Si è parlato molto, di recente, dei suicidi in carcere, soffermandosi però quasi esclusivamente sui numeri delle persone che si sono tolte la vita in prigione. Davanti all’ineluttabilità della morte, evento spesso imprevisto e di certo irrimediabile, quello che facciamo socialmente è contare – basti pensare alla pandemia con i suoi bollettini medici. È come se attraverso questa analisi del dato provassimo a controllare l’incontrollabile, una cosa a cui noi società della scienza e della tecnica non siamo più abituati: ci sforziamo con il nostro emisfero sinistro, ormai ipertrofico, di dare un senso matematico, razionale, ordinato e controllabile alla morte, piuttosto che soffermarci sui nostri vissuti emotivi.
Dei suicidi in carcere si fa la conta – vale anche per le associazioni che il carcere lo studiano e lo frequentano da tempo – e poi, sempre sulla base dei numeri, si analizzano le condizioni degli istituti: qual è il tasso di sovraffollamento? Quanti operatori, educatori, psicologi, psichiatri ci sono? Quanti detenuti in rapporto al numero degli operatori? Così si creano dati e si fanno grafici. Ma come stanno insieme questi dati?
Ciò che manca nel dibattito è una narrazione che restituisca senso e complessità ai fenomeni dell’autolesionismo e del suicidio in carcere: oltre ai dati è necessario infatti integrare la parte emotiva, “qualitativa” della faccenda, che poi è quella più importante. Del resto, chi abita la disperazione vive di emozioni troppo grandi per essere tollerate, e la questione diventa tutta di sopravvivenza psichica, che, sì, ha la preminenza anche su quella fisica: “Le lesioni del corpo sono una forma di sacrificio”, scrive Le Breton in La pelle e la traccia. Le ferite del sé. “L’individuo accetta di separarsi da una parte di sé per salvare la totalità della propria esistenza. La posta in gioco, insomma, è il non voler morire: sono ferite che creano l’identità, tentativi di accedere al sé più profondo disfandosi del peggio. […] In questo caso, la lesione del corpo (incisione, bruciatura, lacerazione) è una forma di controllo su di sé cui fa ricorso colui o colei che ha perduto la scelta sui mezzi, e non dispone di altre risorse per continuare a essere al mondo. In un certo senso, dunque, la lesione è una forma di autoguarigione”.
In quest’ottica l’autolesionismo è uno dei poli del continuum al cui opposto si colloca il suicidio, sebbene queste pratiche abbiano due elementi chiave in comune: l’impotenza rispetto alle cose del mondo (l’istituzione totale ha in sé molte caratteristiche che possono far sperimentare questo vissuto) e la necessità di trasformazione. A proposito del suicidio, Hillman scrive che “la morte compare allo scopo di aprire la strada alla trasformazione. […] L’anima promuove l’esperienza della morte per far entrare il cambiamento. Visto in questo modo, l’impulso suicida è una pulsione trasformativa che dice: la vita così come si presenta deve cambiare. Qualcosa deve togliersi di mezzo. […] Il meccanismo deve arrestarsi del tutto. Ma dal momento che non posso intervenire sulla vita del mondo, dopo aver tentato di tutto, porrò fine alla vita qui, nel mio corpo, l’unica parte del mondo oggettivo sulla quale ho ancora potere. Porrò fine a me stesso”.
Lavori di questo genere sono fondamentali per guardare la questione da una prospettiva complessa, che restituisca senso a questi gesti estremi e che fornisca consapevolezza del fatto che non è affatto vero che se una persona detenuta si autolesiona è impossibile conoscere i motivi per cui lo fa (“Non è chiaro, non può esserlo, il motivo del gesto autolesionistico” si leggeva qualche giorno fa in una “breve di cronaca” a proposito del tentativo di evirazione di un detenuto nel carcere di Agrigento). Fondamentale, infatti, per conoscere queste ragioni, è una modalità di ascolto delle persone detenute che passi per l’abbattimento del pregiudizio (considerando che i “gesti estremi” ne suscitano di norma molti) e per una pratica di “esposizione” nella messa in relazione con l’Altro.
Un’altra battaglia che si cerca di portare avanti partendo dai dati statistici è quella relativa alla sproporzione tra il numero di operatori sanitari e il numero di persone detenute. Ma se è vero che la matematica non è un’opinione, anche in questo caso si tratta di una lettura da mettere in discussione.
Personalmente ho avuto la fortuna di lavorare al fianco di due bravi psicologi sanitari, con un ventennio di lavoro in carcere alle spalle; due soli professionisti all’interno di un grande carcere, come altri, estremamente sovraffollato. La sproporzione numerica tra operatori e persone detenute è un problema annoso, con molte richieste, poco tempo e una necessità impellente di individuare una soluzione (prima di tutto riequilibrando il rapporto tra operatori e persone detenute). Tuttavia, questa sproporzione non ha impedito a questi professionisti di svolgere bene il loro lavoro e di portare avanti percorsi di sostegno con attenzione e dedizione, evitando spesso il peggio. Il cuore del loro lavoro era quello di impegnarsi a (ri)dare dignità alle persone dentro il carcere, ma li ho anche visti faticare molto nel provare a tessere fondamentali alleanze di lavoro con altri professionisti sanitari (infermieri, medici, psichiatri).
Una volta, al quinto anno di università, un bravo professore ci fece riflettere sulla differenza tra intellettuali e tecnici nel nostro lavoro di cura: i primi sono persone che hanno sviluppato un pensiero critico e la cui pratica clinica deriva da un preciso posizionamento personale e professionale; i secondi svolgono i compiti che gli vengono assegnati, applicano i protocolli, hanno una fede cieca nella loro tecnica e nell’autorità. Eppure, ciascun operatore si posiziona, consapevolmente o meno, e da questo posizionamento derivano modi diversi di svolgere il proprio lavoro. Con quel professore ci ritrovammo a personificare questa differenza in due figure emblematiche come Franco Basaglia ed Emil Kraepelin, psichiatra tedesco che ha operato tra l’Ottocento e il Novecento.
