Se c’è un quartiere in Italia dove le politiche urbane per le periferie stanno affrontando una sfida importante, questo è il Giambellino Lorenteggio a Milano. Qui, in un’area di quasi 200 mila mq, si dispiega un intervento con un investimento di 100 milioni di risorse pubbliche: un’enormità se pensiamo che l’ultima grande riqualificazione delle aree di Edilizia Residenziale Pubblica (ERP) – i Contratti di Quartiere II – ha visto una spesa complessiva di 138 milioni ripartita in cinque differenti quartieri; un’inezia se paragonata ai programmi di riqualificazione che stanno cambiando il volto della città, dagli oltre due miliardi di investimenti a Porta Nuova, ai tredici miliardi previsti da Scenari Immobiliari nei prossimi nove anni. Ma questa è un’altra storia, o possiamo far finta che lo sia. Sicuramente un’impresa titanica per le politiche pubbliche, messe a dura prova dallo svuotamento di senso che il paradigma neoliberale ha indotto negli ultimi vent’anni. Per questo il Giambellino Lorenteggio è diventato un osservatorio nazionale sulle politiche urbane per le periferie: un caso interessante per chi lo guarda da fuori ed eventualmente lo prende a modello, un esperimento critico per chi abita il quartiere e ha riposto in questo progetto speranze e desideri.
Molti fondi, molti vincoli
Da dove arriva un investimento pubblico così ingente? La maggior parte delle risorse proviene dal Por-Fesr (Programma operativo regionale – Fondo europeo di sviluppo regionale) per un totale di 50,8 milioni che vanno a coprire soprattutto opere infrastrutturali e in particolare la riqualificazione edilizia. Poi ci sono i fondi provenienti dal bilancio del comune di Milano: 20 milioni per opere legate allo spazio pubblico (aree a verde, viabilità, ecc.) e alla costruzione e ri-funzionalizzazione di edifici come la nuova biblioteca o lo storico edificio di via Giambellino 150, in uno spazio che oggi prende l’incerto nome di “Hub dell’innovazione inclusiva”. Si aggiunge un terzo pacchetto di risorse per interventi sugli alloggi inutilizzabili a causa del loro stato manutentivo per un totale di circa 7 milioni, in gran parte provenienti dai passati piani casa (Pnea 2009 e Legge 80/2014). Sullo stesso piatto della bilancia ci sono altri 10,8 milioni per la rimozione amianto e per altri interventi di riqualificazione edilizia. In totale il programma prevede un investimento sullo spazio costruito e sugli spazi pubblici di 93.249 milioni di euro, pari all’89% delle risorse.
Sul versante dell’intervento socio-economico sono stati stanziati 950 mila euro provenienti dal Fondo sociale europeo gestiti dal Comune per lo sviluppo del Piano di accompagnamento sociale (Pas) e un milione per il supporto a persone in difficoltà economica attraverso corsi di formazione, sostegno diretto e politiche attive per il lavoro. A queste si aggiungono le risorse del Pon “Città Metropolitane 2014-2020” per l’attività denominata “Scuola dei Quartieri” con un valore di 3 milioni a cui si somma l’asse Por-Fesr per l’avvio e il rafforzamento di imprese sociali per una quota di 1,2 milioni di euro. In totale circa 6,9 milioni di euro, pari al 7% del totale.
Non è facile districarsi nella matassa di queste risorse, ma è evidente che siamo davanti a un programma complesso che cerca di fare sintesi di finanziamenti differenti e che privilegia la riqualificazione fisica del quartiere. Vale quindi la pena domandarsi cosa fa il piano con queste risorse e in particolare come affronta uno dei nodi problematici che più pesa sulla qualità della vita nel quartiere: il vuoto diffuso, che costituisce oltre un quarto del patrimonio edilizio di proprietà Aler, l’Azienda lombarda per l’edilizia residenziale.
Qui interviene un vincolo tecnico: i fondi Fesr non finanziano opere di riqualificazione ordinaria, supponendo che queste siano fatte con risorse proprie dall’ente proprietario e gestore, in questo caso Aler Milano. Si è così deciso di impiegare la maggior parte dei finanziamenti per abbattimenti e ricostruzioni, vale a dire meno del 20% degli edifici del quartiere. Si potrebbe pensare che intervenire in un quartiere storico con abbattimenti selettivi e poche, ma efficaci, modifiche del tessuto urbano sia una sfida interessante. Purtroppo il programma sta procedendo per parti, manca un’idea coerente e si conoscono i progetti solo dei primi edifici abbattuti. Siamo così di fronte a un piano che riguardo agli interventi sull’edificato abitativo preferisce non scegliere, rimanendo schiacciato tra la mancanza di forza politica (e quindi di spesa) per agire fuori da vincoli e le costrizioni dei fondi europei, pensati per condizioni di partenza ben diverse.
