Sabato 17 giugno un fiume di gente ha attraversato le strade di Torre Faro, nel messinese, il punto più vicino alle coste calabresi, lì dove dovrebbero sorgere i cantieri per la costruzione del ponte sullo stretto. Un corteo di due chilometri che dal litorale di Messina, costeggiato dalle palme, si è concluso davanti all’Horcynus Orca. Circa tremila persone, tanti siciliani con in testa al corteo il movimento No Ponte, la rete No Muos, Wwf e Legambiente ma anche partiti, sindacati, associazioni e centri sociali contrari alla costruzione di un’opera tanto faraonica quanto devastante sia in termini economici che ambientali. Tra i cori più urlati: “Valutate i vostri danni il cantiere durerà cent’anni”, e tanti striscioni ironici come “Salvini levaci manu” e “Lo stretto grida vergogna”.
La manifestazione, indetta per protestare contro il Decreto Ponte, approvato dalla Camera e dal Senato il 31 marzo 2023 – che secondo alcune stime costerà quindici miliardi di euro –, ha radunato migliaia di persone e verrà ricordato tra i cortei più partecipati degli ultimi anni in Sicilia. Ma perché così tante persone sono scese in piazza per protestare contro la costruzione di questa grande opera?
La prima questione riguarda la cessione di parti del territorio alla grande impresa al fine di estrarre profitto. La popolazione chiede di utilizzare queste risorse per risolvere i problemi impellenti, come la messa in sicurezza del territorio e il finanziamento della sanità di prossimità, invece di continuare ad alimentare un sistema che già con il progetto Tav ha mostrato le sue crepe: aumento vertiginoso dei costi, errori nella progettazione e nello smaltimento dei materiali, danni irreparabili all’ambiente. Si mette in campo il solito meccanismo dove la ditta che costruisce l’opera non ha nessuna responsabilità e dove gli aumenti di spesa ricadono sempre sul soggetto pubblico. Anche il ponte sullo Stretto segue il medesimo percorso. E gli “avvoltoi” sono sempre pronti a intercettare ingenti guadagni. Come la Società Stretto di Messina Spa, costituita per la prima volta nel 1981 con il compito di occuparsi della realizzazione dell’infrastruttura ma messa in liquidazione nel 2013 con il governo Monti. Un carrozzone di incarichi e consulenze milionarie che nel tempo ha fatto lievitare i costi per i contribuenti pubblici. Per esempio, il nuovo amministratore delegato, Pietro Ciucci, è tornato a ricoprire l’incarico dopo aver gestito la società dello Stretto per diversi anni, ma soprattutto dopo aver lasciato la guida dell’Anas Spa a causa del crollo di un ponte autostradale che collega la Palermo-Catania. Inoltre vale la pena ricordare che parliamo di una società che doveva essere liquidata nel 2014 e che già nel 2021 i suoi debiti raggiungevano i ventiquattro milioni di euro.
Ci sono poi altre società, come la Webuild, ex Impregilo Salini, che a oggi reclama dalla società Stretto di Messina, dal ministero dei trasporti e dalla presidenza del consiglio danni per settecento milioni. Conti alla mano, i debiti per un ponte mai realizzato si attestano intorno a un miliardo e duecento milioni.
Sempre la Webuild ha vinto un appalto per la realizzazione del raddoppio ferroviario dei treni sulla Palermo-Catania-Messina per un valore di circa 640 milioni di euro, ma anche il progetto dell’allargamento della base Nato di Sigonella. Inoltre, uno studio de lavoce.info che analizza l’assegnazione degli appalti pubblici – tra le imprese attive in Italia tra il 2013 e il 2016 – mostra come l’affidamento garantisce una maggiore longevità delle imprese, un maggiore accesso ai crediti bancari e quindi una selezione degli operatori fatta a monte. Questo dimostra il ruolo della politica nella costruzione di un tessuto economico che drena ingenti risorse pubbliche facilitando anche le infiltrazioni mafiose. È del 2005 un’informativa al parlamento della Direzione investigativa antimafia che avverte di come la mafia si stia preparando a investire il denaro del narcotraffico per la costruzione del ponte.
Ma estrarre profitto significa anche procedere alla cantierizzazione attraverso interventi normativi di carattere emergenziale. Già nel 2003 una relazione tecnico-urbanistica del comune di Messina descrive le ripercussioni che avrebbe causato l’avvio dei cantieri nella città. Nel documento si parla di gravi dissesti ambientali; trasformazione di aree abitate in cave; boschi trasformati in enormi discariche; colline sventrate e un territorio che diventa un cantiere a cielo aperto. Proprio questo adesso è il pericolo più imminente per i messinesi visto che l’inizio dei cantieri è previsto nell’estate del 2024, con i lavori che si dovrebbero concludere nel 2030.
E qui arriviamo al secondo elemento di criticità: nel progetto operativo sono state valutate tutte le peculiarità del luogo per garantire l’effettiva realizzazione dell’opera? Sembrerebbe di no. Ma proviamo ad analizzare il documento del ministero delle infrastrutture e dei trasporti riguardo il ponte.
Il primo punto rivendica come il progetto definitivo sia stato approvato nel 2011 – dalla Società Stretto di Messina – individuando soluzioni innovative già utilizzate in altre parti del mondo. Un’affermazione che solleva perplessità, denunciate da alcuni ingegneri: l’assenza di un progetto esecutivo e tanti interrogativi sulla tenuta del ponte visto che sarà il primo ponte al mondo lungo 3.300 metri. Il ponte a campata unica con un impalcato largo 60,4 metri, torri di 399 metri, 65 metri di altezza e 6 corsie stradali già pone degli interrogativi sulla circolazione dei mezzi, poiché l’area dello Stretto si caratterizza per la presenza di venti di scirocco che superano spesso i 110km/h e che potrebbero causare l’interruzione del servizio. Ma mentre nel documento il ministero assicura la circolazione del traffico stradale con venti fino a 158km/h, l’ingegnere Calvi, uno dei massimi esperti, consultato in audizione alla Camera, smentisce tale asserzione.
