Dal numero 12 de Lo stato delle città
Anche la quarta cuccetta della nostra cabina è occupata. All’ultimo, è arrivata una ragazza con una grande valigia rosa e un paio di borse. La aiutiamo a sollevare i bagagli. Salita al suo posto, estrae creme, impacchi per gli occhi, una piccola spazzola per massaggiare la testa. Mentre stende le gambe sulla cappelliera si accorge che la sto osservando e con un sorriso stanco mi dice che sta tornando a Taranto per Pasqua: «Sono dodici anni che prendo questo treno da Milano».
Ci svegliamo all’alba, quasi a Molfetta. Dalla sua cuccetta la ragazza osserva con rabbia la pioggia che batte sul finestrino: «È così che mi accoglie la Puglia ogni volta che torno». Poi ripone con cura le creme, recupera il bagaglio e si prepara a scendere. Mancano quasi due ore all’arrivo. Quando esco dalla cabina, a pochi minuti dalla meta, la ritrovo nel corridoio, concentrata sul paesaggio che scorre dal finestrino: ulivi, officine, distributori, palazzine non finite, vigne. La macchia mediterranea a un tratto prende il sopravvento e ci impedisce di vedere oltre. Siamo immerse tra pini d’Aleppo, lecci, qualche carrubo, arbusti di lentisco, seguiti, dopo una curva, da una selva di serbatoi per il petrolio e impianti per la produzione di cemento. All’improvviso uno squarcio rosso, cupo: ecco i nastri trasportatori che portano ferro e carbone ai parchi minerali dell’ex Ilva, oggi Acciaierie d’Italia, in amministrazione straordinaria da febbraio di quest’anno. In lontananza svetta il camino E 312, una delle ciminiere più alte d’Europa, cuore dell’area a caldo del siderurgico, a ridosso del rione Tamburi.
Mentre scendiamo dal treno ricevo un messaggio: “Che fai per pranzo? Riusciamo a mangiarci due cozze e uno spaghetto?”. È Angelo Cannata, profondo conoscitore di Taranto e bussola nella mia permanenza in città. La ragazza sparisce sotto la pioggia, va di fretta.
LA “TRANSIZIONE GIUSTA”
Con Angelo ci vediamo in una trattoria vicino alla stazione. Avevamo pranzato lì anche tre anni fa, quando Andrea Bottalico raccoglieva voci sul porto di Taranto per questa rivista. Era una giornata torrida di metà agosto. Angelo scherza sul meteo della città dei due mari – il Piccolo e il Grande – fiaccata dal caldo e dall’umidità o sferzata da piogge e venti freddi: «Certi giorni sembra di stare a Istanbul, altri in Bretagna». Sa che con un collega dell’università sto studiando l’intervento statale e la definizione di aree soggette a regole speciali in risposta ad alcune crisi territoriali, in particolare dove la presenza di commissari è più consistente. Tra i vari casi c’è la provincia di Taranto, unica destinataria in Italia, insieme al Sulcis-Iglesiente in Sardegna, del fondo europeo per la cosiddetta “transizione giusta” (JTF). Angelo si assicura che io abbia letto gli ultimi articoli di Lidia Greco, sociologa dell’Università di Bari, che da anni segue le vicende di Taranto e ora osserva da vicino il JTF. Del miliardo e duecento milioni assegnati alle due aree italiane a fine 2022, da spendere entro il 2027, più del sessanta per cento è destinato a Taranto. Tra le priorità definite per la provincia ionica: la produzione di energia rinnovabile, la diversificazione dell’economia locale e una serie di azioni per mitigare l’impatto della transizione sull’occupazione. Ma chi segue l’applicazione del JTF a Taranto, così come nel Sulcis-Iglesiente, guarda con preoccupazione ai ritardi nell’avvio del programma, teme la perdita dei fondi per incapacità di spesa nei tempi previsti e s’interroga sull’efficacia delle azioni proposte, in un contesto in cui le urgenze di bonifica e di contrasto a disoccupazione e spopolamento sono ancora irrisolte.
