Con quest’anno la detenzione amministrativa per persone migranti prive di permesso di soggiorno (sotto le progressive denominazioni di Cpt, Cie e Cpr) ha raggiunto i ventiquattro anni di vita e quasi i trentacinque morti di Stato, dalla sua istituzione con la legge Turco–Napolitano del 1998 a oggi: più di uno all’anno, dei quali l’ultimo il 31 agosto scorso, anche questo nel Cpr di Gradisca d’Isonzo, dove si trovava trattenuta la gran parte delle vittime di Centri di permanenza per il rimpatrio dal 2019 oggi (cinque su sei).
In realtà, si tratta del penultimo, dal momento che l’ultimo morto in un Cpr, in un certo senso anch’egli un morto di Stato, è a rigore l’agente di polizia che lo scorso 15 settembre si è tolto la vita sparandosi all’interno del centro milanese di via Corelli 28, interrompendo improvvisamente un colloquio per uscire e compiere il tragico gesto nella stanza a fianco, per motivi che, nella versione circolata nell’imminenza dei fatti, sembravano essere riconducibili a pressioni ricevute da un superiore, e che poi, col passare delle ore, sono stati imputati a pretesi problemi di carattere personale e familiare.
Eppure, questo mortale strumento di razzismo istituzionale attraverso il quale si discrimina in funzione della provenienza geografica, incidendo direttamente sul bene costituzionale della libertà individuale, è una realtà ancora troppo poco conosciuta. Su di esso la politica di palazzo, e la stampa che di essa si nutre, non hanno d’altronde alcun interesse a puntare i riflettori.
Un motivo di tale silenzio può essere ricercato, da un lato (quello destro), nella sostanziale inefficienza dell’istituto in termini di risultato, che dovrebbe essere quello di agevolare i rimpatri delle persone prive di permesso di soggiorno, mentre la percentuale di rimpatriati si aggira in media, ormai da tempo, intorno al cinquanta per cento dei trattenuti, circa duemila persone all’anno, quando gli “irregolari” sul territorio sono stimati in circa seicentomila persone. Dall’altro lato (quello sinistro), è lecito spiegarsi il silenzio della politica con i sistematici e comprovati abusi e le violazioni di diritti umani largamente documentate e denunciate, che vengono commesse senza sconti anche quando sullo scranno del Viminale (dal quale dipendono le prefetture e quindi i Cpr) sono seduti ministri di area Pd; mentre, infatti, le destre italiane rincorrevano i partiti xenofobi europei e le sinistre rincorrevano a loro volta le destre, lo stesso Minniti nel 2017 disponeva che i Cpr dovessero essere in numero almeno di uno per regione, mentre sotto Lamorgese sono stati inaugurati i centri stabiliti dal predecessore Salvini (Milano compresa) e sono stati stipulati i trattati Italia-Tunisia del 2020, sui quali fa perno, a tutt’oggi, la gran parte delle deportazioni dei Cpr.
A tal proposito va comunque osservato che negli ultimi anni le attività di questi centri sono state sempre meno di “rimpatrio” e sempre più di “permanenza”, visti i lunghi tempi di trattenimento e il relativamente contenuto numero di deportazioni (che a Milano sono scese quest’anno al ventidue per cento dei trattenuti).
Il prolungamento della detenzione, e ciò che esso comporta, deve però essere considerato anche alla luce dell’impianto privatistico della gestione del Cpr: questa è affidata dalle prefetture, con bandi al ribasso, a società private che hanno tutto l’interesse a lesinare sui servizi previsti in appalto (dall’informazione normativa, alla mediazione culturale, all’assistenza medica, per citarne alcuni) per i quali vengono remunerati con un compenso commisurato al numero di giorni di trattenimento di ogni singola persona. Conseguentemente, la coincidenza dell’interesse del gestore al prolungamento della detenzione con quello all’abbassamento della qualità e della quantità dei servizi da questo resi non può che dare luogo all’attuale situazione, nella quale i dieci Cpr d’Italia sono né più né meno che dieci non-luoghi, isole infelici nelle quali viene sospeso ogni diritto: da quello alla libertà personale in assenza di reato, a quello alla difesa, dal diritto di asilo a quello alla salute. Il tutto, senza il minimo controllo né interno della prefettura – che pure ha propri uffici all’interno dei centri che dovrebbe supervisionare –, né esterno, dal momento che, come è noto, è categoricamente vietato a osservatori esterni della società civile, come pure alla stampa, di fare ingresso nei Cpr e tantomeno di colloquiare con i trattenuti. Uniche eccezioni, il Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale (che già svolge la medesima funzione su tutto il sistema carcerario), i suoi corrispondenti locali sul territorio, e i parlamentari europei e nazionali.
