C’è un passaggio di Soli soli. Morire a Regina Coeli, in cui la protagonista Isabella ricorda un racconto letto molti anni prima. Lo scenario è quello di un paesino di montagna, travolto da una valanga, verso la fine dell’Ottocento; le vittime sono quattro: un professore di pianoforte che stava molestando una sua alunna e un clochard che stava ricevendo l’elemosina da un’anziana signora. In mancanza di evidenze, la narrazione dei giornali, che diventerà poi l’unica verità possibile per tutti gli abitanti del posto, si capovolge nella morte eroica di uno stimato professore, scomparso mentre tentava di salvare una sua allieva, e di una malcapitata vecchietta, rimasta sotto la valanga proprio mentre cercava di sfuggire a una rapina da parte di un derelitto.
Soli soli è un libro di recente pubblicato da Sensibili alle foglie e scritto da Rossella Scarponi (che nel gioco della scrittura diventa “Isabella”). Isabella è in realtà protagonista “a metà” perché osservatrice privilegiata e narratrice della vicenda che coinvolge sé e il suo compagno, Mario Scrocca, militante di Lotta Continua morto nel carcere romano il primo maggio del 1987 in circostanze tutt’altro che chiare. Come nel racconto che Isabella aveva letto da ragazza, la morte di Mario viene raccontata come un suicidio, confondendo bugie e realtà, rendendo impossibile una lettura oggettiva del caso, il cui ultimo atto formale sarà la chiusura della vicenda giudiziaria, che decreterà l’assenza di responsabili per il decesso. Almeno fino a che Isabella, a trent’anni di distanza, non deciderà di riesumare vecchi dossier, lettere e memoriali, e raccontarla in un libro.
A Regina Coeli, Mario c’era finito in arresto per il duplice omicidio dei neofascisti ammazzati in via Acca Larentia nel gennaio del 1978, sulla base delle rivelazioni di una pentita, Livia Todini, che aveva parlato di un tale Mario, dai capelli ricci e dai colori scuri. All’epoca dei fatti la Todini aveva quattordici anni e non riconobbe mai Scrocca dalle identificazioni fotografiche. Il mandato di cattura nei confronti dell’uomo sarebbe stato revocato dal Tribunale del Riesame tre giorni dopo la sua morte, sancendone l’innocenza.
Nel frattempo, la causa dichiarata della morte in carcere è l’impiccagione (di un detenuto considerato a rischio da questo punto di vista, imprigionato in una cella anti-suicidio e sorvegliato a vista dai secondini), sebbene gli elementi che non tornano siano tanti: lo spazio minimo – due millimetri – intercorso tra i piedi del ragazzo e il water sopra il quale Mario sarebbe rimasto nel vuoto, con al collo legato un cappio formato dalla federa del cuscino e i lacci delle scarpe; la presenza sulle scarpe delle stesse stringhe, di cui una addirittura allacciata, al momento dell’arrivo del corpo all’ospedale Santo Spirito; l’assenza di lesioni da strozzamento sul corpo di Mario; la presenza di un evidente ematoma sulla spalla e sul collo, dichiarato dal personale medico non riconducibile alla pressione provocata dalla stoffa della federa; il trasporto del corpo al nosocomio non nell’ambulanza in dotazione al carcere, ma nel portabagagli di una Fiat 128; la sparizione dei documenti originali relativi all’arrivo in ospedale e alla requisizione degli oggetti personali al momento dell’arresto; l’occultamento del cadavere ai familiari fino al mattino successivo.
Nel suo libro la Scarponi ricostruisce la vicenda attraverso un racconto appassionato ma lucido, reso tale anche da una scrittura sobria, che tuttavia non occulta i traumi e l’emotività di quei giorni e degli anni che sarebbero venuti. Ripercorre i luoghi e ritrae i personaggi, i poliziotti e i magistrati, gli avvocati, i familiari e gli amici, viaggiando avanti e indietro nel tempo e passando al setaccio tutti i particolari, fornendo un quadro che lascia pochi dubbi sul fatto che la storia non sia andata così come ha stabilito la giustizia dei tribunali.
Ma quella di Mario Scrocca è una storia che ha una valenza simbolica importante e che rende il libro qualcosa di più che la denuncia di una oscura morte in carcere, una costante purtroppo nella storia del nostro paese (negli ultimi vent’anni la media è di circa centocinquanta decessi l’anno, di cui quasi un terzo per “suicidio”). La morte di Mario è – come quella dell’anarchico Pinelli e tante altre non necessariamente avvenute in carcere – un “danno collaterale nella lotta al terrorismo”, una vicenda che mette in evidenza le ambigue pratiche con cui in quegli anni gli apparati statali fronteggiavano un fenomeno politico complesso come la lotta armata, anche attraverso l’utilizzo di inchieste, arresti e processi come strumenti esemplari di repressione.
C’è un altro importante libro di Sensibili alle foglie, pubblicato vent’anni fa, che si chiama Le torture affiorate e che racconta e documenta l’uso della tortura nei confronti di ventotto persone arrestate in Italia per banda armata tra il 1969 e il 1989. Nella premessa al volume si sottolinea come, per una comprensione del fenomeno, sia indispensabile ricordare che a subire la tortura siano state non le organizzazioni, ma i loro militanti, e come la gestione di queste pratiche e la loro successiva elaborazione (il silenzio, la denuncia, il ricorso o meno alle vie giudiziarie) sia allo stesso modo espressione di una scelta e di un percorso individuale, di cui le organizzazioni armate hanno preso atto, reagendo a loro volta in maniera eterogenea.
Il libro di Rossella Scarponi esprime bene questo sentimento di solitudine, di un uomo e della sua compagna che rimangono per alcune ore (il primo) e per una vita intera (la seconda) in ostaggio di uno Stato desideroso di chiudere il più in fretta possibile il sipario su una complicata fase storica. “Eravamo tutti pronti. Pronti a essere additati e possibili bersagli della repressione, unica arma che lo Stato aveva individuato per eliminare le mele marce. Eravamo pronti a vederci arrivare i carabinieri a casa all’alba e sentirci accusati di qualsiasi cosa, dallo sputo in metropolitana fino all’omicidio. […] La deprivazione sensoriale assoluta fu estesa ai detenuti per terrorismo, non solo a quelli processati, ma anche a quelli in detenzione preventiva in attesa di primo grado, detenzione che poteva arrivare fino a diciotto mesi per gravi indizi di colpevolezza. Indizi che venivano spesso dati dalla conoscenza o dalla frequentazione con qualcuno che di banda armata era accusato, a volte bastava solo essergli parente, avergli scritto in carcere. […] Non tutti ce la fecero, qualcuno che sapeva parlò, se sapeva poco lavorò di fantasia, se non sapeva inventò. […] Ma quando arrivavano a casa tua all’alba, sapevi che la parte migliore della tua vita era finita”. (riccardo rosa)
Leave a Reply