L’hanno trovato morto ammazzato nella macchina che aveva noleggiato per andare a casa di amici nel sud del paese. Giovedì 4 febbraio 2021: un’altra triste data che rimarrà nella storia del Libano. Quattro colpi alla testa, uno alla schiena. È finita così la vita di Lokman Slim: scrittore, editore, archivista e voce fuori dal coro della comunità sciita libanese alla quale apparteneva laicamente. Il telefono cellulare, al quale non rispondeva dalla sera prima, è stato trovato a poche centinaia di metri dalla casa degli amici che era andato a trovare, il suo cadavere invece in una strada di campagna a una quarantina di minuti di macchina nei pressi di Touffahta. I familiari hanno subito richiesto un’autopsia supplementare da parte di un medico di fiducia e un’inchiesta internazionale sull’assassinio, certi che le autorità libanesi non faranno mai luce sull’accaduto. «Non ci interessano gli esecutori materiali – ha dichiarato la sorella Rasha Al-Amir, co-fondatrice insieme al fratello della casa editrice Dar Al-Jadid – vogliamo i mandanti».
Questi ultimi, peraltro, sembrano chiari a tutti, a partire dallo stesso defunto che quando alla fine del 2019 ricevette minacce dichiarò che se qualcosa fosse accaduto a lui o alla sua famiglia i responsabili erano da individuare in Nabih Berri e Hassan Nasrallah, rispettivamente leader di Amal e Hizballah, i due partiti sciiti che negli anni hanno egemonizzato politicamente (e militarmente) la loro comunità. Comunità che però, come tutte, omogenea non lo è mai stata e mai lo sarà. Ne era dimostrazione lo stesso Slim, uno dei tanti membri della comunità sciita in aperto e dialogante dissenso con la sua leadership (in Libano, grazie a quei campioni di laicità dei francesi, a una comunità confessionale si appartiene per nascita, non per scelta). E lo faceva dal cuore della loro roccaforte, Dahye, periferia sud della capitale dove a ridosso della casa di famiglia aveva trasformato un vecchio capannone in uno spazio espositivo.
Più che domandarsi chi sia stato, la vera domanda da porsi è: perché adesso? Che Slim fosse una spina nel fianco pubblico degli Hizbollah non era certo una novità. Il giorno dopo l’assassinio, sul sito in lingua inglese di Al Arabiya, emittente saudita con sede a Dubai, è apparso un articolo in cui una giornalista sosteneva di essere al corrente di un piano di defezione da parte di un membro del partito di dio coinvolto in operazioni di riciclaggio. A detta della giornalista Slim stava fungendo da tramite tra il futuro transfuga e un’eventuale rete di protezione. Ipotesi e teorie da prendere con le pinze in quanto, a oggi, non avvalorate da ulteriori prove e/o testimonianze. L’editore era accusato dai suoi nemici di essere vicino alle ambasciate, quella americana in primis. Accusa polivalente rivolta più o meno gratuitamente in Libano nei confronti di chiunque si voglia screditare o diffamare (anche le manifestazioni che avevano paralizzato il paese nell’autunno del 2019 erano state attribuite al volere oscuro delle “ambasciate”, quali e perché non è mai dato saperlo). Va anche detto che chi fa cultura in Libano, e la vuole fare il più liberamente possibile, deve spesso passare dalle ambasciate che sponsorizzano parecchie iniziative: dai festival cinematografici alle mostre. In un paese che praticamente non stanzia un solo centesimo di fondi pubblici a favore di iniziative culturali, il vile denaro va cercato altrove. Peraltro i rapporti che Slim aveva avuto con emissari di governi stranieri non erano affatto segreti. L’anno scorso, su sua iniziativa, rappresentati non allineati della comunità sciita avevano incontrato il diplomatico americano David Schenker, segretario di stato aggiunto per gli affari del Vicino Oriente, propugnatore della linea dura contro gli Hizballah. Iniziativa che non fu ben vista da sinistra, considerato che si era nel mezzo delle proteste che avevano fatto crollare il governo e aperto uno spiraglio di agibilità politica anti-sistemica. Il cordoglio e la ferma condanna dell’assassinio sono però arrivati da parte di tutti, anche da quelli che su alcune scelte di Lokman Slim nutrivano riserve.
