Due presentazioni questa settimana per Palude. Gianturco, dal pantano all’industria e ritorno, libro di Diego Miedo e Davide Schiavon, che racconta con testi e immagini il passato e il presente dell’ex area industriale napoletana.
La prima è prevista per giovedì 20 ottobre alle ore 17,00, presso la biblioteca Giulio Andreoli di Gianturco (via Murialdo, 7).
La seconda, al centro storico, venerdì 21, a partire dalle 19,00, alla libreria Dante & Descartes (piazza del Gesù, 14).
Pubblichiamo a seguire l’introduzione al volume.
←———————→
COME CI SIAMO IMPALUDATI
Diego guarda a terra, aspetta un po’, poi parla: “In un periodo in cui cercavamo companatico per i nostri disagi giungemmo a Gianturco e ci sembrò il paradiso. L’anno era il 2008, l’idolatria della street art e dei suoi campioni non era ancora iniziata e nel centro storico della città potevi ancora lavorare indisturbato con il favore delle tenebre. Unico pericolo era la luce minacciosa delle volanti della polizia, sostituita in poco tempo da quella accecante del flash delle fotocamere dei cellulari. Ma questa è un’altra storia. Si disegnava di notte ma volevamo lavorare anche di giorno, forse per avere la mente più fresca e la vista più chiara”.
Ma perché Gianturco? Pongo la domanda a entrambi, ma è Davide a rispondere per primo dal fumo della sua sigaretta: “La domanda l’hanno fatta anche i residenti. Nelle nostre teste i motivi erano tanti e nessuno. Ci bastava la spinta ad andare avanti, a tornare tra i quattro ponti, a sapere. Perché proprio qui, chiedevano. Ci avevano già pesati: noi da niente salviamo, non vi diamo voce: quella già l’avete. Non vogliamo riqualificare, non siamo politici. Vogliamo stare qui, languidi, e ascoltarvi, se permettete. E ascoltandovi, trovarvi; scrivendo/disegnando-trovarci. Perché restiamo uniti in una città da asporto. Presa la terra, interrato il fiume, scomparse rane e anguille. Persa l’industria, allontanate le concerie, morto il lavoro, il dopolavoro e il pallone. Non passa nessuno, neanche prima delle elezioni.
Le rughe in contrazione, una grattata in testa e Diego continua: “All’interno e all’esterno delle fabbriche dismesse, sui muri degli stradoni desolati si poteva disegnare indisturbati. Anche se qualche volta la polizia ci ha fermati pensavamo di essere al sicuro, protetti da un paesaggio solitario e lontano dai riflettori. Allora abbiamo cominciato a domandarci perché alcune zone di questa città prendano la vocazione al nulla. Ci siamo chiesti se codificare un vuoto avesse senso. Se in quell’amor vacui le cose prendessero forme inaspettate. Se un quartiere piatto come appare dall’autostrada avesse profondità che non servono a stipare…”
Nel 2010, mi racconta Diego, cominciò a lavorare in due scuole dell’ex zona industriale: una a via Vesuvio e l’altra nel rione Luzzatti. Faceva laboratori di disegno e pittura. Questo lo rese familiare al quartiere e ben visto quando, lontano dagli orari scolastici, disegnava creature sui muri, spesso aiutato dagli stessi ragazzini con cui lavorava a scuola. Disegnare è un ottimo punto di incontro tra mondi anche completamente diversi. Il confronto è immediato, chiaro: gli facevano domande a cui spesso Diego non rispondeva in maniera soddisfacente.
Il disegnatore/pittore sorride, guarda in cielo e continua a parlare: “I disegni realizzati raccolti in questo libro (tanti, ma pochi rispetto alla vastità del territorio) hanno poco di estetico, di rigenerante, di appagante e non servono a nascondere con i colori le malefatte del Comune. Sono espressione di sensazioni generate dall’incontro con una zona della città smantellata, dimenticata, sfasciata, inquinata, ma con un passato glorioso”.
Davide getta la sigaretta, aggiusta gli occhiali: “Durante le interviste il racconto giornalistico era sempre dietro l’angolo. Ma il disagio, se c’era, volevamo emergesse dalle storie, comparando i decenni e le vocazioni del quartiere che era. Dei disservizi si occupano bene la tv e i giornali, senza peraltro ottenere molto – se la riqualificazione è il loro fine. E Gianturco, comunque, resta sempre un luogo margine, neanche lontano, ma come dimenticato: un tubo che attraversa casa e che superi senza badarci più. Anche il loro disagio è di terzo ordine, la movida di Chiaia è ben più assordante”.
Il metodo: “Andammo nel quartiere a parlare. La prima stretta di mano con gli occhi. Ci fermammo in una salumeria di quelle che mettono appetito se solo le guardi da fuori: nell’espositore le pizze appena sfornate, dentro la gastronomia familiare, primi e contorni, i prosciutti appesi e le frittate nel pane cafone. Ci arrivano i poliziotti, gli operatori e i giornalisti delle tv locali – che a Gianturco proliferano e qui fanno merenda– i guardiani italiani dei capannoni cinesi, i pakistani ubriachi, le vedove e le mogli degli operai. Così Ciro il salumiere diventa Virgilio, ci mostra Inferno e Purgatorio, chiama a raccolta le vite del quartiere, ci presenta a tutti. Ci lascia alle porte del paradiso: il registratore è ancora acceso, i sorrisi ci accompagnano. C’è qualcosa da raccontare”. (manlio doris registra una chiacchierata informale con diego miedo e davide schiavon)
Leave a Reply