dal numero 11 (novembre 2023) de Lo stato delle città
La casa di Luciano a Dolceacqua non aveva recinzioni. Camminavo in salita nel caruggio oltre il torrente Nervia, appariva il melograno in fiore e giravo a destra nella prima fascia. Nel folto dell’orto crescevano zucchini, melanzane e patate, piante aggrovigliate senza l’ordine di filari. Arbusti spontanei di pomodoro spuntavano dalle fessure tra le pietre davanti alla casa. Io non vivevo a Dolceacqua, per raggiungere Luciano scendevo da Apricale. A monte del Nervia, oltre Isolabona, s’apre una valle scavata da un affluente: il rio Merdanzo. Nel Merdanzo, secondo Calvino, cagava il barone rampante: “Allora trovò, sulla riva del Merdanzo, un ontano che sporgeva sul punto più propizio e appartato, con una forcella sulla quale si poteva comodamente star seduti. Il Merdanzo era un torrente oscuro, nascosto tra le canne, rapido di corso, e i paesi viciniori vi gettavano le acque di scolo”. Ancora adesso il Merdanzo ha un oscuro corso tra vegetazione intricata. Da una parte del fiume s’alza un versante esposto a sud, assolato, che accoglie il paese di Apricale. Di fronte, invece, nel tratto d’altura in ombra, c’è una casa rosa – il posto dov’ero accolto. Ad Apricale crescono l’ulivo e il lentisco, ma sul versante opaco ci sono querce, lecci, funghi dopo la pioggia. In questi ricordi mi muovo tra la casa rosa di Apricale, le fasce di Luciano a Dolceacqua e la vicina frontiera francese.
Andavo a trovare Luciano e parlavamo in cortile con una bottiglia di vino aperta, una scodella di gelsi, fichi appena raccolti. Si sedeva sempre nel punto dove più forte arrivava la luce del sole. Nei primi nostri dialoghi non mi soffermavo sulle lotte politiche del passato, o dei nostri giorni, ma gli chiedevo del lavoro di restauro e pulizia dei sentieri dimenticati. Nel secolo passato Luciano aveva pulito sentieri in val Nervia e lungo la frontiera. «Io scendevo – raccontava Luciano – e il primo sballato che trovavo con la macchina gli chiedevo se voleva venire a lavorare con me. Ho sempre fatto così, chiamavo il primo sbandato con la macchina. Gli dicevo: “Vieni”. Perché c’era da portare la motosega, i decespugliatori». Prima di tutto bisognava ispezionare il paesaggio alla ricerca di tracce antiche. «I sentieri erano stati abbandonati negli anni Cinquanta, allora ti perdevi. Dovevi guardare le cartine, oppure chiedevo ai contadini. Cercavo le mulattiere che andavano da paese a paese». Sapevamo entrambi l’importanza dei sentieri abbandonati: per me quella vecchia attività di Luciano non era solo un’occasione per nuove passeggiate in montagna, ma una rivelazione di mappe segrete per vie frontaliere dimenticate.
Dopo decenni Luciano ricordava con passione una personale archeologia dei sentieri: «Molte vie erano state riprese dal bosco, allora dovevo aggirarle, oppure andare a pancia a terra. In altri posti c’erano state delle frane, quindi ho dovuto rifare dei tratti di muro, oppure dovevo rimuovere materiale della frana sovrastante. Il lavoro non era solo di ripristino. Lavoravo quarant’anni dopo l’abbandono, capisci? Al primo passaggio andavo con la motosega e con il decespugliatore con il disco. In alcuni casi con la picozza e le cesoie. Al secondo passaggio ripulivo con il filo, ovvero con il nylon, e non con il disco. Lo facevo per piacere e passione. Erano sentieri che avevano fatto sì che gli abitanti arrivassero lì per coltivare, un lavoro enorme fatto su posti scoscesi, si erano fatti un culo della Madonna. “Possibile che si perda questa ricchezza”, mi dicevo. Non erano sentieri che servivano a vedere il panorama o salutare il sole la sera, servivano ad arrivare ad altre terre. Gli antichi andavano dove c’erano gli strati rocciosi, le lastre: loro avevano l’accortezza di andare lì, e quelle lastre rimangono nei secoli». La cura dei sentieri mi sembrava un’occasione per ritrovare le linee di passaggio e collegamento – e dunque le attività economiche, le relazioni sociali – di una civiltà contadina ormai estinta.
