Nel libro di Durante la città-persona lascia in ombra le persone della città
Scuorno – di Francesco Durante, Mondadori, agosto 2008 – si legge come un racconto, ne è protagonista Napoli, di cui si scrive come di una persona colta in un momento critico della propria vita. È il 2008, l’anno della monnezza, quando Napoli si lascia sommergere dai rifiuti da essa stessa prodotti: un «tragedia ridicola» per la quale viene additata al disprezzo del mondo. Come nelle prime pagine di un romanzo, così anche qui si legge il profilo del protagonista. Di fronte al manifesto fallimento della propria esistenza, come reagisce? Quale sentimento sintetizza i suoi deboli gesti? È lo scuorno, come lascia intendere il titolo, che nel racconto assume accenti diversi: dalla mortificazione per il disastro allo scoramento nutrito dalla sfiducia nel futuro; e, mescolato al sentimento principe, non manca qualche cenno di rabbia.
La vergogna rivela la propria inadeguatezza di fronte agli altri, investe la natura stessa di questa persona collettiva – Napoli – ha radici profonde che inducono a indagare nel passato: «quand’è – si chiede il narratore – che abbiamo incominciato a essere ciò che siamo? (…) A vedere chiaramente concretizzarsi nella percezione dell’altro un giudizio negativo nei nostri confronti?». Sembra che sia accaduto in un tempo assai lontano, quando da piccola e orgogliosa città-stato esce dal proprio medioevo per divenire capitale di un regno altrui, perde sé stessa consegnandosi a un ordine più grande e soprattutto estraneo. Al pari del trauma della nascita, che si ripete a ogni passaggio saliente dell’esistenza, la città patisce la perdita di sé a ogni successivo cambiamento, come quando diventa italiana e, imprigionata nello stigma del ritardo, s’immerge in una «corrosiva malinconia» verso il passato e nella «sfiducia del futuro». Fino all’ultima ripetizione del trauma, che fa sprofondare la città sommersa dai rifiuti nello scoramento per la propria radicale inadeguatezza. Il racconto si ferma all’introspezione della protagonista; una volta definita la sua fisionomia, la possibilità che agisca una storia sfuma in un punto di domanda, «sta scritta nel vento».
Quella di Durante è una suggestione potente, la si condivida o meno; piuttosto che eccepirla nel merito, mi viene d’interrogarmi sul suo presupposto: l’immagine della città-persona. Napoli sarebbe come un corpo che respira tutt’assieme un solo fiato, «noi altri napoletani» che pensiamo, sentiamo, agiamo come una persona – salvo tirarne fuori la testa e sbrigativamente assolverla, cioè la «figura tragica» del sindaco e poi governatore Bassolino che «ha giocato e ha perso», tutto qui: decisamente discutibile.
L’immagine non è nuova, anzi nutre una tradizione letteraria. Non ne discuto la liceità ma, oggi, quanto è fondata? E, soprattutto, essa è ancora realmente fertile? L’assunto che ogni città sia definita da una propria identità, rinvia alla memoria della polis greca, dove popolo, luogo e cultura si fondono l’uno nell’altro. Ma la stessa polis conviveva con l’incombente possibilità della guerra civile, come tante storie familiari procedono mediante il fratricidio. Figuriamoci quanto sono divise le città odierne dove tutti viviamo per frammenti. L’incessante divisione è il processo per il quale si fanno le storie urbane, dalle guerre di camorra alle contese nell’oligarchia che ci governa, fino all’insaziabile necessità dell’uomo-massa di distinguersi dagli altri.
In realtà, l’appartenenza a Napoli la viviamo riferita al passato, come nostalgia, o proiettata nel futuro, come in un sogno, oppure subita come una recita imposta da altri; solo in momenti unici capita di esperirla, per esempio la notte del primo scudetto quando ci ubriacammo di felicità, noi per primi sorpresi d’un insperato successo. Ma nel presente c’è sempre qualcosa che disturba l’immagine della città-persona cui ognuno di noi apparterrebbe, e smentisce la possibilità che un discorso così fondato possa restituirci qualcosa di reale, suggerirci qualche risposta, se non per spunti, tanto folgoranti quanto parziali – ve ne sono diversi nel racconto di Durante.
Allora, questo sarebbe il momento che la narrazione della città segua le linee di divisione e vi scavi dentro senza pregiudizi, per raccontare di soggetti e fatti determinati nel particolare, dimensione certo meno suggestiva di un ampio scenario ma dove scorrono vite se non vere almeno percepibili nel senso. Potremmo meravigliarcene scoprendo esperienze di vita e prospettive di senso oggi annichilite nei tipi di un’antropologia predefinita – l’ultras ricondotto al lazzarone, la figa-sul-vespino alla ianara e così via. Passando dalla città-persona alle persone della città potremmo scoprire punti di vista, intenzioni e fantasie capaci di muovere il racconto. (francesco ceci)
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