E proprio grazie a un parlamentare, il senatore Gregorio De Falco, dell’allora gruppo misto – a supporto del quale sono entrate attiviste esperte collegate alla Rete Mai più Lager – No ai Cpr –, che questa Rete ha potuto due volte, negli ultimi due anni, fare accesso nel centro di via Corelli a Milano, fin dentro i moduli abitativi, per colloquiare con i trattenuti e toccare con mano la realtà studiata e denunciata per anni; tale realtà era stata fino ad allora conosciuta solo attraverso i racconti dei legali dell’associazione Naga, fondatrice della Rete, e le voci dei trattenuti stessi, al centralino dedicato di tale associazione, specie dopo che un’ordinanza del Tribunale di Milano ha ingiunto alla prefettura di consentire ai trattenuti di via Corelli di usufruire dei propri telefoni cellulari, che fino a pochi mesi fa venivano invece sequestrati all’ingresso nel centro, come in molti altri Cpr d’Italia.
Il quadro che ne è emerso, fin dal primo dei due accessi, è stato confermativo degli elementi in precedenza raccolti, e in termini propriamente allarmanti: sia dal punto di vista delle sistematiche violazioni del diritto alla difesa, di asilo e quant’altro attinente ai profili più strettamente legali (visto il considerevole numero di persone che per la stessa legge non avrebbero potuto e dovuto essere detenute, ma che in assenza di adeguata difesa non potevano eccepirlo); sia anche sotto il profilo della generale situazione sanitaria riscontrata.
In particolare, il degrado rilevato sotto tale profilo nel corso del primo accesso (durato nel giugno 2021 circa diciotto ore, su due giorni, per la gran parte dedicate ai colloqui coi trattenuti), aveva formato oggetto di un esposto alla procura della repubblica di Milano, con il quale era stato denunciato lo stato di totale abbandono e grave compromissione psico-fisica dei trattenuti, anche quale conseguenza dell’assenza dei protocolli-convenzione tra prefettura e Agenzia di tutela della salute (Ats), previsti invece dalla regolamentazione nazionale per assicurare loro l’accesso alla medicina specialistica pubblica. Contestualmente veniva richiesto alla procura il sequestro della struttura, per sua inadeguatezza e pericolosità sotto tale profilo. Un altro esposto aveva riportato le testimonianze e le prove raccolte in merito a un violento pestaggio a opera di agenti in tenuta antisommossa all’interno dei bagni, lontano dalle telecamere, a danno di alcuni dei trattenuti in occasione di una protesta per mancanza di cibo. Nessuno dei due esposti a oggi ha avuto un qualche sviluppo di rilievo.
Il primo report-denuncia, Delle pene senza delitti. Istantanea del Cpr di Milano, che ha seguito il primo accesso nel luglio 2021 ed è stato anche presentato in una conferenza stampa al Senato e poi in alcune università lombarde, ha documentato anche gli episodi quotidiani di autolesionismo, i plurimi tentativi di impiccagione e di suicidio tramite ingestione: tutti eventi gestiti solo con una generalizzata e indiscriminata somministrazione di pesanti sedativi (senza alcuna prescrizione specialistica) e il ricorso ripetuto a Trattamento sanitario obbligatorio, da un ambulatorio interno pressoché deserto e comunque sfornito, allo sbando totale.
Risultato: un esercito di persone condannate a una rapida degenerazione del proprio stato psico-fisico, oltre che alla dipendenza da sedativi. Il tutto accompagnato da numerosi casi di malati cronici (psichiatrici, epilettici, asmatici, cardiopatici, diabetici) già entrati tali – e che inspiegabilmente erano stati ritenuti idonei al trattenimento –, poi per nulla presi in carico e lasciati privi di ogni cura. I soggetti tossicodipendenti, salvo eccezioni, non erano presi in considerazione come tali, ed erano abbandonati alle loro crisi di astinenza con interruzione anche di eventuali preesistenti percorsi con i Serd dei territori di provenienza.
Ebbene, tale drammatica constatazione, ha indotto la Rete a dedicare, dopo l’accesso del 2021, una parte delle proprie attività alla costruzione di un ambito (No Cpr Salute) finalizzato alla sensibilizzazione della categoria medica e all’approfondimento delle regole e modalità pratiche di (pretesa) gestione degli aspetti sanitari nel centro, in particolare di Milano. Questo ha poi consentito di ricomprendere un medico (dr. Nicola Cocco, impiegato nell’ambito della medicina penitenziaria e con specifica preparazione sulla realtà del Cpr) all’interno della delegazione che ha partecipato al secondo accesso con il senatore De Falco, a fine maggio 2022, resosi necessario a causa delle notizie trapelate relative a un preoccupante numero di soggetti in gravi condizioni di salute.