Vista da Apricale, la casa rosa e le sue terrazze sgombre formano una chiazza chiara che interrompe lo scuro denso della boscaglia. Chi arriva ad Apricale può credere che il paese disteso sotto il sole – vagano i turisti affascinati tra la piazza e i caruggi al fresco – sia circondato da boschi vergini d’un verde da fiaba. In verità, prima dello sviluppo industriale e dell’esodo dalle campagne, ogni tratto di collina era terrazzato e coltivato. I sentieri sono coperti ormai, eppure basta inoltrarsi nel folto e tagliare con la cesoia i rovi, le liane, i giovani noccioli per scoprire scalinate in pietra, casolari e muri a secco. Negli anni ho trovato tra le fasce abbandonate scarpe antiche da lavoro, una paletta per raccogliere la cenere, cucchiai corrosi di ruggine, un martello e una vanga malandati, più in alto una stufa coperta di licheni. E sotto le querce si possono ancora incontrare fichi, peri, meli sopravviventi. Esploravo il bosco intorno alla casa rosa e immaginavo templi indigeni che si nascondevano nella giungla: resti di una civilizzazione consumata dal tempo, e perduta.
I muretti a secco sono lo scheletro di questo paesaggio. I pendii in Liguria sono troppo scoscesi per la coltivazione e generazioni di contadini hanno costruito muri in pietra per sostenere fasce di terra piana per orti, frutteti, oliveti. Ho lavorato – ero aiutante, trasportavo e selezionavo pietre – nel restauro di muri franati. Si scava con il piccone per almeno un metro dentro la terrazza soprana e mezzo metro in profondità. Ogni muro ha due ordini, o strati di pietre: quello più profondo ha rocce irregolari, la parte esterna invece richiede un incastro preciso tra le componenti. La sezione tra i due ordini è riempita con secchiate di terra e, soprattutto, con pietre piccole o minuscole che appesantiscono e rafforzano la struttura. Ho visto, ad Apricale e in posti impervi di montagna, muretti a secco con pietre che pesano quintali. Il lavoro è massacrante per il fisico e oggi un restauratore, se vuole conservare la salute, svolge questo lavoro per cento giorni l’anno, e non di più. Luciano erigeva muretti a secco da solo, credo fosse abile. Spesso negli anni ho visitato un tempio solare che Luciano costruì da qualche parte – in territorio aprico, e segreto. Laggiù i muretti a secco reggono un mondo di ulivi, ancora adesso il tempio riceve i raggi del sole anche se Luciano non c’è più.
LE VIE DELL’ACQUA
Il muro a secco sostiene la terra e rallenta il naturale processo di erosione del suolo, i crolli avvengono soltanto dopo decenni di abbandono e incuria. La struttura regge grazie alla tensione tra le pietre e non ha bisogno di cemento. Così, durante le piogge, il muretto assicura una tenuta maggiore perché l’acqua filtra attraverso gli interstizi senza incontrare resistenza d’altri materiali usati come legame. Arrivavano i temporali di fine estate alla casa rosa, indossavamo l’impermeabile e uscivamo a osservare i percorsi dell’acqua: il corretto deflusso delle piogge m’appariva essenziale per la tenuta di questo paesaggio. Ai lati delle terrazze ci sono due esili torrenti che portano al Merdanzo: se i corsi di superficie sono manutenuti, dal bosco discende il flusso d’acqua piovana e s’incanala negli alvei senza investire con troppa forza le terrazze. Qui la mente deve visualizzare i punti di confluenza dell’acqua e immaginare canali di scolo e terrapieni negli snodi più critici. Una primavera, ricordo, era necessario restaurare un muro franato e servivano le pietre: le abbiamo trovate scavando nel letto del torrente. Le pietre recuperate servivano al rafforzamento delle terrazze e, al contempo, l’alveo più profondo facilitava il fluire dell’acqua. Il paesaggio m’appariva come un sistema di relazioni in equilibrio, un’armonia tra il pieno e il vuoto: i massi dei muri e i solchi degli alvei erano le componenti di un organismo.
