Mio nonno era laureato in Scienze Coloniali all’Orientale di Napoli. Da giovane era rimasto colpito dalla lettura del Corano e dalle storie impregnate di esotismo che raccontavano dell’Africa e del Medio Oriente. Quando lo raccontai alla professoressa del corso di Storia del colonialismo e della decolonizzazione, nella stessa università da lui frequentata, la prof. si illuminò e mi chiese di invitarlo per un’intervista. Mio nonno aveva studiato l’arabo e il berbero negli anni Quaranta del Novecento, e proprio questa facoltà (che fortunatamente è stata soppressa tanto tempo fa) veniva utilizzata per creare la nuova classe dirigente che avrebbe dovuto amministrare le colonie africane.
Quando gli chiedevo di raccontarmi il suo percorso universitario era sempre reticente e amareggiato, come se si sentisse carnefice pur non avendo avuto a che fare direttamente con i crimini coloniali. Non era mai partito per l’Africa, e aveva perso una buona parte dei volumi di grammatica araba e berbera durante la seconda guerra mondiale, guerra che lo aveva portato in Russia e dalla quale era tornato a piedi. Frequentava le librerie di Port’Alba per cercare di ricostruire la sua biblioteca di testi antichi, rammaricandosi di trovare solo nuove grammatiche di autori a lui sconosciuti. L’unica cosa che mi ripeteva quando gli chiedevo di raccontarmi quell’esperienza, era che se avesse potuto rinascere avrebbe voluto essere africano. Non volle mai venire a farsi intervistare dalla professoressa, che aveva dolcemente insistito più di una volta.
Quello che ho scritto finora mi è riaffiorato alla memoria pensando alle proteste di queste settimane, con la richiesta, in tutto il mondo, dell’abbattimento di statue di personaggi dalla fama discutibile, che hanno fatto parte della storia mondiale. Richieste lecite, soprattutto se si pensa al loro valore simbolico. In Italia, e sul caso che riguarda in particolare la statua di Montanelli, sono riemerse, come accade periodicamente, sue pubblicazioni e interviste che raccontano la “relazione” con una dodicenne etiope, vendutagli – come lo stesso Montanelli scrive in Le stanze di Montanelli – “intatta per ragioni sanitarie”, e alla quale dovette “abituarsi con fatica per il suo odore di capra di cui erano intrisi i capelli”. Montanelli racconta della bambina già infibulata, descrivendo la sua come un’avventura matrimoniale, e guai a chi gli avesse dato del colonialista, imperialista o stupratore. Anche a distanza di anni, Montanelli non sembrava colto da alcun tipo di ravvedimento o constatazione di un atto tanto brutale e disumanizzante, anzi appariva compiaciuto di una pratica normalizzata in epoca fascista ritenendo che potesse suscitare nei lettori e nelle lettrici poco più che curiosità e al massimo scabrosità.
Altro caso, di cui forse meno si è parlato, riguarda la statua dedicata al gerarca fascista Rodolfo Graziani, che nel 2012 fu costruita ad Affile (suo paese natale) dalla giunta e dal sindaco con fondi stanziati dalla regione Lazio. Solo nel 2019 è arrivata la condanna di apologia del fascismo e ne è stata richiesta la rimozione. Graziani è ritenuto criminale di guerra dall’Onu, e durante l’occupazione coloniale fu responsabile del massacro di uomini e donne in Etiopia (una carneficina avvenuta con un gas letale: l’iprite) e, in Libia. Per la brutalità delle sue esecuzioni si è guadagnato l’appellativo di “Macellaio di Fezzan”.
Avendo avuto occasione di ripensare alla vita di mio nonno, ho pensato che lo sforzo di ricostruire la memoria di quello che fu, attraverso i libri, possa essergli servito solo in parte per fare i conti col suo passato, ma egualmente, lasciato solo, non ha avuto la possibilità di elaborarne il trauma.
La pratica costante di rimozione del passato coloniale in Italia ha negato, infatti, l’elaborazione di un lutto collettivo. Miguel Mellino, in Cittadinanze postcoloniali. Appartenenze, razza e razzismo in Europa e in Italia, scrive: “Nel dopoguerra il fascismo venne sempre più defascistizzato, ovvero progressivamente purificato (attraverso la minimazione, la romanticizzazione e la caricatura) dai suoi aspetti più sinistri e violenti, prima di tutto dalla sua intrinseca ideologia razziale, suprematista […]. Lo stato razziale fascista apparve sempre di più come una mera eccezione o una parentesi e per questo è come se il razzismo non abbia un ruolo di rilievo e non debba essere indagato come momento di riflessione nella storia italiana”.
Il diniego alla rimozione di queste statue e l’esaltazione di personaggi di dubbia fama, in queste settimane di protesta, è diventata, da parte di chi porta avanti la bandiera della retorica reazionaria dell’intoccabilità della storia, un’acritica assoluzione di queste figure. Nella mia esperienza di insegnamento di italiano agli stranieri, più volte mi è capitato di parlare con ragazzi originari dell’Eritrea, Somalia, Libia, Etiopia. Qualcuno di loro aveva imparato qualche parola italiana a scuola. «Era semplice – mi ha detto Salomon –, molte parole amariche (la lingua etiope) sono simili a quelle italiane». Insieme ad altri ragazzi facevamo lezione in un centro di accoglienza, e qualche volta usufruivamo di una sala di una vecchia biblioteca della città.
Salomon era uno dei più grandi e una volta mi parlò della scuola di Asmara che aveva frequentato suo padre. Era una scuola italiana, oggi si imparano diverse lingue, ma inglese e italiano rimangono le lingue ufficiali. Salomon era un appassionato di musica, e una volta scherzando intonò una canzone di Battisti. Nonostante la sua grande volontà e predisposizione all’apprendimento delle lingue, faceva fatica a trovare un lavoro. Un giorno mi chiese, siccome non aveva mai visto nessun nero guidare un autobus, mentre quello era il lavoro che faceva in Etiopia, se avrebbe potuto mai lavorare in Italia come autista.
Le storie di mio nonno e di Salomon, che sembravano così distanti, si sono intrecciate nella mia riflessione. Il primo, che avrebbe voluto rinascere africano, e il secondo, che avrebbe voluto lavorare qui. In mezzo, i simboli della celebrazione fascista e colonialista, e la mancanza di dibattito sulle implicazioni che, non elaborate né tantomeno decostruite, si inseriscono nelle meccaniche psicologiche, sociali, politiche ma anche in quelle quotidiane e lavorative. Se non si fanno i conti con ciò che si è rimosso e negato, come si può rispondere alle domande del presente? Solo se inserita nel dibattito pubblico, e discussa con l’animo libero di riconsiderare gli eventi, la storia ha senso e può essere analizzata e ri-elaborata. Naturalmente questo non dovrebbe riguardare solo il passato coloniale, ma tutto ciò che facciamo fatica a raccontare e a raccontarci. (marzia quitadamo)
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