Ridurre la figura di Slim a mero critico del partito di dio, come hanno fatto media locali e internazionali, è però riduttivo. Era sicuramente anche quello, ma non solo. A ben vedere il lavoro che portava avanti con Umam Documentation & Research, organizzazione fondata insieme alla moglie Monika Borgmann, documentarista tedesca, dava fastidio a tutti, non solo agli Hizballah. Scopo principale dell’organizzazione era infatti di lavorare alla costruzione di una memoria storica condivisa, conditio sine qua non per rompere definitivamente con le logiche settarie che governano il paese a trent’anni dalla fine della guerra civile (1975-1990). Ma in un paese dove i principali partiti confessionali sono capeggiati da (ex) signori della guerra, un’operazione del genere non interessa a nessuno. Anzi, la coltivazione selettiva di rancori mai sopiti e la loro riattivazione strategica in determinati momenti sono l’ABC della classe politica libanese. La manipolazione del passato e il sabotaggio della memoria sono tra le armi più affilate di cui il regime consociativo libanese dispone. Altro progetto che Slim e la sua associazione portavano avanti era il MENA Prison Forum, nato all’indomani delle sollevazioni popolari che dieci anni fa attraversarono (e continuano ad attraversare) il mondo arabo. Il forum si prefigge di studiare e documentare l’istituzione carceraria in Medio Oriente e nord Africa, nelle incarnazioni presenti e nelle sue forme storiche, indagando il suo rapporto simbiotico con lo stato. Nel 2016 insieme alla moglie avevano diretto il documentario Tadmor, docu-fiction sull’omonima prigione siriana nei pressi di Palmira le cui angherie erano rimesse in scena da un gruppo di ex prigionieri libanesi che impersonavano sia la vittima che il carnefice. Insomma, il lavoro e la militanza culturale di Slim e dei suoi collaboratori andavano ben oltre la critica al partito di Hassan Nasrallah.
Io, per esempio, avevo incontrato Slim due anni fa quando, alla ricerca di un catalogo che Umam aveva prodotto in occasione di una mostra sullo Studio Ba’albek, la “Cinecittà libanese”, ero finito nel suo hangar nella periferia sud di Beirut. Generosissimo, mi aveva dato una copia del catalogo e invitato a prendere, gratuitamente, le pubblicazioni che negli anni avevano accompagnato le mostre organizzate dalla sua associazione. Ero poi andato a fare ricerca sulle origini dell’industria cinematografica in Libano negli uffici che Umam ha dall’altra parte della città. Nel 2010, quando lo Studio Ba’albek, ormai da tempo abbandonato, stava per essere demolito, Slim e la sua organizzazione avevano salvato dall’oblio gli archivi (sia pellicole che documenti) dello storico studio cinematografico (nonché studio di registrazione, da cui passarono i grandi della musica libanese contemporanea). Una miniera d’oro che raccoglie un pezzo di storia del cinema arabo che rischiava di andare letteralmente perduto.
Che la salvaguardia della memoria storica di un paese che non ne possiede una condivisa possa dare fastidio è comprensibile, che sia solo questa la causa della sua morte sembra poco probabile. Va infatti detto che le attività culturali che Slim portava avanti rimangono appannaggio di una cerchia ristretta di persone e che, purtroppo, intaccano a malapena le reti clientelari su cui il potere politico-confessionale in Libano si regge. La moglie, i familiari e i collaboratori hanno fatto sapere che non si faranno intimidire e andranno avanti con il loro lavoro. A noi non resta che aspettare, probabilmente invano, che sia fatta luce sull’accaduto. (giovanni vimercati)
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