Nel tempo ho imparato a visualizzare un paesaggio essenziale, o astratto: le direttrici delle vecchie vie di terra – mulattiere, sentieri – e, soprattutto, il reticolato delle linee idriche. Al tempo della civiltà contadina l’acqua doveva defluire nelle stagioni piovose ed essere ben distribuita d’estate. In dialetto il canale è il “beudo” e gli orti erano irrigati da beudi che seguivano l’andamento delle terrazze. Ho sentito un racconto di un vecchio contadino sui canali e sul razionamento comunitario dell’acqua. Da bambino aveva il compito di avvertire quando l’acqua toccava alla sua famiglia e giungeva nel beudo che scorreva al fianco della casa. Il rivolo iniziava a fluire nelle ultime ore della notte o al primo albeggiare e i bambini di Apricale si addormentavano con una mano nel canale ed erano svegliati all’improvviso dalla frescura umida, così avvertivano i grandi: è arrivata l’acqua!
Ancora si trovano nella boscaglia cisterne di cemento che nel Novecento servivano a conservare l’acqua razionata d’estate. Un tempo il paese di Apricale era rifornito dalla Maudena, una vasca che collezionava, e colleziona ancora, alcune sorgenti del versante in ombra. Inoltre le famiglie potevano disporre di una vena sorgiva che stillava sul proprio terreno e intorno alla sorgente costruivano vasche protette da archi in pietra. Da qui si diramavano altri beudi per l’irrigazione. Un giorno il cugino Vincenzo ha detto che c’era una fonte ad arco nel bosco che copriva le terrazze accanto alla casa rosa. Per due giorni mi sono inoltrato tra i rovi orientandomi grazie ai ricordi di Vincenzo e infine ho trovato l’arco e la vasca coperti d’edera e liane. Le mappe del mondo perduto sono inscritte ancora nella memoria degli ultimi superstiti.
Un’attività politica di Luciano – erano gli anni Ottanta – riguardava la pulizia dei fiumi vicini alla frontiera. «L’acqua era al centro della nostra azione», raccontava Luciano. «C’era il fiume con migliaia di sacchetti di plastica. Abbiamo iniziato con la pulizia del Nervia. Io ho pulito il Nervia e altri fiumi: Borghetto, Sasso, Crosia. Formavamo delle squadre con amici e amiche. Abbiamo sempre fatto la raccolta differenziata: ferro da una parte, plastica dall’altra, il vetro. Mi ero collegato con quelli che portavano via la spazzatura. Delle quantità di rifiuti inverosimili, ti dico. Tutti i comuni della vallata avevano la discarica tra la strada e il torrente. Pensa tu, quando pioveva: quantità immani di rifiuti nel fiume. Temendo che io li denunciassi, i comuni del Nervia sono stati i primi a rimuovere le discariche». Luciano aveva militato in Potere operaio e intendeva la pulizia dei fiumi come una continuazione della lotta.
Se l’ombra scendeva su di noi, ci spostavamo al sole. «Non ero collegato con nessun partito. Avevamo sviluppato associazioni ecologiche, culturali, cooperative, poi il coordinamento ecologico imperiese. Come coordinamento ecologico eravamo diciassette associazioni. L’azione ecologica aveva il presupposto di attaccare i comuni. C’era la legge Merli che li puniva per il loro comportamento, però c’erano i comuni inadempienti rispetto alle stesse leggi democratico-borghesi. Quindi in piazza abbiamo attaccato duramente i sindaci, davanti a mille persone. I sindaci si nascondevano dietro il giornale! L’ecologismo teneva conto della realtà: dietro le anomalie c’erano i responsabili. Io pulivo il fiume per amore del fiume, affinché tutti bevessimo acqua buona, il mio sentimento era universale». A volte, nei racconti di Luciano, compariva anche la violenza dei fascisti, dei gruppi di potere disturbati dal movimento ecologico: durante la stagione della pulizia dei fiumi «mi hanno mandato in ospedale per quattro mesi».