Angelo mi racconta che la sera prima del mio arrivo c’è stato un confronto pubblico sulle misure del JTF per il mar Piccolo, lo specchio d’acqua distinto in due seni alle spalle della Città vecchia e del Borgo, tradizionale luogo di produzione della cozza e parte del Sito di Interesse Nazionale (SIN) di Taranto. Introdotto da Rosa D’Amato, europarlamentare dei Verdi europei, l’incontro ha preso le mosse dalle relazioni del nuovo commissario straordinario alle bonifiche, Vito Felice Uricchio, e di Giuseppe Portacci, esperto di molluschicoltura dell’Istituto di Ricerca sulle Acque del CNR. Angelo mi incalza: «Devi andare in mare con Peppe e i cozzaruli». Il cognome di Portacci mi è familiare. «Peppe è figlio d’arte. Il padre, Cataldo, era maestro d’ascia e “tarantino verace”. Il nome ti suona perché hai letto l’intervista dei napoletani». Si riferisce a una delle storie raccolte una decina d’anni fa da alcuni redattori di Napoli Monitor – Riccardo Rosa, Luca Rossomando, Marzia Romano – e poi incluse nel libro su Taranto di cyop&kaf, gli artisti che tra il 2013 e il 2014 realizzarono più di cento dipinti sui muri della Città vecchia in maniera autorganizzata, suscitando l’interesse di bambini e altri abitanti che poi presero parte all’opera. Anche allora Angelo aveva “accolto e facilitato – non tanto e non solo la permanenza, ma soprattutto la conoscenza”.
CAMPAGNA E MARE
Ai “napoletani” Cataldo aveva raccontato: “I Portacci è una razza antichissima, certi studiosi dicono di provenienza greca. Una parte erano intellettuali […] e poi c’è il ceppo marinaro; io appartengo al secondo, quello marinaro. Il mio nonno paterno, Portacci Cataldo Antonio, era capobarca dei mitilicoltori, una specie di caporale […]. Prima di lui c’era Nicola… Nicola fu prima pescatore di anguille […], le migliori del mondo, poi fece anche il mitilicoltore”.
Dal padre, maestro d’ascia, Cataldo aveva imparato il mestiere, che aveva affinato in tutti i cantieri navali di Taranto e poi nell’officina dell’Arsenale. Incontro suo figlio Peppe la mattina del 27 marzo, in piazza Fontana, all’uscita dalla Città vecchia. Partiamo in macchina alla volta del secondo seno del mar Piccolo, dove dovrà raccogliere delle alghe per un esperimento con le scuole e poi incontrare un mitilicoltore. Mi chiede se ho fatto colazione, ha preso dei caffè e qualcosa da mangiare insieme quando saremo in mare: è il suo compleanno. «Sono nato il giorno di Pasquetta del 1967, in casa, nel rione Tamburi. Un posto molto strano, costruito in riva al mare all’inizio del Novecento». Ripenso all’incontro dei redattori di Monitor con il padre, nel salotto di quella stessa casa, e alla loro osservazione sull’intervistato che, dopo “una lunga sorsata d’acqua”, aveva ripreso a parlare “con un tono di voce regolare e perentorio, ignorando il caldo provocato dal clima di scirocco”.
La voce di Peppe invece è pacata, ama divagare e s’infervora quando parla degli intrecci tra biologia marina, storia, ecologia e soprattutto degli incontri inattesi nel mar Piccolo. Ogni elemento del paesaggio che attraversiamo è lo stimolo per un racconto. «Mi devi fermare, le parole sono come le cerase. Ne pigghie une, ne venene cinghe». Mi parla ancora del rione Tamburi: «Il quartiere adesso è chiuso a nord dalla zona industriale e poi è separato dal mar Piccolo dai binari, quindi è una situazione assurda. L’unica valvola di sfogo è la foce del Galeso». Prosegue raccontandomi di un evento che non si aspettava da quelle parti: «È nato tutto da una passeggiata. Per caso, ho trovato dei resti di antiche ostriche, dentro a una stratificazione argillosa. Poi un amico mi manda un’immagine di un dipinto dei primi del Novecento. E in questo quadro c’era una stazione a terra degli sciajaruli, i coltivatori di ostriche. La guardo bene… è lo stesso posto! Con una collega poi abbiamo guardato le foto satellitari e abbiamo trovato il vecchio molo e i pali delle sciaje, i giardini delle ostriche».
