“La sanità pubblica è la scienza e l’arte di prevenire le malattie, prolungare la vita, promuovere la salute e l’efficienza fisica attraverso l’impegno organizzato della comunità per la salubrità dell’ambiente, il controllo delle infezioni comunitarie, l’educazione degli individui sui principi di igiene personale, l’organizzazione di servizi medici e infermieristici per la diagnosi precoce e il tempestivo trattamento delle malattie e lo sviluppo di un’organizzazione sociale che possa assicurare a ogni individuo nella comunità uno standard di vita adeguato al mantenimento della salute”.
(C.E.A. Winslow, The untitledfields of public health. Science 1920)
Gli anticorpi sono i guardiani del nostro organismo, in circolo alla ricerca di ospiti indesiderati che, quando riconosciuti, vengono legati tramite molecole di superficie, e distrutti. Quando è arrivato nel nostro sistema immunitario, il virus era un ospite nuovo e il nostro sistema immunitario non ne aveva “memoria”, non avevamo anticorpi pronti a combatterlo. Oltre al nostro organismo, anche il paese non aveva anticorpi, quelli “sociali” che si chiamano prevenzione, sistema ospedaliero e territoriale di cura e tutela della salute. Oltre a mettere in crisi la nostra biologia SARS-CoV-2 ha rivelato la fragilità del sistema Italia.
Mentre scriviamo, i casi nel mondo accertati hanno superato il milione, e le cifre relative ai pazienti ricoverati e a quelli defunti sono pesanti, mettono pressione a tutti i livelli su un paese che si è fatto cogliere senza immunità. Si è capito da tempo, tuttavia, che queste cifre sono “drogate” e che non forniscono un quadro reale della situazione. Secondo uno studio inglese, i contagiati “reali” in Italia sarebbero circa sei milioni, quasi il 10% della popolazione totale[1], il che cambierebbe radicalmente lo scenario dentro cui ci troviamo.
La letalità di un agente patogeno è un dato percentuale che si ricava da una formula apparentemente semplice (L=N/P x 100) che mette in relazione il Numero dei decessi totali (N) con il numero di nuovi casi affetti da tale malattia nello stesso periodo e nella stessa popolazione (P). La formula matematica indica chiaramente che questo dato è dipendente da una serie di variabili, in primis dal numero totale di casi, che bisogna trovare e contare adeguatamente, e poi dal numero dei decessi che vanno scremati da quelli non legati alla malattia, il che è particolarmente difficile nelle persone con più patologie che sono la maggioranza dei morti.
Si è molto discusso della necessità dei tamponi, di una campagna che fosse in grado di dare una stima adeguata del problema ma anche di predisporre un piano di isolamento mirato. Senza quei controlli ci siamo trovati ad assistere allo spettacolo quotidiano di esperti, politici e ciarlatani che in seguitissime dirette tv e spazi internet stanno letteralmente dando i numeri.
Dall’analisi dei dati dei singoli paesi, salta agli occhi la situazione della Corea del Sud, che mostra numeri sui quali riflettere. Molti si sono concentrati sull’utilizzo dei dispositivi di controllo digitali utilizzati per contenere l’infezione, dimenticando, forse volutamente, che il risultato coreano è frutto di tanti elementi. Sicuramente tracciare i positivi e seguirne gli spostamenti, per quanto discutibile, è stato un pezzo della strategia di controllo coreana, ma non l’unico. Controlli e tamponi a tappeto, che hanno reso disponibile una mappa epidemiologica affidabile, isolamento dei positivi asintomatici, dotazione adeguate al personale sanitario, controllo e cura a domicilio per i casi lievi, ricovero precoce e disponibilità di farmaci per i casi gravi e quelli critici. Insomma, un sistema sanitario vero. Nella classifica dei posti letto, infatti, la Corea del Sud si trova nel gruppo di testa, insieme al Giappone, con circa tredici posti letto per mille abitanti. Noi siamo in coda a 3,2, meno del Portogallo e delle Seychelles, appena al di sopra della Micronesia.
È ovvio come questi elementi influiscano sulla letalità della malattia. In Corea i decessi sono circa duecento, settemila i ricoverati e un numero di nuovi casi giornalieri che non ha mai superato i mille; dall’8 marzo il dato è sceso sotto i quattrocento mantenendosi stabile, con una letalità intorno all’1%, mentre in Italia siamo a percentuali di gran lunga superiori. Tra la risposta sanitaria dei coreani e la nostra c’è un abisso. In realtà, se i numeri dei contagiati totali fossero quelli indicati dall’Imperial College ci troveremmo di fronte a numeri ben diversi, con una percentuale di decessi al di sotto dell’1%, e un virus con elevata contagiosità ma anche una letalità complessiva molto più bassa di quella che possiamo calcolare con dei dati incongrui come quelli che abbiamo, inferiore alle due epidemie da Coronavirus precedenti. La SARS, nel 2003, fece registrare un tasso del 9,6% e la MERS, esplosa in Arabia Saudita nel 2012, addirittura del 34,4%.