Un pomeriggio Luciano mi raccontò un episodio di violenza fascista più recente, erano gli anni Novanta a Rocchetta Nervina. Il paese di Rocchetta si trova sopra Dolceacqua, a poche ore di cammino dal confine francese. «A Rocchetta ero con Libereso». Libereso Guglielmi era un libertario, botanico e allievo del padre di Italo Calvino a Sanremo. È il protagonista di Un pomeriggio, Adamo, uno dei primi racconti dello scrittore. Qui il narratore descrive – da una certa distanza – il giardiniere Libereso, adolescente e figlio di un membro della federazione anarchica della valle. Nel racconto il giovane Libereso mostra una relazione diretta, tattile, con la natura, come se l’originaria separazione dall’idillio, almeno per lui, non sia avvenuta. «Ci ho lavorato per vent’anni insieme a Libereso Guglielmi», ricordava Luciano. «A Rocchetta, con Libereso e altri compagni, avevamo creato la Libera università itinerante a cieli aperti». Immaginavo un’accademia vagante senza gerarchie e aule stantie, un tentativo di conoscenza nell’aperto paesaggio. «Volevamo che sui sentieri ripuliti intervenissero di volta in volta botanici, storici, archeologi, ecologisti. Volevamo coinvolgere le persone interessate a conoscere i diversi aspetti dei sentieri, la loro ricchezza botanica e geologica. A Rocchetta Nervina iniziammo a tabellare le piante sul sentiero, a preparare un giardino alpino pilota. La mattina sono arrivati quattro facinorosi di destra, dalla strada sopra ci insultavano mentre facevamo pausa. Poi, la sera, ero al giardino e mettevo a posto gli attrezzi e come torno a Rocchetta vedo due di noi a terra. Questi quattro giovani di destra hanno iniziato a picchiare. Pensa tu! Un’iniziativa come può scatenare il furore».
Luciano ha partecipato alle lotte di questo secolo, stretti erano i rapporti con i solidali che giungevano dall’Italia e dall’Europa per contestare la violenza della frontiera. Il confine incontra il corso del Roja, il fiume scorre prima in Francia da Tenda a Breil-sur-Roya, poi in Italia da Fanghetto alla foce di Ventimiglia. Il Nervia – dove si trovano Dolceacqua, Rocchetta e Apricale – percorre la valle accanto, a oriente. Per anni ho osservato le pratiche di polizia lungo il Roja, spesso ne discutevo con Luciano. Certo, la frontiera – intesa come ordine di pratiche di polizia – è diffusa sugli interi territori nazionali e non si può ridurre al tratto lineare della rappresentazione cartografica: chi viaggia può essere fermato nella stazione di Nizza, Marsiglia o Parigi, oppure ai caselli autostradali dell’interno, e respinto in Italia. Perché, allora, dispiegare forze dell’ordine francesi presso i due passaggi di Menton, alla stazione di Garavan e alla stazione di Breil, presso l’incrocio che porta a Sospel? Lungo il confine si scontrano due forze diverse: la polizia italiana desidera, con cinico e taciuto calcolo, che le persone passino, così da liberarsene; la polizia francese, invece, ha l’interesse opposto. Il confine segna un conflitto tra poteri nazionali e proprio in questa zona di faglia si concentrano le loro polizie.
La violenza della gendarmeria francese, i controlli e i respingimenti sono un deterrente: rendono il passaggio difficile e pericoloso, dunque più controllabile. Questa forza di deterrenza è la prima causa di morte: giovani investiti sulla ferrovia o in autostrada, caduti sui sentieri. Al tempo stesso i controlli frontalieri sono uno spettacolo, un’esibizione: i viaggiatori indesiderati passano, alla fine passano tra stenti e ricatti, ma i cittadini europei – turisti, lavoratori, famiglie impegnate in compere del fine settimana – vedono i controlli come esibizione del potere di stato, e si rassicurano. Dunque questo confine ha due funzioni complementari: la deterrenza, lo spettacolo. I viaggiatori irregolari attraversano il confine, a loro rischio, ma non devono essere visti; gli agenti armati, i muscoli stretti dalle polo blu, mostrano le loro funzioni di sorveglianza in una visibilità arrogante.
