Nell’epoca della finta liberazione sessuale, in cui il corpo della donna trova ancora sistematica rappresentazione come un oggetto, in cui la scelta tra una carriera o l’“essere madri” è una realtà quotidiana, in cui la denuncia di uno stupro porta con sé un dramma ulteriore per nulla accessorio alla violenza, ma successivo e integrante a esso (quello connesso allo scherno, la vergogna, la continua messa in dubbio della “attendibilità” della vittima più che di quella del carnefice), esce Partoriremo con piacere. Appunti sul recupero dell’utero spastico e l’energia sessuale femminile, piccolo libro di Casilda Rodriganez Bustos, scrittrice e biologa madrilena, fondatrice dell’Associación antipatriarcal. Il libro che esce in queste settimane (scaricabile on-line in Creative commons) è la traduzione italiana curata da TurbinaEdizioni del volume pubblicato in lingua originale nel 2007, una ricerca sulle ragioni antropologiche e sociali alla base della credenza che identifica l’atto del partorire come qualcosa di necessariamente doloroso e incompatibile con qualsiasi tipo di piacere fisico.
Utilizzando fonti storiche come le testimonianze di popoli che non conoscevano il dolore del parto (rintracciati nelle ricerche di Montaigne, Bartolomes de las Casas, Read), e arrivando all’identificazione degli elementi fondanti un’educazione femminile dominata dall’approccio fallocratico ancora resistente, l’autrice decostruisce l’idea comune del parto come di una terribile reiterazione di dolori e di crampi.
Il discorso non può che muovere dal religioso postulato “Tu donna partorirai con dolore”, presupponendo che prima di esso le donne potessero partorire libere dalla paura di questa maledizione e spiegando poi, in modo scientifico, come l’utero sia composto da fasci circolari che si contraggono e si rilassano a seconda delle predisposizioni neuro-endocrino-muscolari, e che se irrigiditi da questo genere di convinzioni e dottrinali paure, siano impossibilitati a rilassarsi. “Il parto con dolore è parte della maternità patriarcale […]. Si tratta di porre fine alla violenza interiorizzata che inibisce la nostra sessualità […], che è poi la violenza ormai interiorizzata della negazione del nostro corpo e delle nostre vite”.
Se l’utero è il culmine della sessualità femminile, insomma, il centro del sistema erogeno della donna che può creare fisiologicamente piacere anche nel parto, per compiere questo percorso esso non va inibito, disconosciuto e castrato fino a diventare spastico. Ci spiega Casilda così, come per questa ragione fin dall’infanzia le bambine non vengano educate alla conoscenza del loro corpo e del loro utero, come invece era d’uso fare prima dell’avvento della civilizzazione patriarcale, attraverso danze e movimenti ritenuti atti propiziatori. La sparizione della sessualità femminile, la repressione delle pulsioni e della conoscenza delle parti pelviche e uterine, così come l’educazione posturale rigida (il sedersi sulle sedie con le gambe unite e il bacino rigido, forzando la posizione naturale e il bilanciamento dell’utero), hanno indotto generazioni di donne a non riconoscere il proprio utero come parte della propria sessualità.
Ci si chiede a questo punto se sia possibile, dopo induzioni lunghe secoli, una “riabilitazione” e una riappropriazione del proprio utero spastico. La necessità primaria, è il cambiamento individuale e sociale di atteggiamento rispetto alla sessualità femminile e al piacere fisico personale, riconoscendo a quest’ultimo una funzione fisiologica non sacrificabile: provare a sentire le proprie pulsazioni e a riconoscere che, oltre alla sua funzione riproduttiva, questo riequilibrio possa rappresentare la strada per la riconquista dell’intero corpo, a sua volta centrale per la riappropriazione dei propri sentimenti, diritti e piaceri. Sfidando rappresentazioni patriarcali così radicate in noi tutte, da essere considerate invalicabili. (marzia quitadamo)
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