di istituire un archivio rizomatico del suo lavoro fotografico da mettere a disposizione di ricercatori e curiosi. Fine nobile dell’operazione è accaparrarsi, nschalla, il premio in dollari del bando a cui intendiamo partecipare col nostro progetto. L’altro invece è un documentario per il canale in lingua inglese di Al Jazeera sulla comunità araba di Cuba. Incipit narrativo: la leggenda metropolitana che circola circa le origini libanesi della madre (“illegittima”) di Fidel Castro. Nel frattempo do una mano a George che deve fare delle riprese dal drone degli angoli più pittoreschi del paese per un documentario della televisione marocchina, così ne approfitto per visitare tutti i posti che non ho ancora visto. Ieri è stato il turno di Marjeyoun, villaggio greco-ortodosso sul confine israeliano, non lontano dal castello di Beaufort, fortezza risalente alle crociate ancora oggi meta turistica più o meno ambita.
Occupato dall’esercito israeliano dal 1985 al 2000 quando gli abitanti, con le palle piene, li cacciarono a sassate, Marjeyoun è il villaggio natale di Michael DeBakey, chirurgo toracico di fama internazionale a quanto pare, a cui il comune ha dedicato una statua all’ingresso del paese. Per arrivarci abbiamo preso le strade provinciali del sud del paese, un tempo la zona più povera del Libano nonché roccaforte del partito comunista fino ai primi anni Ottanta. Oggi una delle poche zone del paese con un manto stradale che non sia una voragine continua e baluardo degli Hizballah e dei loro alleati “senza zucchero”, Amal. Ogni tanto, tra le oceaniche bandiere giallo-verdi e le foto dei martiri del partito di Dio appare sbiadita, come un animale in via di estinzione, una falce e martello gialla su sfondo rosso. Al-Janub, “il Sud”, grazie al Recovery Fund che il governo libanese stanziò dopo la guerra del 2006 quando la simpaticissima aeronautica militare israeliana aveva raso al suolo anche i fili d’erba, non è più la zona più povera del paese. Anzi. L’apporto dei capitali iraniani e la “beneficienza” degli imprenditori libanesi vicini agli Hizballah l’hanno trasformata in una regione tra le più dinamiche del paese, in termini di fatturato quanto meno. A parte il sopracitato manto stradale, il benessere, sempre relativo e iniquo, è chiaramente visibile per le strade tutt’altro che fatiscenti che percorriamo.
Meno visibili invece sono stati i droni e i caccia israeliani che proprio ieri hanno deciso di sganciare qualche bomba per riprendere il dialogo armato con gli Hizballah che si protrae ormai da decenni. Io e George, ignari, arriviamo a Marjeyoun e chiamiamo il nostro collega che stava facendo i sopralluoghi il quale ci informa dei bombardamenti in corso. Sorpresi dalla pace surreale che regna in paese ci andiamo a prendere un gelato al bar. Seduti al tavolino notiamo le immagini in televisione dei bombardamenti che danno in un’edizione straordinaria del telegiornale. George, senza staccare gli occhi dal televisore, mi fa: «Dev’essere qui vicino», al che la barista con un sorriso amaro e spazientito fa cenno con la testa aldilà della vallata. Usciamo dal bar e dalla montagna di fronte vediamo alzarsi colonne di fumo nero. La stessa immagine, in televisione, era risultata più inquietante. Giriamo l’angolo e nella piazzetta del paese ci sono bambini che giocano a pallone nella serena incuranza dei pochi passanti. Mi collego all’hotspot del telefono di George per controllare le notizie e mi arrivano quaranta tra chiamate e messaggi di Farah che nel panico aveva chiamato mezza Beirut nel tentativo di contattarmi. La chiamo e mentre mi implora di rientrare a Beirut le faccio vedere le immagini di fronte a me di Marjeyoun e della sua surreale pace. La cosa più vicina a una “guerra” che abbia mai visto avrà sempre il sapore del gelato al pistacchio fatto in casa e l’odore indolente di un pomeriggio estivo. Sono basito. Indecisi se far volare il drone o meno, per paura di vedercelo abbattere dagli israeliani, alla fine George più o meno incoscientemente decide di fare le riprese. Va tutto bene, hamdellah. Ci spostiamo più vicini al castello per un’ultima ripresa al calar del sole e nello slargo dietro a un distributore di benzina incontriamo due braccianti del Bangladesh che ci regalano delle melanzane. Così, per umana gentilezza. (giovanni vimercati)
Leave a Reply