Qui le due forze di polizia condividono almeno una volontà: impedire ogni forma di solidarietà manifesta, perché essa sovverte tanto il piano della deterrenza quanto quello dello spettacolo. C’era un angolo di strada, sotto Grimaldi, dove attivisti internazionali aiutavano – con acqua, cibo, consigli e sostegno morale – le persone respinte dalla polizia francese e costrette a camminare, sotto il sole, fino a Ventimiglia. Negli anni scorsi, di notte, qualcuno spargeva feci e urina sul parapetto accanto allo spiazzo solidale. Quest’anno l’amministrazione di Ventimiglia ha transennato l’area con barriere metalliche e reti arancioni. Ancora quest’estate decine di viandanti sono stati respinti dalla polizia francese e camminavano stanchi – con un trolley, una busta in mano o uno zaino sulle spalle – verso Ventimiglia, contro l’azzurro del mare, tra calde folate odorose di pino marittimo.
Un’estate, tre anni fa, i solidali erano ospitati tra le fasce di Luciano. C’erano tende tra il verde dell’insalata e il giallo acceso dei fiori di zucca. «Sei venuto anche quest’anno», mi diceva Luciano e appariva un sorriso tra la barba bianca; era come se da poco ci fossimo salutati. Insieme ragionavamo sulla frontiera e sul suo terribile meccanismo. Da una prospettiva critica, di lotta, ci sono due azioni tra loro coerenti: contestare pubblicamente gli stati e le loro pratiche poliziesche; aiutare di nascosto i viaggiatori a passare il confine. Eppure queste due azioni non possono essere svolte nello stesso spazio, nello stesso tempo: chi manifesta per denunciare le contraddizioni, richiama la polizia e brucia i varchi possibili. Bisogna portare la contestazione dove non si può, o non si vuole, attraversare, e lì attirare la polizia; al contempo la solidarietà va organizzata lontano, in silenzio, di nascosto. So che nel suo tempio solare Luciano accoglieva i viaggiatori che venivano dal mare, ma del suo ruolo e del contributo a questa lotta non scriverò oltre: il silenzio, o la reticenza, sono parte di una strategia.
ALLUVIONE E SICCITÀ
Nella notte tra il 2 e il 3 ottobre 2020 una tempesta si è abbattuta sulle Alpi Marittime e ha coperto di pioggia scrosciante le zone di Limone Piemonte, Saint-Martin-Vésubie e la val Roja. Una colata di fango ha investito Tenda, Breil-sur-Roya e il tratto fluviale fino a Ventimiglia, trascinando con sé auto, ponti, abitazioni, tratti di strada e corpi umani. Gli abitanti lungo il Roja francese sono rimasti per più di una settimana senza elettricità e acqua corrente; nei mesi seguenti i rifornimenti giungevano via elicottero e ogni villaggio aveva centri di distribuzione di beni essenziali per la popolazione. Per stagioni, dopo il disastro, la strada statale tra Tenda e Ventimiglia era percorribile a stento: una via in rovina tra versanti franati, cantieri di ricostruzione e distese di ghiaia. Oggi Tenda non è più una viva città di frontiera, ma un isolato avamposto di fondovalle perché il tunnel non è percorribile e la via per l’Italia è chiusa ancora. Tenda m’appare come un aggregato di due città fantasma: all’abbandono annoso del borgo antico s’aggiunge la solitudine dell’area urbana moderna; ora vedo il suo destino come un’allegoria dell’intera valle. Amici di Luciano raccontano che il disastro – sintomo di un dissesto ecologico globale – l’aveva colpito al punto d’esaurire le sue energie, il desiderio di lottare. Era anche avvilito per la gestione della pandemia, disperato dall’ipocrisia di un distanziamento sociale che nulla aveva di solidale. Era la fine del dicembre 2020 e così Luciano è morto.
