Sono a Brazzaville da mesi ma distinguo ancora con difficoltà le vie del centro cittadino, un quartiere di strade asfaltate, ministeri, uffici, grandi banche, ambasciate, centri commerciali, hotel e ristoranti ma soprattutto cantieri recintati davanti ai quali vengono affissi grandi cartelloni con le foto del progetto finito e la bandiera del paese dell’impresa costruttrice (Cina, Francia, Brasile, Italia). Non mi capita spesso di dover attraversare queste vie e la domenica delle elezioni presidenziali francesi prendo un taxi e mi faccio accompagnare all’Ambasciata di Francia, dove gli elettori residenti all’estero voteranno. Decido di passeggiare per il quartiere centrale dirigendomi poi a Bacongo, zona popolare che vi confina e dove si trova il più grande mercato della città.
Dato lo stato di allerta con cui queste elezioni si sono svolte in Francia mi aspettavo di trovare davanti all’ingresso dell’edificio diplomatico un dispiegamento di forze militari. Invece c’è solo un anziano guardiano che mi indica la porta da cui entrare per raggiungere i seggi, gli lascio intendere che non sono andata per votare e mostro il mio passaporto italiano, un po’ interdetto mi chiede cosa faccia allora lì. Mentre cerco una risposta che possa andare bene, trovo una bacheca di annunci che inizio a fingere di leggere per restare ancora qualche minuto a osservare gli avventori. Tre uomini escono, salutano cordialmente e salgono sui propri fuoristrada.
Mi avvio anche io camminando per le strade caldissime e vuote. Nessuno le attraversa di domenica: gli uffici sono chiusi e chi abita gli hotel vi resta approfittando di piscine e ristoranti. C’è un silenzio a cui non sono abituata da quando mi trovo qui. Arrivo davanti a un grande centro commerciale di una catena francese, aperto anche la domenica, ed entro per cercare un po’ di riparo dal sole di mezzogiorno. Si apre la vetrata dell’ingresso e la musica spezza immediatamente il silenzio della strada che avevo appena lasciato. Molte le persone con il carrello pieno di prodotti importati. Vagando tra gli scaffali ritrovo gli stessi articoli che acquistavo quando vivevo in Francia e, girato un angolo, anche uno degli uomini intravisti all’uscita del seggio. Due bambine mi passano di fianco con i genitori, una di loro indossa una maglietta di Che Guevara. Immagino tutta la famiglia spostarsi verso il centro commerciale dopo aver votato, ma forse non sono neanche francesi.
Esco e mi dirigo alla nuova passeggiata sul lungo fiume: una strada asfaltata con un ampio marciapiede e una balaustra che affaccia su alcuni campi coltivati, il fiume Congo. A pochi chilometri si trova Kinshasa, la capitale della Repubblica Democratica del Congo. La domenica la circolazione delle auto viene interrotta e al tramonto le carreggiate si popolano di giovani e famiglie che passeggiano, ma il viale verso le tredici è vuoto. Continuo a camminare fino al ponte del 15 agosto 1960 (data dell’indipendenza del paese), nuova opera di cui è stata incaricata un’impresa cinese. Il ponte stato edificato sopra a un terreno sul quale stanno costruendo nuove villette recintate a pochi metri dal fiume. Anche questi lavori sono gestiti da un’impresa cinese, gli unici rumori che sento mentre attraverso il ponte sono quelli di ruspe e macchinari dei dipendenti a lavoro.
Alla fine del ponte c’è un obelisco romboidale che segna il punto in cui Pietro Sarvorgnan di Brazzà entrò nel paese e alle sue spalle la residenza dell’ambasciatore di Francia. La strada svolta poi verso nord e ci si ritrova nel quartiere di Bacongo. A destra e a sinistra dell’asfalto si aprono vie in terra battuta, i chioschi agli angoli sono aperti e vendono birra locale e succhi di frutta all’ombra di un ombrellone colorato. Si sentono i canti delle differenti chiese e c’è un viavai animato di persone. Apro il quotidiano che avevo comprato e leggo l’unico articolo sulle elezioni che vi è presente. Un trafiletto molto schematico sulle politiche migratorie proposte dai diversi candidati. Ripenso al giorno prima quando seduta al bar dell’Institut Français du Congo discutevo con alcuni ragazzi francesi dei programmi elettorali. Un’amica che lavora per le Nazioni Unite mi raccontava dei discorsi dei suoi colleghi congolesi che speravano in una vittoria di Marine Le Pen «così la finiamo con questa storia della Franco-Afrique».
Riprendo la via asfaltata e mi dirigo verso il marché total, un groviglio di stradine nelle quali è difficile passare tanta la merce esposta tra banchetti di legno e stuoie di plastica in terra. Mentre cammino incontro Acramo, un ragazzo congolese conosciuto qualche tempo prima. Lui mi dice che «il paese dovrebbe smettere di dipendere dalla Francia ma in realtà non è pronto a farlo, i nostri politici non sono pronti». A Marine Le Pen preferisce Macron: è giovane e per questo dovrà assumersi nel tempo le conseguenze delle sue azioni. «Gli altri sono vecchi, cosa interessa loro del futuro?». Mentre parliamo ci coglie un temporale molto forte, costretti a restare sotto una tettoia fino a sera mi accorgo dell’ora tarda e cerco di rientrare in tempo per guardare i risultati elettorali in qualche locale. Ma a causa del maltempo le antenne satellitari sono disturbate: niente elezioni e niente partita.
Il giorno seguente cerco i dati dei seggi delle ambasciate di Brazzaville e Pointe Noire e mi stupisco. In entrambi i poli elettorali del paese la percentuale di voti per Fillon è elevata. A Pointe Noire, capitale economica e principale luogo di estrazione del petrolio, dove Total e Eni fanno da padroni, il grande sconfitto dalle elezioni francesi, che in patria si è fermato al 19,8%, qui totalizza il 39%, seguito da Macron al 32%. A Brazzaville Macron lo supera per una cinquantina di voti. Il mio stupore sfuma quando analizzo meglio il dato. La mia visione della popolazione francese espatriata in questo paese è molto parziale. Le persone che frequento sono volontari o dipendenti di ONG internazionali conosciuti durante il lavoro. In poche occasioni mi sono trovata a condividere del tempo con chi invece rappresenta una larga parte dell’elettorato francese in Congo: chi lavora nelle imprese petrolifere o nelle costruzioni, i grandi imprenditori che investono in questo paese in cui ci sono grandi interessi, molte risorse e un largo margine di guadagno. Questi ultimi si rivolgono a una politica conservatrice che continui a permettere loro di coltivare i propri profitti.
Nel pomeriggio, alla fine di una riunione di lavoro, discuto di questo primo turno elettorale con un collega congolese. Mi mostro preoccupata per le percentuali del Front National, seppur prevedibili, e gli domando se l’avanzata dei partiti nazionalisti non interroghi un po’ anche questi territori in cui si incontrano gli interessi di molti stati occidentali. Lui fermamente risponde: «Non cambierà nulla. Non saranno i presidenti francesi a cambiare questo paese ma solo le politiche di un presidente congolese. Ma come possono le nostre classi politiche formate in Europa avere una visione diversa da quella europea?». (martina concetti)
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