Probabilmente, quindi, se i numeri fossero adeguati, la percentuale di mortalità italiana sarebbe in linea con quella coreana. Restano i numeri sui pazienti ricoverati e quelli in condizioni critiche.
I dati del ministero della salute parlano, al 9 aprile, di oltre centoventimila casi totali, con novantamila persone attualmente positive, tra cui circa trentamila ricoverati e tremila in condizioni critiche. Con questi numeri è chiaro che il problema è l’assistenza sanitaria dei pazienti. E se è così, è altrettanto evidente che non siamo di fronte a un’apocalisse improvvisa, ma alla crisi di un sistema sanitario che non regge il peso della pandemia perché non fa prevenzione, ha una medicina del territorio inadeguata, non è in grado di identificare gli infetti asintomatici e organizzare il loro isolamento, non ha posti letto sufficienti e nemmeno personale in numero adeguato. Se fossimo riusciti a identificare precocemente i contagiati, isolarli e avviare le terapie prima che la sindrome respiratoria fosse arrivata in fase esplosiva, se avessimo avuto più posti letto in terapia intensiva, come per esempio la Germania che a fronte dei nostri circa cinquemila ne ha trentamila, se avessimo avuto risorse da impiegare rapidamente nell’emergenza che pure ci aveva dato un cospicuo e fortuito vantaggio, quali sarebbero i dati su letalità e numero di guariti? Guardare alla situazione sudcoreana forse può darcene un’idea. La catastrofe cui assistiamo è un evento storico figlio di politiche sanitarie che hanno risposto all’esigenza di una sanità pubblica con la nota della spesa. “Non ci sono soldi”. Se non si vuole attribuire a questa affermazione un valore di sacra ineluttabilità, bisogna ricostruirne la genealogia politica.
I soldi mancano in un sistema sanitario che negli ultimi dieci anni si è visto sottrarre trentasette miliardi di euro, a fronte di un aumento del fabbisogno nazionale di soli otto miliardi e ottocento milioni, e di un’espansione del settore privato che rappresenta una fonte di spesa che incide pesantemente sul divario sociale e alimenta il “consumismo sanitario”. Un’emorragia di denaro aggravata da sprechi che continuano a essere una delle voci principali del bilancio pubblico, che storna i fondi verso altre priorità, come i caccia bombardieri. Nel 2018 il nostro paese ha destinato alla sanità risorse pubbliche pari al 6,5% del PIL, nettamente inferiore a quelle della Germania, per esempio, che con il suo 9,5% dispone attualmente di 8 posti letto per mille abitanti contro i nostri 3,2. Cinque pazienti in più dei nostri saranno assistiti, ventilati, faranno terapia in strutture ospedaliere. È un principio elementare, che le malattie correttamente diagnosticate e curate prima che la situazione degeneri, abbiano una prognosi migliore. Così come è evidente, anche a chi non sia un tecnico, che un sistema sanitario pubblico efficiente sia in grado di dare risultati prognostici migliori.
Infiniti tavoli di discussione, invece, in questi anni ci hanno detto il contrario, ponendo il bilancio e le sue “esigenze” come principio guida della politica sanitaria. Un lungo processo dentro il quale si sommano alle colpe della classe politica quelle dei medici che hanno assistito alla devastazione del sistema sanitario, abdicando al ruolo di guida dei processi di governo della macchina sanitaria pubblica in favore di burocrati e politici incompetenti o in malafede. Hai voglia a imprecare contro i pipistrelli e i laboratori segreti che fabbricano virus per la guerra biologica. Le responsabilità vanno ricercate dentro di noi, all’interno di un paese che ha assistito inerte alla distruzione del bene più prezioso, il sistema sanitario, lasciandosi raggirare da imbonitori al servizio di poteri opachi. Il tempo della clausura dovrebbe servire a riflettere sulla dimensione delle responsabilità di ciascuno. Il paziente è grave, il sistema sanitario in pessime condizioni, ma il principio della medicina dice che finché c’è ancora una possibilità si è sempre in tempo per provare a trovare una cura. (antonio bove – continua…)
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[1] Imperial College COVID-19 Response Team, Estimating the number of infections and the impact of non-pharmaceuticalinterventions on COVVID-19 in 11 Europeancountries. 30 March 2020
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