Blocco delle auto, sono in balia dei mezzi pubblici. Per percorrere i sei chilometri che separano la stazione della metro di Bagnoli da quella di Mergellina impiego cinquantacinque minuti. È lunedì mattina. Una volta arrivato, provo ad aspettare un autobus che mi porti a rotonda Diaz. Dopo venticinque minuti di vana attesa rinuncio e m’incammino a piedi. Percorro il lungomare, panorama affascinante, silenzio interrotto solo dalle voci di qualche pescatore e dal rumore delle palline da tennis picchiate con forza nel circolo più importante della città. Poi finisce l’incanto.
A darmi il benvenuto alla rotonda sono le insegne luminose di concessionarie di automobili, ipermercati, ingrosso di elettrodomestici, centri benessere, gestori di telefonia che si alternano sulla base dell’enorme albero di Natale in ferro, da qualche giorno aperto alla cittadinanza e ai turisti in transito. Già fuori, il rumore della musica è assordante. Dalle casse rimbombano le trasmissioni di un’emittente locale. Bassi da concerto rock e voci dalla dizione curata provano a convertire l’ascoltatore alla religione del consumo. Visto da sotto, alla luce del giorno e senza illuminazione, questo totem al disagio è un vero scempio. Per ciò che rappresenta ma anche per la sua bruttezza. Pago il biglietto di otto euro ed entro. Il piano terra è una passerella piena di negozi. I marchi sono quelli del calcio Napoli, degli erogatori di energia elettrica, delle compagnie telefoniche, delle banche, dei colossi della navigazione turistica, delle gioiellerie. L’altro lato del muro è ricoperto da un pannello su cui trionfano dei quadri brutti. Dopo la sbornia di visitatori del fine settimana in giro ci siamo solo io, i ragazzi che lavorano negli stand e una ventina di grossi uomini addetti alla security. Salgo così al primo piano, quello dedicato alla ristorazione. Al bar una bottiglietta d’acqua liscia costa un euro e cinquanta. Chiedo un bicchiere dal rubinetto e mi guardano male. Caffè, uno e cinquanta. Succo di frutta, tre e cinquanta. Cocktail, dieci euro. Per fortuna il medico mi ha proibito di bere.
Salgo le scale di ferro che mi porteranno alla vetta. Fatta eccezione per una serie di spelacchiate piantine appoggiate alle estremità dei tubi innocenti, attorno a me c’è solo ferraglia. Il tappo della mia Pilot V5 mi scivola dalle mani mentre prendo appunti e precipita nel vuoto senza che io possa sentire il rumore o individuare il punto d’atterraggio. Mi scappa una bestemmia a voce così alta che persino quelli della sicurezza disapprovano. Continuo a scalare il metallo. Sarà forse che sono completamente solo, e il tempo si fa sempre più grigio, ma alcuni punti più sporchi, bagnati per la pioggia, mi ricordano i ballatoi delle Vele. Anche se con un bel panorama.
Alla mia sinistra, Castel dell’Ovo. A destra, Mergellina. Mare dappertutto, riflessi della luce sull’acqua. Se non fosse per questa dannata musica da discoteca… Alle mie spalle la testa del generale Armando Diaz e del suo cavallo fanno capolino fuori i ponteggi di legno in cui i loro corpi sono imprigionati, invisibili da altitudini meno importanti. Un grosso pannello con foto e una scritta “Preziosa Home” copre il resto della statua. Sul pannello una scritta: “Questa pubblicità sponsorizza il restauro del monumento ad Armando Diaz”. Anni di eroiche battaglie e campagne militari tenute in piedi da un mucchio di articoli per la casa. Così va la vita. A sinistra lo stencil degli ultras e un’altra scritta fatta con lo spray: “De Laurentiis bagarino”. Alle spalle del generale, dall’alto, si vede il cantiere della Villa Comunale, più o meno all’altezza del punto dove un ragazzo africano si è impiccato qualche settimana fa perché, pare, nella città dell’accoglienza non aveva dove andare a dormire.
Mentre il flusso di coscienza mi sballotta come su un barcone di migranti tra l’avarizia di De Laurentiis e lo spazio Schengen, l’ascensore dell’albero, che arriva improvvisamente, mi fa sobbalzare. Mi guardo intorno, mentre una signora cinquantenne bionda obbliga il marito al trentacinquesimo tentativo di foto-profilo. Aspetto che sia soddisfatta dallo scatto e vado via. A passo prudente scendo le scale buttando un’ultima occhiata al mare e sperando di ritrovarmi sotto i piedi il tappo della penna perso poco prima.
N’Albero, così si chiama questa supposta metallica di quaranta metri, è costata circa un milione di euro, costo che la società Italstage conta di coprire per la maggior parte attraverso i biglietti dei centomila visitatori previsti. Italstage incasserà poi i soldi delle decine di sponsor che hanno acquistato gli spazi pubblicitari e quelli ricavati dagli eventi speciali (si era parlato, in una prima fase, delle “feste aziendali” di alcune multinazionali). Il comune di Napoli ha concesso alla società l’esenzione dalla tassa di occupazione di suolo pubblico, in cambio di una percentuale sui biglietti venduti. A fronte di questa rinuncia nelle casse comunali entrerà una cifra minima garantita di ottantamila euro.
A chi ha mosso obiezioni sull’opportunità di piazzare davanti al mare questo centro commerciale verticale il sindaco de Magistris e i suoi hanno risposto con due argomentazioni opinabili. “Non ci è costato un euro”, la prima. Vero, ma non ci si è nemmeno guadagnato da tanta bruttezza, considerando che praticamente tutti i soldi incassati andranno nelle tasche dei privati che da oggi guarderanno con grande simpatia all’amministrazione de Magistris, da sempre orfano di un partito e alla ricerca di sponsor importanti. “Ne riparleremo contando il numero di visitatori”, la seconda. Come se il gradimento del pubblico fosse l’unico parametro sensato per valutare una proposta culturale (basti pensare che in una città come Londra il museo delle cere stacca più biglietti all’anno della National Gallery). Come se, guardando i dati auditel del Grande Fratello Vip, il ministero delle attività culturali decidesse di mostrare le forme appassite della Marini e della Prati su maxischermi nei cortili di ogni scuola del paese.
Mi lascio alle spalle N’Albero, passeggiando per la Riviera. Mi chiedo se piazzare questo ammasso di ferraglia, fino a marzo, sul lungomare, sia conciliabile con tutte le chiacchiere del sindaco sulla riscoperta delle botteghe locali, dell’artigianato, della microeconomia nei quartieri popolari. Attraverso il mercatino della Torretta fermandomi sulla soglia di Cibi Cotti, vecchia trattoria in cui, da quarant’anni, la signora Anna cucina (solo a pranzo) ininterrottamente, riempiendo i dieci tavoli in marmo di piatti tipici partenopei. Con i quaranta euro (minimo) che una sola persona spende per mangiare su N’Albero, qui ci pranzano fino a scoppiare almeno in sei. (riccardo rosa)
Quello che ho capito è che l’autore dell’articolo va molto fiero della sua Pilot V5.
Proprio non riesco a togliermelo dalla testa.