Perché ci ostiniamo a parlare del caso San Siro? E di che cosa esattamente parliamo quando parliamo di San Siro? Ognuno ha la sua risposta, la mia è che le intricatissime vicende che riguardano questa area occidentale di Milano, a metà strada tra il centro e l’ex-area Expo, rappresentano uno degli esempi più sconvolgenti della violenza della rigenerazione urbana contemporanea.
Da decenni l’asse nord-ovest della città è stato individuato come un catalizzatore di sviluppo urbano, per via dello spegnersi delle grandi aree industriali e del solito pensiero unico che al loro posto prevede solo lusso e terziario, terziario e lusso. La mastodontica Fiera di Fuksas oltre il recinto del Cimitero Maggiore, fuori persino dai confini comunali, ha segnato la direzione, i palazzoni del Portello, al di qua del cimitero, sono diventati il paradigma, consolidato dal rimpiazzo della vecchia Fiera con i grattacieli ligrestiani di Citylife. La sostituzione del normale tessuto urbano con alberghi, uffici e residenze del lusso più tamarro su questa linea è oggi incontenibile.
Dal post Expo, cioè dalla trasformazione del manager destrorso Sala a sindaco eroe del centrosinistra italiano, l’amministrazione ha deciso di concentrare una notevole parte delle sue energie nell’aggressione dell’area di San Siro, che si trova immediatamente a sud di quella Citylife-Portello-Expo. Le premesse erano già negli anni albertiniani, morattiani e pisapieschi, ma questo quartiere gigantesco, dispersivo, verdissimo, che alterna a macchia di leopardo isole di case e palazzi più che agiati a vasti quartieri di edilizia popolare era rimasto piuttosto uguale a se stesso, aggrappato ai suoi stradoni e al verde inusuale dei suoi parchi enormi, dei suoi ippodromi, dei giardini curati delle villette e di quelli tristi e cintati dei condomini, e poi ancora ai recinti enormi dell’ospedale San Carlo, delle caserme e dello stadio Meazza, che rendono lunghissimi gli attraversamenti di Milano Ovest.
Man mano che i Ferragnez e i loro fan hanno conquistato nuovi pezzi di questo spazio occidentale, ogni metro quadrato che ostacolasse la conseguente ascesa della rendita ha cominciato a essere percepito come un corpo estraneo da trasformare – o meglio “rigenerare”. In particolare il Quadrilatero di San Siro, sito tra le torri di Citylife e lo stadio, quartiere di edilizia residenziale pubblica ben noto per la concentrazione di stranieri, di miseria e delinquenza (con la stampa che ha prestato la sua regolare opera di propaganda negativa), è diventato l’obiettivo da accerchiare, una Mordor piena di orchi dannosissimi, veri e propri guastafeste della valorizzazione.
Solo che, trovandoci non più negli Usa degli anni Venti e Cinquanta del Novecento con gli incappucciati del Ku-Klux-Klan, bensì in una metropoli provinciale invischiata nel sogno di imitare la Manhattan ormai popolata solo da miliardari, l’accerchiamento non ha assunto la forma della spettacolare cavalcata con le torce, ma del triste gioco di sponda tra rigenerazione “dall’alto” e “dal basso”. Dall’alto, quella giocata a carte coperte con società finanziarie di oscura provenienza, libere di imporre i propri progetti sui manufatti e sulle aree pubbliche e private. Dal basso, il prodotto di altre mani non meno avide ma più infide: quelle delle fondazioni filantropiche, culturali o sociali o meglio miste, delle fondazioni bancarie, delle università sotto il sigillo della Terza missione, delle associazioni e delle cooperative, di quell’universo composito che ama definirsi no profit o terzo settore. Un universo che si occupa di diffondere l’ideologia dell’equivalenza tra pubblico e privato e di praticarne la partnership, che sta di fatto contribuendo a privatizzare il welfare pubblico, e che infine è alimentato e sostenuto dalla finanza a impatto sociale, cioè la finanza tout court che ha da tempo intrapreso, con un’accelerata dopo la crisi globale del 2008, una politica di copertura della propria immagine cannibale e suicida con una maschera di improbabile bontà, estendendo al tempo stesso il campo dell’estrazione di profitto ai servizi sociali e culturali.
Dall’alto, il Comune ha deciso di eliminare lo stadio Meazza – funzionante e spettacolare – e sostituirlo con uno stadio più di lusso e commerciale per gentrificare tutte le aree intorno, in particolare il Quadrilatero Aler. Per farlo ha usato alcuni strumenti urbanistici: ha indicato sulle mappe del Pgt l’area come “vuota” e l’ha classificata Grande Funzione Urbana, con indici edificatori paurosi, il che permette ai privati che investono i capitali per l’acquisizione e trasformazione di guadagnarci soldi a palate. Poi, quando i proprietari forse cinesi delle squadre Inter e Milan hanno presentato un progetto di stadio e centro commerciale circondato da una cortina di edifici di lusso (il vero sugo della speculazione), ha agito da facilitatore dichiarando l’interesse pubblico (contro ogni logica) dell’operazione e mediando con la soprintendenza per rimuovere ogni vincolo.
