L’evento dell’estate è stato solo un altro chiodo nella bara della laicità multiconfessionale che il Libano, forse ingenuamente, aveva un tempo creduto di rappresentare. Il concerto della band di indie rock Mashrou’ Leila, in programma al festival di Byblos il 9 agosto, è stato annullato a seguito di forti pressioni da parte del clero locale, minacce di morte e chiamate alla guerra santa (lo stesso giorno in cui la band avrebbe dovuto suonare si è tenuto però un concerto gratuito dove si sono esibiti artisti solidali con il gruppo).
A far girare così vorticosamente le palle ai rappresentati di Dio in terra è stato il verso di una loro canzone che recita: “Annega il mio fegato nel gin, nel nome del padre e del figlio”. Non è stato nemmeno necessario invocare lo Spirito Santo che si è scatenato il finimondo. Il fatto che il frontman della band sia gay dichiarato non ha fatto che peggiorare le cose. I Mashrou’ Leila erano stati già banditi in Egitto e in Giordania. Amatissima dalle nuove generazioni in tutto il mondo arabo e nella diaspora, la band incarna le palpitazioni emancipatrici di una gioventù schiacciata su due fronti: quello dell’oscurantismo domestico e quello dell’islamofobia occidentale. In Libano non si è parlato d’altro per tutta l’estate, e se ne sarebbe parlato anche da noi se il clero inferocito e farneticante fosse stato musulmano e non cristiano. Accusati i suoi componenti di blasfemia, reato previsto da una clausola della costituzione libanese che i padri fondatori scrissero all’ombra dei lumi francesi, la band ha saggiamente deciso di cancellare il concerto rimandando così a data da destinarsi la prossima guerra civile. E in effetti la gente ha dato in escandescenza. C’è chi ha posato armato sul profilo Facebook giurando sulla Bibbia di fare una strage in caso di concerto, preti e politici a blaterare di fede e valori, il tutto ovviamente all’interno dei perimetri ben delineati della comunità cristiana, poiché una sola parola proveniente da quella musulmana, non importa se favorevole o contraria, avrebbe automaticamente riacceso la miccia dell’odio confessionale.
Il dibattito pubblico in Libano è un campo minato, un passo nella direzione sbagliata e salta tutto in aria. Il precario equilibrio su cui poggia questo sciagurato e meraviglioso paese è realmente caduco. Ci sarebbe da ringraziare per questo anche la pulizia etnica dello stato d’Israele, che ha fornito la scusa sempreverde dei rifugiati palestinesi, capro espiatorio che unisce e mobilita i libanesi nei momenti di crisi (solo di recente superato dagli ancor più odiati profughi siriani).
Altro evento clou dell’estate libanese sono stati proprio i provvedimenti fascisti che vietano l’assunzione di personale siriano presso qualsiasi attività commerciale (avvalendosi strumentalmente di una legge finora inosservata). Come se non bastasse, il nuovo governo ha deciso di applicare lo stesso provvedimento ai palestinesi. Nonostante i settant’anni spesi nel fango e nell’umiliazione dell’esilio, i campi profughi hanno avuto la forza ancora una volta di insorgere. Si è levata così un’ondata di mobilitazioni che non si vedeva dai tempi della guerra civile quando, con la complicità di una parte del popolo libanese, i profughi provarono l’assalto al cielo nella speranza armata di riprendersi le loro terre. Manifestazioni, sit-in, occupazioni temporanee di luoghi più o meno pubblici hanno ribadito la determinazione dei palestinesi a essere trattati come essere umani (il loro status in Libano, con la scusa del “diritto al ritorno”, è praticamente privo di qualsiasi tutela).
