#0 / Stop and go. A mo’ di premessa
Negli ultimi cinque anni Napoli e la sua area metropolitana, secondo i dati Istat, hanno avuto un incremento crescente del settore turistico pari a una crescita del dieci per cento annuo. Questa tendenza viene motivata da operatori ed esperti chiamando in causa un insieme di fattori tra cui spiccano l’aumento degli slot aeroportuali (ovvero la crescita delle tratte coperte soprattutto dalle compagnie low-cost che hanno come destinazione Napoli) e la momentanea contrazione di flussi turistici verso altre mete dovute a congiunture politiche internazionali, ovvero l’effetto dei diversi attentati che hanno colpito la popolazione residente e quella turistica in paesi come l’Egitto e la Tunisia, nonché le città di Parigi e Bruxelles e più recentemente Berlino.
L’instabilità politica mediorientale ha inoltre riguardato paesi come la Giordania o Cipro, tradizionali mete di turismo nordeuropeo e anglosassone. Una concomitanza di fattori che ha reso Napoli una metà non più stagionale ma permanente, affollando le strade di alcune parti della città e stimolando un’industria del turismo soprattutto nel settore dell’accoglienza (b&b), della ristorazione e dell’organizzazione di eventi di dubbio gusto indirizzati a un consumo di massa. Effetti dell’aumento delle presenze turistiche si sono avuti, in misura decisamente minore, sulle politiche culturali, sulla costruzione di attrattori di qualità permanente e sulla professionalizzazione degli operatori del settore. Un certo laissez-faire istituzionale ha stimolato la nascita di luoghi di ristoro (bar, pizzerie, rivendite di cibo) e rivendite di souvenir e altre amenità.
Come suggerisce la storica Nunzia Berrino nel nostro volume Lo stato della città: “Il rapporto tra Napoli e il turismo è fondante nella storia di questo fenomeno della modernità occidentale, che per molti aspetti ha maturato proprio qui i suoi caratteri. E tuttavia Napoli è una delle città che meno si è impegnata a ricostruire e interpretare la propria vicenda; certo, si dirà, il turismo è futuro, e tuttavia l’assenza di riflessioni sul proprio percorso è anche indice di importanti criticità, che hanno inevitabili riflessi sullo stesso governo del fenomeno”. Turismo, quindi, che rappresenta non una novità ma una costante nell’economia cittadina. Esistono, per altro, svariate cronache di intellettuali/viaggiatori che si sono soffermati sulle bellezze della città in diversi periodi della storia e in particolare sulla “tipicità” dell’accoglienza del popolo napoletano (Goethe, Stendhal, Benjamin solo per citarne alcuni tra i più autorevoli di provenienza nordeuropea).
Napoli è una città restia alle trasformazioni. Sembra avere una velocità diversa, un passo rallentato, un incedere diffidente della modernità, dettato da un lato dalla particolare conformazione sociale basata su un intreccio tra sottoproletariato e classi agiate che condividono gli stessi (scarsi) spazi, dall’altro da un’azione amministrativa che negli ultimi cinquanta anni è stata caratterizzata da un andamento sincopato, tra lunghe stasi e repentine accelerazioni, un fenomeno che gli esperti definiscono come stop and go. In particolare, negli ultimi anni la gestione della città è caratterizzata da un sostanziale non-governo che asseconda, a tratti, l’impostazione liberista dominante nelle grandi città occidentali, accompagnata da una narrazione di sinistra che sostanzialmente mimetizza la mancanza di strategie chiare dietro un discorso comunitario/identitario.
Questa prospettiva – al di là delle considerazioni di carattere politico – apre una pista di indagine estremamente interessante, quella dell’analisi delle pratiche di (auto)organizzazione di soggetti diversi posti di fronte a una trasformazione in corso dell’identità e della spazialità cittadina, in cui l’industria del turismo e gli effetti del suo sviluppo rappresentano l’architrave fondamentale di una potenziale mutazione antropologica e culturale della città.
Insomma, il boom turistico degli ultimi anni è un fenomeno che sta influendo sul lavoro, sulla struttura sociale, sulle politiche istituzionali, sull’imprenditoria, sulla produzione culturale e artistica, sullo spazio e sull’identità della città? Si è partiti da queste domande per provare a capire e raccontare la terza città d’Italia in una sua (presunta) fase di accelerazione.
#1 / Incoming: vicoli, identità, folklore
I napoletani non riescono a concepire la vita
se non insieme ad una folla brulicante
Walter Benjamin
Una fila di uomini e donne di età diverse – da una coppia di ventenni trevigiana a degli attempati piemontesi passando per due francesi di mezza età con prole al seguito – risale il vico d’Afflitto inerpicandosi verso via Speranzella, l’asse mediano superiore dei Quartieri Spagnoli, agglomerato di vicoli che dalla città bassa (via Toledo) porta fino alle pendici della città alta (la collina del Vomero). Un dedalo di viuzze strette e sovraffollate che si interrompe a ridosso della tangenziale borbonica del corso Vittorio Emanuele.