Lasciamo la statale per Brindisi prima di arrivare a Grottaglie e, tra ulivi secolari, scendiamo verso il secondo seno del mar Piccolo. Mi indica i resti di una linea ferroviaria – «poi ti racconto» – e parcheggia nei pressi di un piccolo molo, dove lo scirocco si fa più intenso. Mentre calza gli stivali di gomma prosegue: «Sin dall’anno Mille, questo mare era suddiviso in peschiere, con pali di legno come confini. Le peschiere avevano nomi, delimitazioni, c’era un’organizzazione territoriale, e le attività erano regolate da un codice piscatorio. Stefano Vinci, uno storico del diritto dell’Università di Bari, lo studia da anni. Questo è stato uno dei migliori esempi di gestione della pesca e della fascia costiera nel Mediterraneo. Qui vedi l’intreccio della campagna con il mare. C’è una poesia di García Lorca che dice che il mare è un pezzo di cielo caduto in terra per essersi ribellato alla luce. E in effetti i pali sono come degli alberi a testa in giù, perché attraggono moltissimi organismi che crescono sulla loro superficie sommersa».
Peppe entra in acqua, si piega sugli scogli ed estrae un groviglio di alghe di un verde acceso. Il molo termina con una specie di edicola votiva, un blocco di cemento su cui poggia una piccola nicchia con una statua della Madonna. Più in là, su un molo vicino, c’è una sorta di santuario che termina con una cappelletta. Mi torna alla mente un ricordo lontanissimo: una statua di Cristo rivolta verso il Golfo del Messico, nel delta del Mississippi. Lì gli ultimi indiani biloxi vivono su palafitte e provano ad arginare la violenza degli uragani con moli fatti di gusci d’ostriche, mentre le compagnie petrolifere devastano e frammentano quel sistema di acque, terra, molluschi e umani per estrarre idrocarburi.
Peppe mi riporta al mar Piccolo: «Quest’alga si chiama chaetomorpha linum. Non me ne serve tanta. Con i ragazzi di quinta elementare e prima media abbiamo iniziato a fare un progettino. Poi ci eravamo scocciati delle lezioni frontali e allora abbiamo iniziato a fare ricerca, a raccogliere insieme i dati, a fare le ipotesi. Quello che sto cercando di fare adesso sono delle indagini preliminari al lavoro che faremo insieme sul campo». L’ipotesi è che alcuni vegetali – quel groviglio di alghe che ha estratto dagli scogli, per esempio – possano condizionare la temperatura dell’acqua, come gli alberi riducono quella del suolo e dell’aria in città. Dopo avermi parlato di fitoplancton e dell’azione mitigatrice del mar Piccolo, dà un ultimo sguardo al molo prima di risalire in macchina: «Mio padre diceva: Taranto ha voltato le spalle al mare. Ed era un’amarissima considerazione».
IN BARCA CON NICOLA
Proseguiamo verso sud, lungo la strada che costeggia il secondo seno. Mi racconta di una ragazza che, anche con il suo aiuto, sta studiando i paesaggi della mitilicoltura nel mar Piccolo, si chiama Alessandra Schmid. Solo in quel momento ricordo che un’amica mi aveva parlato entusiasta del suo lavoro, dopo averla conosciuta a una conferenza. Peppe è incredulo: «Gli intrecci del mar Piccolo. Un mondo piccolissimo!». Alessandra sta per concludere un dottorato in “patrimoni archeologici, storici, architettonici e paesaggistici del Mediterraneo” all’Università di Bari. La mia amica mi aveva raccontato delle sue letture “stratigrafiche”. Mappe e sezioni disegnate a mano dei diversi strati del suolo, del sistema delle acque dolci e salate che si incontrano nel mar Piccolo, delle strutture di origine antropica colonizzate da numerosissime specie animali e vegetali, delle diossine e di altri inquinanti, del lavoro dei mitilicoltori. Cartografie ben diverse da quelle a due dimensioni nate in ambito militare.