Nell’audizione tenutasi il 18 aprile 2023, l’ingegnere metteva in evidenza come fosse difficile verificare l’operatività del ponte con venti di 110km/h e che questo comporterebbe l’interruzione del servizio per almeno un giorno all’anno. Tuttavia, se i 110km/h rappresentano un limite entro il quale non è possibile garantire la circolazione dei mezzi, il rischio è che la chiusura si protragga per almeno settanta giorni l’anno visto che l’area dello Stretto si caratterizza per venti di scirocco che superano spesso i 110km/h.
Un altro problema è rappresentato dalla durabilità e tenuta dell’opera. L’assenza di un progetto esecutivo nasconde i costi ingenti che dovranno essere sostenuti per una costante manutenzione necessaria per evitare crolli. L’altra bufala contenuta nel documento è che il progetto sia a prova di terremoto, perché la relazione Kyoto stilata da Wwf e Legambiente sottolinea come il sistema di spaccature profonde, tra Messina e l’Etna, stia separando la Sicilia dall’Italia e come questo abbia causato uno dei terremoti più devastanti del secolo, quello del 1908, che fece più di centomila vittime. Infine, nel documento del ministero non viene fatto alcun accenno all’impatto ambientale che si ripercuoterà sulla zona dello Stretto come luogo di transito dell’avifauna dove sono censite 328 specie di uccelli e 28 specie di rapaci e che si contraddistingue per la presenza di pesci come il pesce spada e il tonno rosso. Inoltre – sempre secondo la relazione di Wwf e Legambiente – la Commissione europea, già nel 2005, era pronta ad aprire una procedura d’infrazione contro l’Italia per violazione della direttiva comunitaria uccelli proprio in relazione al progetto del ponte sullo Stretto a unica campata.
Certo, la lotta contro il ponte mette in rilievo un terzo elemento: la rete ferroviaria e autostradale siciliana, secondo l’Istat tra le più pericolose in Italia. Negli ultimi anni le procure hanno chiuso, solo nella Messina-Palermo, ventidue viadotti a rischio crolli. A questo si aggiunge una rete ferroviaria paralizzata dall’assenza di una cabina di regia negli spostamenti e di un raddoppio ferroviario in molte tratte, che causano tempi di percorrenza molto lunghi e costi sempre maggiori per spostarsi.
Ma il ponte per il governo rappresenta anche il rafforzamento dell’hub militare presente in Sicilia. Nella relazione presentata il 31 marzo da Giorgia Meloni e dal ministro delle infrastrutture Matteo Salvini si legge che il “ponte sullo Stretto costituisce un’infrastruttura fondamentale rispetto alla mobilità militare, tenuto conto della presenza di basi militari Nato nell’Italia meridionale”. Un ragionamento in linea con la trasformazione che sta avvenendo in Sicilia negli ultimi anni. Nella regione si sta consolidando un enorme impianto militare dell’Alleanza atlantica con la base Nato di Sigonella, il Muos, il grande sistema di tecnologia satellitare gestito dal Dipartimento della difesa degli Stati Uniti e la possibile nascita nelle Madonie di un altro campo di addestramento. Tutto questo pone diversi interrogativi sia sulla capacità di difesa dell’opera in caso di attacchi militari e sia sui rischi per la popolazione che risiede in quella parte del paese. Ma non tutto il male viene per nuocere. Perché la continua crescita delle basi militari provoca anche la nascita di comitati in difesa dei territori. La presenza dei No Muos e degli altri movimenti alla manifestazione del 16 giugno, ci parla anche del grande lavoro fatto dai comitati siciliani: una rete di persone che provano a battersi contro tutti gli impianti e progetti non voluti dalla cittadinanza.
Dal 2018 in Sicilia esiste un coordinamento che facilita la relazione tra i movimenti, ponendo le basi per la costruzione di una lotta che reagisca all’espropriazione dei territori. Come accaduto nelle Madonie dopo la realizzazione di un accordo di collaborazione tra ministero della difesa e tre comuni siciliani su un’area di trentatré chilometri in cui si trova una riserva naturale.
L’8 maggio viene firmato un accordo tra i sindaci dei comuni di Ganci, Nicosia e Sperlinga, ma la popolazione non ci sta. E in fretta e furia si decide di creare un comitato, prima attivando una serie di petizioni online che raccolgono le sottoscrizioni di migliaia di persone, e dopo facendo appelli sui social e pretendendo consigli comunali aperti agli interventi dei cittadini e delle associazioni.
Così il 25 maggio le amministrazioni di Gangi e Nicosia esprimono l’intenzione di revocare l’accordo. E cinque giorni dopo anche il sindaco di Sperlinga, che inizialmente sembrava contrario alla revoca, si convince e chiede di far saltare l’accordo.
Questo ci ricorda come la protesta contro il ponte resta interconnessa alle altre lotte rappresentando da una parte il simbolo di un cambio di rotta che unisce le comunità territoriali con storie, approcci e modi differenti di lottare; e dall’altra evidenzia una critica al modello di sviluppo dominante, che ostacola la partecipazione, espropria i territori e in cambio lascia solo impoverimento, nocività e danni ambientali. (giuseppe mammana)
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