Fare scatole è più facile che riempirle
È interessante vedere come il contenitore sia stato preferito rispetto al contenuto anche per quanto riguarda l’intervento sociale, in alcuni casi eliminando le esperienze più interessanti che il quartiere ha prodotto in questi anni. Emblematico il caso di Giambellino 150, ai cui piedi, nell’ex Acqua Potabile, c’è una onlus, Le Radici e Le Ali, scuola di italiano per stranieri, una delle risorse più importanti per un quartiere di accoglienza come Lorenteggio. I suoi locali sono affittati da Aler e da poco l’associazione ha investito migliaia di euro per rimuovere, a sue spese, l’amianto dal tetto. Nessuno è in grado di dire cosa ne sarà della loro sede, perché nessuno ha pensato che fosse interessante capirlo con loro: nel migliore dei casi il piano troverà una nuova collocazione, nel peggiore chiuderà la sede in attesa di nuovi sviluppi. Una sorte simile a quella che potrebbe toccare al Laboratorio di Quartiere, storica associazione di abitanti, operatori e volontari, da cui paradossalmente nasce la spinta politica che ha portato le istituzioni a intraprendere la riqualificazione tra il 2013 e il 2015. Il piano prevede l’abbattimento della sua sede, con un imprecisato e impreciso spostamento nell’attuale biblioteca comunale di via Odazio, rinominata Casa del Quartiere. Cosa sia e che relazione avrà con l’esperienza della Casetta Verde non è ancora chiaro. Per chi è impegnato tutti giorni nel quartiere, questa operazione fa paura. Un manto di nomi evocativi nasconde l’incertezza sul presente, scivolando pericolosamente verso la tabula rasa della progettazione. A questo incerto panorama si sommano i 6 milioni di euro per una biblioteca con una superficie lorda calpestabile di oltre 2.000 mq, che potrà essere una grande risorsa, ma anche un pericoloso boomerang.
Questa spinta alla moltiplicazione di spazi sociali che potremmo definire “straordinari” fa da contraltare a un processo di svuotamento dei suoi spazi di uso quotidiano. Un esempio su tutti è la presenza del servizio di portineria e custodia. Per capirne l’importanza bisogna immaginarsi dei cortili da 150-200 abitanti in cui vivono anziani soli e famiglie numerose, spesso di origine straniera. Ogni volta che la custode o il custode va in pensione, la portineria chiude e non viene più riaperta. Questo accade anche per gli spazi commerciali al piano terra. Emerge così una delle più grandi fragilità di questo programma di intervento: la gestione ordinaria. Aler Milano, azienda controllata dalla Regione, risulta infatti la grande assente nel piano. Un’assenza che potrebbe produrre un effetto gattopardiano e che ha escluso dal dibattito una delle questioni più urgenti per il benessere nel lungo periodo di chi abita in quartiere e che non sarà interessato dagli interventi molto puntuali del piano.
Il tabù della marginalità
Nel 2015 il 40% delle famiglie che abitavano negli alloggi Aler del quartiere presentava un Isee inferiore ai 9.000 euro annui. Più del 40% degli abitanti sono stranieri (1.726), quasi il 25% ha più di 65 anni, di questi la metà vive solo. Inoltre, di almeno 200 famiglie si conosce poco perché senza regolare contratto. Parliamo di un quartiere che negli anni ha ospitato la popolazione più povera di Milano, sia a causa della riduzione del patrimonio pubblico abitativo, sia perché l’abbandono istituzionale del patrimonio ha attirato chi non riusciva a reperire casa né sul mercato privato né con i canali tradizionali delle politiche. Queste sono le famiglie che abitano il quartiere, con queste dovrebbe fare i conti il piano di riqualificazione.
Se l’accompagnamento sociale si sostanzia in un piano dedicato (Pas), lo sviluppo economico e di competenze si traduce in un’azione chiamata Scuola dei Quartieri, cui è destinato l’investimento più consistente di tutto il pacchetto di risorse. La formula lanciata propone la prospettiva dell’auto-imprenditorialità come strumento di sviluppo locale, attingendo a una letteratura ormai molto in voga nelle politiche urbane, che punta a far leva sulle risorse culturali dei ceti medi urbani per costruire una città più equa. Una formula interessante per la tenuta delle classi medie e per contrastare la fuga di cervelli dalle città italiane. Si corre però ancora una volta il rischio di veicolare una descrizione pacificata delle periferie, che di fronte a un problema strutturale contrappone la retorica della risorsa individuale, non facendo i conti con le barriere di accesso, reali (dalla lingua alla tecnologia) e simboliche (dal linguaggio agli immaginari), a questi interventi.
Ancora una volta ciò che non trova spazio è la marginalità: la costruzione di percorsi di emancipazione che passino anche dalla certezza dell’abitazione, dall’apprendimento della lingua, dai meccanismi di inclusione delle minoranze e dalle competenze delle nuove generazioni che abitano il territorio. Riflessione che riguarda innanzitutto i quasi 200 nuclei che abitano nel quartiere senza regolare contratto, famiglie spesso in stato di necessità che sono anche l’esito di una gestione che ha lasciato il 25% degli alloggi (555) inutilizzato per anni. Un bisogno che ha trovato casa e che richiede un trattamento non giudicante, che prenda coscienza degli errori istituzionali e provi a ricostruire un punto di partenza. Un tentativo è stato fatto, solo per gli alloggi interessati dal piano di ristrutturazione edilizia, con un protocollo di intesa siglato dai sindacati degli inquilini, che purtroppo è stato disatteso.
Appare evidente dunque che la questione di fondo non è (solo) di natura edilizia. Se le istituzioni si sottraggono al confronto con le componenti sociali più fragili, continueremo a trovarci, qui e altrove, con quartieri abitati da cittadinanze negate, la cui partecipazione alle politiche sarà destinata a essere sempre più marginale. Il superamento di questa spirale non può passare unicamente per formule individuali, ma deve fare i conti con il rafforzamento del ruolo dei servizi pubblici (quelli che ci sono come la scuola, quelli ancora da immaginarsi per far fronte ai nuovi bisogni) e con la promozione di percorsi che vedano nel collettivo una risorsa per mettersi in gioco. Processi che in un futuro potranno aiutare a sviluppare nuove forme di cooperazione tra le organizzazioni e gli abitanti del quartiere, dalla cooperativa di comunità ai fondi locali co-gestiti, che potrebbero essere la sfida di domani per questi territori fragili. (jacopo lareno faccini)
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