Peppe parcheggia nei pressi di un piccolo porto, nella zona della pineta Cimino. All’ormeggio ci sono meno di dieci barche in legno, due o tre sono in mare. Sono basse, verniciate di blu elettrico, e di solito ci lavorano due o tre cozzaruli. «Auguriiii Pe’! Puoi venire, puoi venire… A nuoto!». È un mitilicoltore che indossa una tuta impermeabile arancione sopra un maglione pesante e un cappello con la visiera che resiste allo scirocco. Si avvicina a riva ridendo e ci fa salire. Si vede che si è svegliato molte ore prima di noi. Porto sulla barca – ‘a lanz – i caffè e i dolci, mentre lui mi fa sedere su un’asse vicino al motore. «Piacere, Nicola. Mettiti sotto questo cuscino… così stai più comoda. Da dove vieni? Prima volta a Taranto?». Sul piano di lavoro a prua, dove avevo lasciato la colazione, Peppe posa il contenitore con le alghe e due termometri da mettere in acqua. «Auguri Pe’. Quanti anni?». «Come te, Nicola, cinque sette».
Ci muoviamo lentamente nella laguna per raggiungere una struttura fatta di pali incrociati: «fusolo», dice Peppe, «stenditoio», traduce Nicola. Inizia un racconto a due voci in cui le loro parole si mescolano e si confondono con lo scirocco che non dà tregua, il rumore del motore e i saluti urlati dagli altri cozzaruli per il compleanno e per la Pasqua in arrivo. Nicola mette il groviglio di alghe in una retina, insieme a uno dei termometri, e lo cala in acqua, fissando l’intreccio di fili sintetici allo stenditoio. Peppe mi fa osservare meglio la barca su cui ci troviamo: «Tutto è commisurato al braccio, è l’unità di misura, in modo che ci sia veramente il minimo sforzo. Il braccio: arrivo in acqua. Il braccio: vado sul fusolo. Il braccio: il pianale di lavoro».
Prendiamo velocità per raggiungere un’altra struttura su cui sono appese le cozze «a vsazz», arrotolate come fossero una borsa. Peppe racconta che i mitili possono stare anche ventiquattr’ore fuori dall’acqua, mentre gli organismi che crescono su di loro non resistono a lungo all’aria. Poi i mitilicoltori tolgono a mano quello che resta degli epibionti, per far crescere meglio le cozze. Ci avviciniamo a una serie di corde – «le ventìe» – che formano una struttura intrecciata, un quadro a pelo d’acqua. È il «letto del seme», su cui si insediano spontaneamente le larve dei mitili, nella loro ricerca della luce. Nicola solleva una corda con il mezzo marinaio – «u fuerce» – e scuote la testa: «È poco, è niente». Peppe mi spiega che il ciclo di crescita delle cozze, che man mano vengono spostate, dura tra i sedici e i diciotto mesi. Nel frattempo, andiamo verso una serie di galleggianti, poco distanti da un pontile: «È dell’aeronautica. Fino a dieci anni fa, due volte al mese, in questo ecosistema delicatissimo arrivava una nave che portava cherosene per gli aerei della Marina a Grottaglie». Mentre Nicola si abbassa verso l’acqua per tirare un’altra corda, noto un tatuaggio sul suo braccio destro bruciato dal sole: una rosa dei venti. La corda è ricoperta di cozze lucenti, tutte della stessa dimensione. Peppe trattiene a stento l’entusiasmo: «Benedica! Mudu!».