Tale sinergia di competenze – nonostante lo sfrontato ostruzionismo di prefettura e gestore, che hanno rifiutato la consegna delle cartelle cliniche dei trattenuti, che avevano munito di apposita delega il senatore – ha consentito la produzione di un aggiornamento del precedente report, con un’ampia sezione dedicata alla violazione del diritto alla salute all’interno di tale centro (come in tutti gli altri), che si conclude, significativamente, come segue:
“Da medico infettivologo che lavora nelle strutture penitenziarie della città di Milano, la visita di sopralluogo al Cpr di via Corelli mi spinge a una sola considerazione conclusiva: tale realtà ha tutte le caratteristiche strutturali (celle, alte mura, cortili angusti), sociali (presenza ipertrofica del personale di polizia, dinamiche di ghettizzazione e isolamento) e simboliche (sbarre) di un carcere italiano, ma senza le garanzie e tutele di salute individuale e pubblica che, dopo tante battaglie e ancora con tanti problemi, almeno formalmente ogni carcere italiano deve avere.
“All’interno della Struttura ho rilevato la presenza di soggetti con quadri psichiatrici e di dipendenza da sostanze di difficile gestione se non da parte di personale specializzato e in contesti adeguati. Tale rilievo, la mancanza di chiarezza del rapporto di convenzione tra l’ente gestore e l’ATS, la mancanza di protocolli di gestione sanitaria aggiornati e di collaborazioni regolamentate con strutture sanitarie e figure professionali specialistiche all’esterno, mi porta a considerare il Cpr di via Corelli un luogo potenzialmente patogeno per le persone che vi vivono, che va segnalato alle autorità sanitarie competenti e che necessita di un monitoraggio medico-sanitario costante per evitare l’insorgenza di eventi gravi a livello individuale e/o comunitario. Ritengo ingiusto sottoporre a tali rischi sanitari delle persone di fatto detenute per problematiche di tipo amministrativo e non penale, e lo segnalo alle autorità competenti”.
Come nella restante parte del report, la considerazione del dottore in questione – prendendo le mosse dall’analisi dei casi specifici e dalla constatazione che essi, diffusi e uniformi, siano rappresentativi di un sistematico ripetersi delle medesime situazioni, sempre e dovunque – non ha potuto pertanto che svilupparsi in riflessioni di carattere generale in merito all’intero sistema della detenzione amministrativa per persone straniere. Sistema che continua, in tutti i Cpr e da sempre, a ripresentare lo stesso orrido modello: persone innocenti recluse, per un illecito amministrativo e in ragione della loro provenienza geografica, braccate a vista da un’enorme mole di forze dell’ordine, in strutture simili a quelle delle carceri di massima sicurezza senza poter beneficiare neppure delle garanzie già minime del sistema penitenziario; strutture per di più impenetrabili da parte della società civile, e non controllate da chi sarebbe deputato a farlo, lasciate (ambulatorio compreso) nelle mani di imprenditori privati il cui unico pensiero è tagliare i servizi per accrescere il profitto. Una macchina tritacarne (sempre più utilizzata come discarica sociale per persone fragili e con disagio) che per metà esegue deportazioni rispedendo al mittente vite come fossero pacchi, e per metà risputa sul territorio persone dopo averne pregiudicato, quasi sempre in maniera irreversibile, la condizione psico-fisica. Il tutto in assenza di una regolamentazione legislativa, che – deliberatamente – lascia campo libero alla discrezionalità assoluta e all’arbitrio di regolamenti interni, circolari e prassi autoprodotte alla bisogna dalla prefettura di riferimento o dallo stesso gestore del centro, che frappongono costantemente ostacoli su ostacoli all’esercizio dei diritti primari.
Se a tutto ciò si aggiunge che la privazione della libertà personale implicata dalla detenzione amministrativa è sanzione (comminata nei fatti senza un processo) di un illecito che in Italia oggi è impossibile non compiere, vista la sostanziale impossibilità di regolarizzazione sul territorio; e se non si dimentica che tale detenzione funge da anticamera di una deportazione pressoché su base della nazionalità, ecco allora completo il quadro di una pericolosa deriva verso uno Stato di polizia.
Anche per questo motivo, dunque, la spirale va arrestata, e il tabù va abbattuto: i Cpr, per quel che vi accade, quel che sono e quel che rappresentano, sono un’inammissibile eccezione ai principi fondamentali del nostro ordinamento, oltre che una pericolosa deroga al rispetto stesso della persona e della sua libertà individuale. Ed è nell’interesse comune reclamarne con forza la definitiva abolizione: un risultato che passa necessariamente da una preventiva attività capillare di sensibilizzazione e che non può prescindere da una mobilitazione diffusa a difesa di quel che resta di diritti – forse troppo ingenuamente – fin qui dati per scontati. Si può, si deve. (mai più lager – no ai cpr)
Leave a Reply