«Mi fate vedere dove sta Milano sulla mappa?». Puntano le dita, si bagnano in mare, cercano la parola, a zonzo tra gli Appennini e la pianura, poi l’indice si ferma, nel posto giusto. «Siamo a nord o a sud?». «A sud!», entrambi, fieri. Gli spiego che Milano in realtà è a nord in Italia ma che è giusto anche vederla a sud di qualcos’altro o solo rovesciarla. È pur sempre doposcuola questo.
Siamo a Calvairate, quartiere di Milano che pochi milanesi saprebbero indicare sulla mappa. Zona 4, sud est, tra due circonvallazioni e due radiali, a tre km dal Duomo. Per esteso Molise-Calvairate-Ponti. È uno dei più grandi insediamenti di case popolari della città, con tre mila alloggi dai ventidue agli ottanta mq, racket degli abusivi incluso. Qualcuno lo chiama “manicomio diffuso” perché dopo la legge Basaglia molte abitazioni sono state destinate ai malati psichici, con la media di uno su dieci a caseggiato. Fino agli anni Novanta c’erano anche le sedi nazionali di testimoni di Geova e Scientology, come in un plot postmoderno di J. G. Ballard. Uno dei caseggiati, detto stalag, è stato progettato per amore del realismo socialista da Giò Ponti che però viveva in un piccolo monumento palladiano, con pianta a ventaglio, facciatina concava a obelischi, appartamenti senza corridoi e uno scalone disegnato fuori scala per guardarlo anche da sotto in su.
Nelle ex docce di un condominio Aler – l’Azienda Lombarda Edilizia Residenziale che ha chiuso il 2013 con un buco di sessanta milioni in cassa e novanta milioni di arretrati con i fornitori – facciamo i compiti, dopo aver fatto le scale.
«Qui nel fosso ci sono quei cosi che si lanciano per giocare, me li prendi?».
«Cosa? I frisbee?».
Vado a vedere, il cimitero dei frisbee, nel fossato che delimita l’edificio e penso che dovrei prenderglieli, calarmi non so come e risalire non so come, devo farlo, magari li baratto con la ripetizione infinita della tabellina del nove, la più difficile, con quei numeri che aumentano troppo oppure con le doppie, gli devono sembrare sempre troppe anche quelle.
Loro sono egiziani, stanno qui da poco e non conoscono tutte le parole. Per esempio: allegramente. «Cosa vuol dire?», mi chiedono. La regola è per loro spalancare gli occhi e arricciare il naso quando non conoscono una parola, per me appuntarla sul quaderno e poi indagarla, in tutti i modi, con gli esempi, i disegni, le foto sul cellulare. Pozzo, passero, zoppo, tranviere, sbigottita, Gesù. I loro libri sono pieni di termini che non si usano più e che non useranno mai, un’antilingua inesistente, come se avessero davanti il baratro nel Novecento, guerre, lutti, tradimenti o dovessero prepararsi alla burocrazia e non alla vita.
L’altra volta abbiamo fatto un esercizio intitolato “La compravendita” per comprendere le relazioni fra spesa, guadagno e ricavo. Si fanno solo a Milano questi esercizi? Merce: sei bottiglie di Sprite (disegnate) che costano cinque euro e sessanta. Banconota: dieci euro (fotografata in bassa risoluzione). Resto? Non ti resta proprio niente.
Davanti a certe parole applico il non metodo Caproni. Faccio finta di non saperle e chiedo a loro di aiutarmi a non fare brutta figura, senza stupidità a volte non c’è stupore. Poi gli chiedo di dirmelo in arabo, così siamo smarriti allo stesso modo. Inte ulte e? Cosa le hai detto? Ulteleh tarafì macaen tablet Le ho detto se sa dove si compra il tablet senza soldi. A questa e a molte altre domande non so rispondere. Poi mi chiamano maestra e mi viene voglia di abitare in una capanna, come Giovanni Cena nelle prime scuole nell’agro pontino, o scambiare la Montedison per una lucciola invece devo stare qui e andare a cercare nella notte, dove ancora sopravvivono e si amano, quelle lucciole.
Io come loro, non vedo l’ora che finiscano i compiti per stare a sentère ma non glie lo posso dire, al massimo velocizzo, qualche pezzo lo leggo io, qualche risposta la do io, non si fa? Io lo faccio. Il tempo è poco e dobbiamo anche giocare. Ci sono i puzzle da montare, i dadi da tirare, i frisbee da resuscitare. Alla prossima lezione ci provo. (giusy palumbo)
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