“Il modo di procedere di Basaglia – scrive Pier Aldo Rovatti – ti spingeva a una tale vicinanza con i ricoverati che tutti i filtri o le mediazioni, basate su quello che credevi di sapere, si incrinavano e saltavano quasi subito, lasciandoti completamente scoperto. Ti veniva detto di guardare quello che avevi di fronte, non quello che avevi nella testa”. Basaglia impostava il suo lavoro su una relazione il più possibile orizzontale con il malato, il quale veniva ascoltato e aveva persino un posto, accanto agli operatori, nelle assemblee dove si decideva anche del suo futuro. In qualità di direttore del manicomio di Gorizia, Basaglia ha rifiutato di firmare il registro delle contenzioni: ha pensato e ha detto no, ha preso distanza da un protocollo che non condivideva.
Per un tecnico come Kraepelin, la relazione con il paziente era invece indiscutibilmente gerarchica: al vertice c’era il medico illuminato – dal sapere o dalla conoscenza divina – che forte del potere datogli dal sapere tecnico non aveva alcun bisogno di ascoltare la persona che aveva davanti, perché quella sarebbe stata solo ed esclusivamente un’inutile perdita del suo tempo. Ci sono ambiti in cui, più di altri, vige un’impostazione e un’organizzazione del lavoro di questo tipo, con una profonda distanza nella relazione, e l’istituzione totale è di certo uno di questi (Goffman spiega chiaramente come l’istituzione si fondi e si organizzi attorno a una differenza di status e privilegi tra staff e internati).
Un clima culturale definito dalla tecnica, dai numeri e dalle statistiche rischia però di dominare anche settori specifici come quello sanitario. È noto, per esempio, come le aziende sanitarie siano tenute a produrre periodicamente documenti statistici per misurare l’efficienza dei loro reparti e persino dei loro operatori. Se pensiamo al carcere, poi, la sproporzione tra il numero di operatori e quello sempre crescente di detenuti finisce per creare una considerevole pressione all’interno di un sistema costruito in questo modo, di cui anche alcuni professionisti possono rimanerne vittime: “In cinque minuti ne vedo tre”, mi disse con orgoglio uno psichiatra, chissà se un discepolo di Kraepelin o una vittima dei numeri.
Gli stessi gli operatori abitano, d’altronde, seppur con un ruolo differente, il medesimo contesto e la medesima istituzione totale delle persone detenute, e la loro appartenenza allo staff non implica che siano esenti dal risentire degli effetti negativi di questo contesto (che per sua natura tende a isolare e a rompere i legami). Ci si può sentire molto soli quando si lavora in carcere, e sempre, da soli, si fa molta più fatica. In questo senso anche le relazioni nelle equipe di lavoro sono a rischio, pur essendo fondamentali per mantenere una traiettoria condivisa, avere una rete di riferimento a cui potersi appoggiare, schiarirsi i dubbi attraverso il confronto. Ciò che serve, oltre all’analisi del dato, è creare dei presupposti perché queste condizioni di lavoro diventino ottimali, elemento indispensabile a fronte degli enormi carichi di lavoro, una gravissima costante nella storia del nostro sistema carcerario.
La gestione del rapporto tra operatori, e tra operatori e detenuti, la frequenza e la difficoltà di lettura “qualitativa” dei gesti di autolesionismo dovrebbero interrogarci profondamente come collettività sulla funzione e il funzionamento del carcere, dal momento che questo è inteso come la risposta comunitaria alla devianza criminale. Quello che facciamo, invece, è parcellizzare questi fenomeni complessi, contarli, provando a mettere in campo dei rimedi puntuali, sviluppati attorno ai singoli nodi della rete, completamente ciechi rispetto al contesto più ampio.
Per esempio, si pensi alla questione legata al numero di telefonate concesse alle persone detenute come strumento per contrastare la solitudine. Benedetto Saraceno definirebbe queste telefonate “intrattenimento”, un modo con cui far passare il tempo da scontare in carcere, ma incapaci di mitigare la solitudine che crea intrinsecamente l’istituzione totale, fatta, fra le altre cose, per strappare le persone dai loro contesti di appartenenza e spogliarle delle loro molteplici identità sociali (si mette a nudo il Sè delle persone, ossia la loro parte più intima, che può risultare molto fragile senza tutta una serie di appoggi, di cui le relazioni fanno parte.). Tutti i provvedimenti a cui si sta pensando, per quanto utili, sono dei palliativi finalizzati a “umanizzare” l’istituzione totale, concepita per totalizzare l’esistenza degli internati per poterne plasmare il Sé. L’istituzione totale isola? Allora noi rafforziamo i legami. Spersonalizza? Allora individualizziamo il trattamento. Ma perché, invece, abbiamo paura di dire che è la violenza intrinseca all’istituzione totale il problema? Perché tutte queste morti non ci portano a mettere seriamente in discussione il modo in cui ci prendiamo “cura” della marginalità e della devianza?
In realtà, i fatti dicono che siamo davanti a un bivio: o investiamo nell’intrattenimento, provando a umanizzare l’inumanizzabile, oppure de-istituzionalizziamo, lavoriamo per smantellare l’istituzione totale. È la scelta che dovette fare Basaglia, una scelta obbligata per chi con onestà intellettuale comprese che il manicomio non poteva essere migliorato, doveva essere smantellato. (elisa mauri)
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