Questa estate ad Apricale il cugino Vincenzo mi ha raccontato della sofferenza degli ulivi. Le ultime annate di olio sono andate male «perché c’è tutto secco, piove poco. L’anno scorso la raccolta è finita in pochi giorni, a ottobre, perché le olive erano poche. Una oliva qui, una oliva lì. La fioritura è anche bella, ma poi non piove e ci sono poche olive sulla pianta». Ho visto sugli alberi olive marrone scuro, seccate ancor prima di maturare. In questo secolo si usa raccogliere a ottobre «altrimenti le olive sono già tutte per terra», ma una volta, che «non faceva così caldo», i contadini «raccoglievano a febbraio e per terra c’erano tre dita di olive». Mi mostra le tre dita in orizzontale. «Guarda come è cambiato il clima. Faceva un freddo durante la raccolta, dovevi accendere i fuochi per scaldarti! Era difficile, era. Una volta avevamo le reti, ma erano di cotone, pesanti, una fatica! Ora con le reti di adesso è tutta una cuccagna». Sono stato alla campagna di Vincenzo, a San Pietro oltre Apricale. Da lì si vede alto il monte Toraggio contro il cielo. Pensavo alle calamità di questi anni – l’alluvione improvvisa, la siccità – e al loro portato di senso. C’è una connessione?
La fonte della casa rosa, quest’anno, ha smesso di stillare. Era un tempo la fonte d’acqua potabile della casa, ma adesso la sua vena, connessa a falde profonde o linee montane imperscrutabili, è in secco. Anche l’acqua della Maudena è poca, sebbene le sue sorgenti, ora, servano solo la casa rosa e non tutto il villaggio di Apricale, come avveniva un tempo. Questa siccità non è un fenomeno temporaneo, assume piuttosto le fattezze d’un problema strutturale. Davanti a me vedo Apricale: in paese l’acqua è razionata d’estate e non viene dalle riserve tradizionali, ma da un pozzo scavato a novanta metri di profondità. Nel 1861 Apricale aveva mille e ottocento abitanti, oggi due centinaia di persone abitano qui. Eppure d’agosto, durante le due settimane di spettacoli teatrali diffusi per le strade, Apricale ospita almeno mille turisti, visitatori a serata. Arrivano con le auto, consumano e ripartono. Ecco scende il sole oltre l’Abelio, si muovono le zanzare e nel silenzio dopo i rintocchi delle campane tutto mi sembra connesso: il viavai turistico, la fonte arsa, i controlli frontalieri, i muretti a secco che crollano da qui alla Francia, la crisi dell’ulivo e il rovo che abbraccia il passato in una stretta almeno calorosa.
I torrenti accanto alle terrazze della casa rosa sono secchi da tre anni. Il sistema di circolazione dell’acqua è compromesso, l’equilibrio è instabile. Senza il consueto apporto delle precipitazioni, il paesaggio tradizionale come organismo di relazioni armoniche – perno dei miei appunti del passato – è un sistema che non può tornare. Nell’arsura ho compreso che un’archeologia del paesaggio ligure non può essere una risposta alla nuova configurazione del territorio: il mondo contadino è scomparso per la seconda volta, e in modo forse inesorabile. È questa la chiave per interpretare l’ultimo malessere di Luciano? Una volta ero disperato, lo avevo detto a Luciano. Un viaggiatore aveva rischiato di morire su un sentiero ed era, in parte, colpa mia. «Luciano, forse è meglio non agire, perché l’inazione almeno non produce nuovi malesseri, o errori». Mi osservò come se avessi detto un’eresia. «Devi distinguere fra il senso di colpa e il senso di responsabilità, ed eliminare il primo. Resta la responsabilità. Potevi fare quanto hai fatto, questo è il tuo livello di potenzialità ora. Preparati affinché la prossima volta tu possa agire meglio». Disse anche, quella volta, che «questa grande macchina di profitto e di oppressione non può vincere, perché è una macchina di morte, e stai certo che la vita si impone, alla fine di tutto». Questo è stato il nostro ultimo incontro. (francesco migliaccio)
Leave a Reply