Da tre anni però la quantità di cozze raccolta da Nicola e dagli altri si è molto ridotta, il caldo eccessivo rende il mar Piccolo meno produttivo. Peppe ricorda: «Mio zio faceva il ragioniere alla Co.Mi.Os., la Cooperativa Mitilicoltori Ostricoltori di Taranto e diceva: Quanne ‘a Madonne se veste a llutte, le cozze pajen’a ttutte. Cioè, prima di Pasqua si erano riempiti e avevano venduto tutto». In passato il mercato delle cozze si concentrava tra la primavera e l’inizio dell’estate, mentre d’inverno i molluschicoltori vendevano le ostriche, che ora non vengono più coltivate perché sono molto più delicate. Peppe prosegue: «Ora il fatto che ci sia una monocoltura – solo i mitili – espone Nicola e gli altri a più rischi. Loro per tutto questo lavoro prendevano cinquanta centesimi al chilo. Adesso con la crisi climatica diminuiscono le quantità e aumenta il prezzo, prendono ottanta centesimi». Lo interrompe Nicola: «La proporzione però, Pe’… la retina prima quanto costava? Adesso costa tre euro. La benzina costava settanta centesimi, mo’ quanto costa? Quasi a due euro. La concessione prima era seicento euro, mo’ sono quattromila euro. Prima a fine anno portavi mille euro di benzina, mo’ ne porti tremila, la retina costava quindici euro, mo’ ne costa settanta, porto già tremila, quattromila euro di retina. Quattromila di concessione. Stiamo lavorando a mare e già ci sono dieci, dodicimila euro di spese. Poi c’è la concorrenza, tutta la roba dalla Grecia… Che si fa?».
Sulle nostre teste passa un elicottero militare, il quinto da quando siamo in acqua, va verso nord-est. Torniamo verso riva passando vicino alle rovine di un pontile. Nicola racconta che lì «portavano roba bellica… portavano i siluri, arrivavano gli aerei e caricavano i catamarani, fino al tempo di guerra». Peppe mi fa notare la collina alle spalle del pontile diroccato: «Lì nella Prima guerra mondiale c’era un campo inglese di ventimila persone. In quel momento si è realizzata la profezia napoleonica secondo cui Taranto era la seconda Gibilterra. Nella Prima guerra mondiale, quando i sommergibili tedeschi impedivano alle navi britanniche e francesi di passare lo stretto di Gibilterra per raggiungere il fronte orientale, la profezia si avverò. Loro dicono: non lo possiamo fare via mare, lo facciamo via terra. Quindi congegnano un circuito ferroviario che dalla Manica porta fino a Taranto e si inventano la Circummarpiccolo per portare le truppe fino a qua. Ci sono ancora i binari, sono quei resti che abbiamo visto prima dalla macchina… Mar Piccolo era importante perché era praticamente inattaccabile».
Tornando verso riva Peppe e Nicola mi mostrano le altre strutture militari visibili dal nostro punto di osservazione: «Qui c’è il deposito della cosiddetta Namsa, cioè della Nato. Lì c’è l’Aeronautica militare. Poi qui di fronte abbiamo la polveriera, il deposito munizioni. Poi il primo seno, nella parte sud è veramente tutto occupato dalla Marina militare». Mi tornano alla mente le parole di Alessandro Leogrande nel suo primo libro, intitolato Un mare nascosto: “Chi, per esempio, lasciatosi alle spalle il Ponte Punta Penna, risale la città da sud a nord lungo la costa interna del mar Piccolo, non vedrà mai il mare. E questo perché la strada che si snoda a lato di più quartieri cittadini è costeggiata da un muro invalicabile alto sette, otto metri. Da sempre questa parete insormontabile è chiamata il Muraglione. E sta a indicare che dall’altra parte è zona militare e non ci si può mettere piede”.
Giunti a riva, Nicola lega la barca e toglie il motore, che metterà in macchina insieme a un paio di secchi. Nel vento, lo ringraziamo per quelle ore insieme in mar Piccolo e ci diciamo che forse ci rivedremo giovedì notte o venerdì mattina presto prima della mia partenza, durante la processione dell’Addolorata. Oppure a giugno o luglio, quando ci sarà anche Alessandra, andremo a mangiare insieme nella trattoria dove ho pranzato con Angelo all’arrivo. Ci sarà anche lui.