A pochissimi chilometri dai campi dove si alzano le colonne di fumo nero dei copertoni bruciati, nei quartieri più agiati, l’estate balneare impazza. A Beirut, dove anche l’ultima spiaggia pubblica rimasta è a rischio privatizzazione, quelli che possono permetterselo si refrigerano nei costosi lidi privati che – abusivi, dato che la legge teoricamente li vieta – hanno colonizzato la costa. Dato che il mare è di tutti, però, chi non ha i soldi per la sdraio e l’ombrellone scavalca la balaustra della corniche e si gode la propria giornata al mare, gratuita, in pieno centro cittadino, lasciandosi dietro in segno di gratitudine e rispetto per la cosa pubblica un po’ di monnezza. D’altra parte solo il mare e l’aria condizionata offrono rifugio dalla calura agostana che col 65% di umidità trasforma i soli trenta gradi in una cappa irrespirabile, che pare di stare in una sauna. E siccome se Maometto non va al mare è il mare che va da Maometto, una mattina, mentre faccio la spesa, incontro al supermercato una delle sciure rifatte con cui faccio pilates. In infradito rosa shocking e con un panama largo tanto quanto i suoi fianchi, la signora Leila mi invita ad andare in spiaggia con la sua amica che l’aspettava fuori, in quarta fila, in un suv che quando siamo saliti ci saranno stati due gradi sotto zero. Ovviamente accetto. Prima però passiamo da casa per mollare la spesa, le invito a salire per un caffè, ma dopo avergli detto che vivo con dei siriani con aria educatamente schifata loro declinano l’invito. Un’altra volta, nschalla. Si parte, con destinazione Bagni Barracuda, un posto che a confronto Riccione sembra un’isola greca.
Provo un certo imbarazzo al fianco di queste signore appariscenti e un po’ attempate che non mi fanno pagare neanche la sdraio, figurarsi il pranzo (a fine giornata riuscirò a portargli di nascosto due pepsi con ghiaccio e limone). La gente penserà che sono il loro “accompagnatore”. Previdente mi sono portato un libro, ma quando lo tiro fuori i vicini di sdraio mi guardano un po’ stupiti. L’amica della signora Leila mi attacca una pezza che si conclude in un pianto a dirotto, quando mi racconta del figlio che ha perso un piede in un incidente e delle difficoltà quotidiane di un disabile in un paese disastrato come il Libano.
È abbastanza normale, qui, che anche il più effimero degli incontri sia all’insegna di questo tipo di intimità, mentre tutt’intorno si sguazza e ci si diverte come matti. Le due signore conoscono mezzo lido, saluta quello e poi quell’altro, non si capisce se si siano dati appuntamento o se si trovino lì per caso. Quando passa il bambino siriano che vende i braccialetti e le collanine, con fare materno se lo coccolano e gli offrono la merenda. Un attimo prima mi avevano recitato la solita tiritera dei siriani che rubano il lavoro e di quanto fosse bello il Libano prima del loro arrivo. Colmi d’intolleranza, ma allo stesso tempo incapaci di negare la loro generosità a chiunque (siriano o meno), i libanesi sembrano odiarsi con tutto il cuore eppure mai si sognerebbero di non dare una mano a un passante. La loro non è carità cristiana estorta dal senso di colpa, ma altruismo a tratti commovente, poiché disinteressato, che ai nostri occhi abituati al calcolo sembra ingenuità.
Si rientra in città, finestrini abbassati e giù in picchiata per l’autostrada dove gli autisti dei van si affiancano per parlarsi a centoventi chilometri all’ora, a zig-zag, senza cintura, mentre la falce della morte li accarezza sfiorandoli in un quadro di follia spericolata che nonostante l’abitudine ancora mi allarma. Forse è vero che “la morte è insopportabile” solo “per chi non riesce a vivere”, e dato che i libanesi l’arte della vita la conoscono nel profondo, della morte se ne fregano alacremente. Mi faccio cullare dal delirio autostradale mentre guardo scorrere dal finestrino un paese in rovina (economica, paesaggistica, politica, ecologica, sociale, ma non umana), sventrato dai passati conflitti eppure sempre aperto a nuovi sviluppi bellici. Sconsiderati e impavidi i suoi abitanti vanno avanti, forti del loro amore per la vita, senza mai guardare nello specchietto retrovisore, neanche per fare retromarcia. (giovanni vimercati)
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