fotografie di Alessandra Mincone
15 maggio 2021. Sono passati settantatré anni dall’esodo che nel 1948 aveva costretto quasi novecentomila persone a diventare profughi. Eppure Nakba, “catastrofe”, non è oggi solo un termine storiografico che racconta un evento chiave nella storia del mondo arabo.
Sono le cinque del pomeriggio e a Napoli i solidali alla causa palestinese sono più di tremila. Esponenti della comunità palestinese prendono parola al microfono con voce tremante: «Israele vuol fare in modo che tutti i vecchi siano morti, così che non si potrà tramandare la storia ai bambini». Ragazzi e ragazze palestinesi gridano i loro interventi con rabbia.
M., giovane attivista palestinese, tra le organizzatrici del presidio, incita la stampa a schierarsi. «Da anni è in corso una pulizia etnica nei quartieri arabi di Gerusalemme, con l’obiettivo di cancellare ogni presenza palestinese e araba dalla città. L’ultimo è il tentativo di scacciare decine di famiglie palestinesi dai quartieri di Sheikh Jarrah e Silwan, a Gerusalemme Est, dove abitano da oltre sessant’anni, per assegnarne le case a famiglie di coloni israeliani».
Sono passate ventiquattr’ore dal presidio tenutosi a piazza dei Martiri, in cui i portavoce della comunità ebraica napoletana erano stati contestati da un gruppo di attivisti. Ma mentre la manifestazione del Plebiscito va avanti, gli interventi vengono improvvisamente interrotti per informare della notizia che «Gaza è stata appena bombardata di nuovo dall’esercito israeliano».
Uomini, donne e bambini palestinesi reggono e sventolano con foga un bandierone nel cuore del presidio. Il furgoncino con il generatore e l’impianto acustico guadagna la testa di un improvvisato lungo corteo, che blocca il traffico tra il Plebiscito e il Maschio Angioino. Ora i presenti arrivano a cinquemila. Molti tra loro intonano canti palestinesi e inni per una nuova Intifada. I fumogeni verdi e rossi colorano il cielo tra i passanti che passeggiano nei pressi delle caffetterie. Un giornalista armato di macchina fotografica, attirato dalla folla, chiede in giro notizie sulla bandiera che continua a sventolare.
I blindati dei carabinieri scortano il corteo, mentre il servizio d’ordine della manifestazione incita la folla a varcare i cancelli del porto. Sono i ragazzini palestinesi a entrare per primi, con la bandiera del Fronte popolare per la liberazione. Il porto è il punto d’arrivo del corteo, il simbolo del trasporto via mare degli armamenti di guerra di cui ha bisogno l’esercito israeliano per avanzare l’attacco sulla Striscia di Gaza. Si vocifera che le bombe che si attendono ad Ashdod siano in arrivo dall’Italia.
Intorno alle 19, il piazzale dove è sita la sede dell’Autorità portuale è invaso da manifestanti. A., militante napoletano, ricorda al microfono il compagno palestinese scomparso qualche mese fa a causa del Covid, alla cui memoria oggi è dedicato il Centro culturale Handala Alì, una delle associazioni che ha promosso la manifestazione. «Continueremo a scendere nelle strade e a bloccare le navi merci cariche di armi − dice − finché la comunità internazionale e le Nazioni Unite non porranno fine all’occupazione e alla demolizione delle case dei palestinesi, non procederanno con la liberazione di tutti i prigionieri politici nelle carceri israeliane, non ripristineranno la libertà di coltivazione e di pesca a dispetto delle leggi imposte da Israele, e dell’elettricità per permettere agli operatori sanitari di far fronte all’emergenza di civili rimasti feriti e in gravi condizioni di salute».
Dopo poco il presidio comincia a sciogliersi e la folla a diradarsi, fatta eccezione per un gruppo di palestinesi i cui bambini corrono divertendosi dietro a un pallone. Non avrebbero potuto andare a letto con la stessa spensieratezza, stasera, se fossero rimasti a Gaza. (alessandra mincone)
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