La fila prosegue ordinata, attenta a lasciar passare un ciclomotore o un’automobile che costringe tutti ad addossarsi sulle pareti sbrecciate di uno dei tanti caratteristici edifici della zona. Le facce sono stranite e divertite; gli sguardi, pur attratti dalle tante particolarità folkloristiche (nicchie di santi, bassi, urla di venditori, ecc.), fanno attenzione a non perdere di vista l’ombrello viola tenuto sollevato da una ragazza bionda che funge da capocordata. Tutti hanno pagato una certa cifra per “trascorrere un venerdì sera diverso con Le Capere, donne che raccontano Napoli (…) per conoscere una Napoli ‘nuova’ fatta di vicoli e vicarielli, arte contemporanea, murales e… prostituzione! Passeggiare nei famosissimi Quartieri Spagnoli e scoprire chi li costruì, chi ci visse e perché sono ancora oggi un grande attrattore della nostra città”.
Nel giro di mezz’ora la visita guidata li porterà alla scoperta di luoghi inusuali (per un turista), ammireranno quegli interventi artistici che negli ultimi anni hanno ridisegnato l’estetica della zona (in parte motivati da ben altre finalità ma diventati, loro malgrado, oggetti di consumo turistico come i dipinti murali di cyop&kaf, nati con il progetto editoriale QS, un tentativo di raccontare i Quartieri dalla prospettiva di chi li attraversa e abita quotidianamente), e infine: “Il tour terminerà presso un caratteristico ‘basso’, dove sarà servita una folkloristica cena partenopea! A suon di karaoke, vino e tanta tanta allegria potrai vivere un’esperienza indimenticabile all’interno di un basso ex casa di tolleranza! Divertiti a suon di inciuci all’interno di un vero basso napoletano in un’atmosfera tipicamente nostrana e assaggia piatti tipici della tradizione magistralmente cucinati davanti ai tuoi occhi: primo, secondo, contorno, vino, caffè e limoncello!!!”.
Il “vero basso napoletano” in questione affaccia sull’asse mediano inferiore dei Quartieri, una strada che per secoli ha ospitato postriboli, bordelli e cantine, popolati da marginali come da borghesi e intellettuali, e tutt’oggi ospita una comunità di transessuali decisamente agée. Chi ancora fa la vita, la fa di notte lontano dai Quartieri.
Fino a un paio d’anni fa il basso era adibito a deposito di merce varia per ambulanti della zona e lo spazio residuo fungeva da parcheggio per un paio di ciclomotori. In un paio di giornate di lavoro si è trasformato in un “tipico basso” locale, con pareti tinte di rosso e addobbate da madonne, san gennari, Maradona, Mario Merola e altre icone neo-tradizionali; il pavimento di maioliche colorate è in parte ricoperto da tappeti in stile persiano, ci sono un tavolaccio in legno laccato, sedie di plastica, cucinino interno, toilette con porta a soffietto. Davanti alla porta d’ingresso, a livello strada, è stato costruito un gradino per scongiurare il parcheggio selvaggio di auto o motorini.
La fila di turisti arriva un po’ spossata dal tour ma tuttavia con animo rallegrato dall’accoglienza degli abitanti, in particolare di alcune donne incontrate sull’uscio di altri “veri bassi” indaffarate a stendere il bucato lavato a mano sulla pubblica via, oppure a cucinare pizze fritte in improvvisate friggitrici alimentate da bombole a gas (pur in presenza, nelle rispettive abitazioni, di lavatrici e cucine moderne, dotate non solo di gas metano ma anche di modernissimi elettrodomestici nonché friggitrici di ultima generazione). Nelle orecchie, oltre al frastuono del vociare continuo dei vicoli, della musica neomelodica sparata a tutto volume, del ronzio dei motorini e del dialetto accentuato – ma pur sempre in versione comprensibile a un forestiero – delle casalinghe popolane, hanno anche le melodie scordate di una banda di suonatori di una paranza della Madonna dell’Arco, in piena attività nonostante il fuori stagione. Tra la banda della paranza e l’incontro con le popolane ci scappa anche un giro di tarantella.
Insomma, l’esperienza dell’immersione negli usi e costumi del vero popolo è quasi consumata del tutto, manca il finale travolgente: la cena con annessa tombola recitata da un femminiello agghindato per l’occasione. E così si entra nel vero basso, si prende posto, si riceve un bicchiere (di plastica) ripieno di vino rosso di Gragnano bello frizzante, si mangia un piatto di pasta alla genovese seguito da una porzione di salsicce e friarielli. Si compra una cartella della tombola con omaggio di fagioli essiccati da usare come segna-numeri, e mentre l’estrazione procede di pari passo con la narrazione dei significati evocati da ogni cifra, si degusta una sfogliatella e un bicchierino (di plastica) di limoncello… Sulla soglia, una piccola folla di residenti osserva e commenta sagacemente la scena.
Il tour dei Quartieri può essere declinato in forme diversificate a seconda della composizione dei gruppi di turisti. È un tipo di offerta che potremmo definire “esperienziale”, un’immersione nel ventre di Napoli, da sempre temuto, oscuro e inavvicinabile. Si allestiscono esperienze rendendole oggetti di consumo corrente, offrendo tre servizi essenziali: “social eating, pranzi o brunch con le signore ‘chef vasciaiole’, pernottamento nei bassi e visite guidate nei luoghi non contemplati dai classici itinerari turistici”.