L’INGOVERNABILE
È quasi mezzogiorno. Mentre Nicola riparte in macchina, seguo Peppe verso quella collina del campo inglese che mi aveva mostrato dalla barca. Deve mettere altri termometri per la prova dell’esperimento con le scuole. Camminiamo in un’area incolta, in mezzo ad arbusti e alte erbe in fiore. Da lì, si comprende meglio la forma del mar Piccolo, una sorta di laguna su cui le barche dei mitilicoltori sembrano sospese, in quella giornata grigia in cui il cielo si confonde con l’acqua. Peppe torna a parlare del lavoro con le cozze: «Dal punto di vista ecologico, chi è il mitilicoltore del mar Piccolo? Loro sono una delle keystone species, quelle specie chiave che hanno una biomassa relativamente piccola, ma un impatto sull’ecosistema inversamente proporzionale alla loro presenza. Sono duecento, trecento persone… una massa infinitesima… che producono trentamila tonnellate di cozze all’anno, un po’ meno adesso per il riscaldamento globale. Se non ci fossero Nicola e gli altri, i mitili – tra i più pregiati del Mediterraneo – cadrebbero. Io dico che ai mitilicoltori non bisognerebbe far pagare la concessione, perché loro salvano e promuovono la biodiversità. Svolgono un ruolo ecologico fondamentale».
Prosegue per farmi comprendere meglio la natura del loro lavoro: «Ogni giorno è diverso, perché hanno a che fare con un ambiente caotico, un sistema estremamente complesso, che è la molluschicoltura, che non tende a dominare, ma cerca di gestire, cerca le risposte. Ogni giorno c’è qualcosa da imparare dal mare, sull’ingovernabile. Il siderurgico invece tende a dominare tutto il ciclo di lavorazione, non lascia spazio per l’imponderabile. E lo dico con tutto il rispetto per chi lavora là dentro. Apparentemente questa è una periferia, ma qui in realtà si sta vivendo un conflitto epocale». Mi racconta poi di quello che accadde negli anni Settanta, quando tutte le coltivazioni del mar Piccolo, con i loro pali, vennero rase al suolo per un’ordinanza dell’Ufficio provinciale d’igiene di Taranto, contro il parere dell’Ufficio d’igiene di Bari. «C’era stata l’epidemia di colera nel 1973, ma da Bari assicuravano che le cozze allevate lontano dagli scarichi non avevano problemi. Invece si decise di fare tabula rasa. I mitilicoltori vollero vendetta, ma non ci fu nessuna rivolta perché nel frattempo stavano raddoppiando l’Italsider e la gente veniva presa là a lavorare».
Nei vent’anni in cui è stato consulente tecnico-scientifico per le cooperative di mitilicoltura e pesca, Peppe ha conosciuto tanti cozzaruli entrati in fabbrica. «Molti di loro però, dopo un po’, senza nessuna buonuscita, senza niente, se ne andavano. Essere abituati a fare questo lavoro all’aperto e poi entrare nelle cokerie, non ce la facevano… Mi raccontavano di uno che entrò in cokeria… c’erano questi mattoni refrattari che con quel calore ogni tanto uscivano dalla sede. Il suo compito, con una modestissima mascherina sul volto e una mazza ferrata in mano, era di picchiare contro i mattoni e farli rientrare nella sede. Dopo un po’ che stava lì, nonostante gli dessero il latte… che si pensava avesse un effetto disintossicante, cosa non vera, questo ormai si sa… cosa successe, se ne accorse la moglie… aveva la bocca amara. Non se ne andava questo amaro. Dopo una settimana, decise di licenziarsi e di tornare in mare».
Il paesaggio del mar Piccolo, però, dopo il 1973 era completamente cambiato: «Dopo mille anni di storia, avevano divelto i pali. Allora sai cosa fecero questi che volevano tornare a mare? Siccome era vietato coltivare le cozze, misero i pali a pelo d’acqua. Poi anche quando si può ricominciare a coltivare, questa gente esce dall’industria, non c’è più nessuna regola sulle concessioni, cosa è mio, cosa è tuo, dove metto i pali, cosa posso fare, cosa non posso fare… Erano gruppi di famiglie, in cui c’è un profondo senso di con-divisione non padronale, lo scopo non è produrre utili ma reddito».
Per tanti il mare era diventato attrattivo, «perché la grande industria, se vai a leggere le cronache, non è mai stata stabile. Aveva crisi cicliche, con ristrutturazioni enormi». Ripenso alle vicende ricostruite nei dettagli da Salvatore Romeo nel libro L’acciaio in fumo. L’Ilva di Taranto dal 1945 a oggi, mentre Peppe conclude, infervorandosi: «Quindi il mar Piccolo ha agito come ammortizzatore sociale. Se non ci fosse stato, Taranto avrebbe avuto delle rivolte! Ora ci sono questi soldi del Just Transition Fund, di questo si è parlato l’altra sera. Secondo me, bisogna riconoscere al Mar Piccolo quello che è stato».
La molluschicoltura ha resistito al colera, alla militarizzazione del mar Piccolo, all’industria e Peppe commenta: «È fortemente radicata nella popolazione. Come mai? È la lingua, secondo me. Loro parlano dialetto, il dialetto è l’idioma tecnico. Quando distruggo una lingua, distruggo un immaginario. Nicola e gli altri sono custodi linguistici di questo lavoro antichissimo e della biodiversità di mar Piccolo».
L’ACQUA SUI TAMBURI
Tornati in macchina, ripercorriamo a ritroso la strada fatta all’andata, fino a due enormi gusci bianchi: sono le coperture dei parchi minerali dell’ex Ilva, lunghi oltre settecento metri, larghi duecentocinquanta e alti settanta, a pochissima distanza dalle scuole del rione Tamburi. Secondo gli ambientalisti tarantini, le coperture realizzate qualche anno fa servono a poco, mentre i livelli di alcuni inquinanti prodotti dalla fabbrica – il benzene, per esempio – sono schizzati negli ultimi mesi. Peppe mi fa notare che i gusci si trovano all’interno di una depressione. «C’era il vecchio acquedotto che portava l’acqua da una risorgiva carsica a Statte fino a Taranto. L’avevano fatto i romani e poi è stato modificato e completato in epoca rinascimentale». Stiamo superando delle arcate in rovina: «Se ti giri vedi che c’è un dislivello. Le cokerie e il Parco Minerali in realtà stanno dentro la palude San Brunone. Praticamente per superare questa depressione e far arrivare l’acqua in piazza Fontana, all’inizio di Città vecchia, gli ingegneri avevano fatto queste arcate. Questa zona si chiama Tamburi perché l’acqua che scendeva dai dislivelli faceva questo rumore sordo… tuff tuff tuff tuff… Poi dagli anni Settanta è andato tutto in rovina. Pensa che una ditta dell’Ilva, la Icrot, per far entrare i camion nella zona industriale decise di buttare giù non so quante arcate».
Siamo tornati in piazza Fontana, dove ci eravamo trovati qualche ora prima. Mi sembra che siano passati giorni. Non so come ringraziarlo per la mattinata insieme, il giorno del suo compleanno. Sappiamo che ci rivedremo e ci risentiremo. Osservo di nuovo la piazza e mi torna alla mente un altro passo del primo libro di Leogrande, che commenta la trasformazione di quello che un tempo era il centro della vita cittadina e bazar vicino al porto: “Oggi a causa di una scriteriata iniziativa di una passata giunta comunale ha cambiato radicalmente, e in peggio, la propria fisionomia. La vecchia fontana è stata […] circondata, in un exploit futurista, da una struttura in acciaio, fredda, grigia […] che sta a indicare l’importanza dell’Italsider per la città: il ricordo dell’acciaio è una sorta di condanna, di marchio indelebile, come le ciminiere che spuntano su in cielo, scaricando gas nocivi”. Le stesse che vedrò venerdì mattina all’alba, insieme ad Angelo, alle spalle dell’Addolorata portata in processione, dopo una notte tra i vicoli della Città vecchia, alla ricerca del figlio ucciso. (gloria pessina)
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