All’improvviso la realtà non fa più paura, il margine diventa un potenziale moltiplicatore economico, un’opportunità da sfruttare da diversi punti di vista. È l’incoming personalizzato, l’accoglienza creativa che prova a monetizzare un cliché agendo sugli appetiti più che legittimi di una parte della popolazione che ben si presta al gioco in cambio di un’integrazione a un reddito che spesso è già costruito in quella zona grigia di produzione di beni e servizi a cavallo tra formale e informale. Come dire? Una riproposizione turbo-capitalista dell’economia del vicolo.
Walter Benjamin nel 1931 introduceva una trasmissione radiofonica dedicatagli dagli studenti delle scuole superiori con queste parole: «Per la generazione dei nostri genitori Napoli era soprattutto un luogo romantico, particolarmente adatto per i pittori, che vi cercavano strane prospettive di tortuosi e ripidi vicoli a serpentina, raffinati effetti di luce ed edifici fatiscenti, impreziosendo i loro quadretti con figure di mendicanti cenciosi, pescatori, donne con il mandolino. È la Napoli del “dolce far niente”, un’invenzione dell’industria turistica, vera e insieme falsa come possono esserlo tutti i cliché di tal genere. In contrasto con quest’immagine del passato, noi invece cercheremo di indagare il vivo gioco delle forze della storia e soprattutto della vita popolare che, nella bellezza selvaggia e barbarica della città, ha lasciato la sua impronta in modo involontario e con artistica regolarità».
Ecco, sembra che oggi i quadretti dei “tortuosi e ripidi vicoli a serpentina”, impreziositi “con figure di mendicanti cenciosi, pescatori, donne con il mandolino” vengano realizzati nel mondo reale provando a cristallizzare un panorama sociale che nella sua quotidianità assume tonalità ben diverse, testimoniando rapporti di forza che segnano una struttura sociale iniqua, segnata da una forte sproporzione di reddito, opportunità e prospettive. Una realtà molto lontana dalla narrazione stereotipata che operazioni del genere contribuiscono ad alimentare con la complicità spontanea di attori reclutati a recitare la maschera di se stessi.
La questione è se simili idee “innovative” contribuiscano a costruire una struttura professionale duratura, in grado di porre le basi per un modello di sviluppo incentrato sul potenziamento dell’industria turistica che preveda un sostanziale miglioramento delle competenze di coloro che ne sono coinvolti, oppure, al contrario, continuino ad alimentare un’arte di arrangiarsi che insegue il miraggio di guadagni estemporanei e precari. Le persone coinvolte nelle visite rispettano degli standard di sicurezza e di qualità dei prodotti serviti e sono legati da un contratto di responsabilità legale con la cooperativa che organizza i tour, le cui visite hanno un prezzo che va dai diciassette euro per i bambini ai sessantasette euro per gli adulti, tariffa all inclusive.
Altra figura lavorativa prevista è il Frate a me, ovvero un abitante del luogo che si presta ad accompagnare il gruppo per i vicoli o la zona prescelta. Un’interpretazione in chiave consumista del gate keeper, il ruolo che sociologi e antropologi assegnano a un individuo che li accompagna nelle ricerche sul campo, “colui che apre i cancelli”, che di norma resterebbero chiusi, per entrare in un contesto da osservare e studiare e non consumarne l’esperienza per riportare a casa una cartolina impreziosita da orpelli di folklore inventato. Perché inventato? Perché la vita quotidiana nei bassi di Napoli non è certo quella spensierata di cui si organizza la visione, le condizioni abitative non sono quelle offerte dalle sistemazioni b&b in veri bassi napoletani dotati di tutti i comfort (wi-fi, riscaldamento, tv al plasma, ecc.) prenotabili online a partire da ottanta euro a notte.
Nei Quartieri Spagnoli (e Avvocata, Stella, Sanità, Montesanto) i bassi sono per lo più abitati da famiglie di immigrazione recente provenienti da Sri Lanka, Pakistan, America Latina, o da famiglie di napoletani segnate da un forte disagio. Nei Quartieri Spagnoli ci sono più di ottanta appartamenti di proprietà comunale occupati da famiglie numerose che aspettano da anni l’assegnazione di una casa popolare. La storica convivenza tra sottoproletariato e media borghesia ha rappresentato finora un argine virtuoso a una gentrificazione di modello classico evitando azioni speculative e fenomeni di spostamento coatto della popolazione, le briglie sciolte all’industria del turismo rischiano invece di fossilizzare una condizione e, al contempo, trasformare il tutto in un parco a tema di una Napoli immaginata, prigioniera dei propri stereotipi. Gli stessi indirizzi amministrativi attuali sembrano agevolare una mercificazione dell’identità e una trasformazione dei vicoli in una sequenza di antiche trattorie e bar ristrutturati in stile shabby-chic e popolati da maschere senz’anima. (–ma /continua…)
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