Quando a ribellarsi non sono stati solo i rari critici ma anche un bel po’ di entusiasti del Modello Milano, li ha ignorati, censurati, repressi. Quando gli insoliti attivisti spalleggiati persino dalla stirpe Moratti hanno promosso addirittura un referendum su San Siro, Sala l’ha fatto annullare da una commissione composta da personaggi legati alle società Milan e Inter, promuovendo al suo posto un costoso “dibattito pubblico partecipativo” che promette di raccogliere qualche opinione “per migliorare” il progetto proposto dalle proprietà. In buona sostanza ha umiliato ogni resistenza democratica, se è ancora lecito usare questo termine.
Perché questo accanimento? Non tanto per contiguità e servilismo nei confronti degli interessi delle squadre (che pure c’è), ma perché senza questo tassello fondamentale il resto del puzzle della rigenerazione rischia di fallire, come del resto è già successo più volte nei decenni passati, per esempio a Rogoredo-Santa Giulia e a Sesto San Giovanni. I capitali privati esigono il contributo pubblico, o meglio l’esibizione dell’obbedienza pubblica: se l’istituzione competente non si mostra docile e pronta a comprimere l’interesse pubblico in favore del privato, allora i privati la puniranno investendo altrove. E non solo le società calcistiche, ma anche tutti i grandi e piccoli attori del Real Estate, in primis Hines, la società texana che ha sviluppato con la guida di Manfredi Catella i grattacieli di Porta Nuova (Bosco Verticale, Unicredit, Solaria, Gae Aulenti) che ha comprato i tredici ettari dell’Ippodromo del Trotto, confinante con lo stadio, su cui costruirà ancora residenze di lusso. Pochi metri più in là le scuderie de Montel, un edificio liberty da restaurare di tremila metri quadrati immerso in un parco di sedici ettari, diventeranno il Teatro delle Terme, il “parco termale urbano più grande d’Europa”, una Spa di lusso: ma attenzione, la società che l’ha acquistato al ridicolo prezzo di 1,2 milioni – quanto un appartamento nel quartiere Isola – l’ha ottenuto grazie a un bando europeo, C40 – Reinventing Cities, teoricamente vincolato all’uso sociale. Per soddisfare i criteri del bando, al team guidato da Ati Teatro delle terme (Valentino Tomasoni, noto per l’Acquapark di Concorezzo, e la società italo-svizzera Viacom) è bastato concedere 1.600 mq di anti-parco a “uso pubblico” e destinare un paio di salette alle associazioni di quartiere, oltre a qualche abbonamento scontato per la popolazione locale meno abbiente.
La parte più consistente dell’accerchiamento proviene infatti dal cosiddetto “basso”, cioè dall’innovazione sociale e culturale. La Fondazione Terzo Luogo di Francesco Franceschi, uno dei fondatori di Moleskine, rigenererà la Cascina Case Nuove a via Paravia, antico punto di ritrovo del quartiere, trasformandola con la collaborazione di Che Fare e Codici in una biblioteca multimediale con laboratori e altre funzioni, anche commerciali: un ennesimo spazio che ibrida pubblico e privato, intrattenimento ed educazione, che parla di inclusione e produce gentrificazione. Contemporaneamente Aler e Comune concordano un “protocollo” che inaugura politiche di parziale sostituzione dell’Erp (edilizia pubblica) con Ers (edilizia “sociale”), cioè con la scusa della mixité sistema negli alloggi vuoti del Quadrilatero abitanti temporanei, meno disagiati, a canone concordato anziché le famiglie in lista d’attesa da anni. A queste si aggiunge l’assegnazione tramite bando di spazi affacciati su strada al Politecnico, alla Bocconi e all’associazione Kin (costituita dagli attivisti di Macao e di San Precario), e il bando per la gestione privata del Mercato Comunale di piazza Selinunte (centro del Quadrilatero stesso), con l’obiettivo di trasformarlo in un ennesimo spazio ibrido che animi ed educhi gli abitanti del quartiere.
Le proteste del Sicet, il più attivo dei sindacati inquilini a Milano, si uniscono a quelle dei comitati di abitanti; Off Topic, il più energico e antagonista dei laboratori politici contro le privatizzazioni e la gentrificazione a Milano, ha riunito tutti i gruppi di attivisti e ricercatori della città per produrre un’analisi approfondita sulla trasformazione di San Siro. Una sola, ma autorevolissima voce proveniente dal Politecnico di Milano, quella del professor Pileri, si è levata per denunciare, con la forza di dati inoppugnabili, la gravità dell’impatto ambientale che l’abbattimento e ricostruzione dello stadio produrrebbero. Qualche rarissimo giornale e molti blog e social riferiscono di sondaggi, opinioni e lotte per fermare il processo. Ma il vortice della rigenerazione dall’alto e dal basso risucchia nella sua spirale una tale quantità di interessi compartecipati, studi legali d’affari, media, mediatori, agenzie di comunicazione, protagonisti del demi-monde culturale e sociale, universitari e freelance, associazioni, e purtroppo anche attivisti, che risulta quasi impossibile infrangere la barriera del consenso. Le chiacchiere da bar sulla potenza di Milan e Inter offuscano i ragionamenti sull’espulsione delle classi povere dalla città, il buonsenso reazionario meneghino (chi paga è legittimato a decidere, come se in questo caso il vero conto non lo pagassero i cittadini) continua a bollare gli oppositori e i critici come lamentosi Nimby, rompicoglioni da mettere a tacere senza tante cerimonie.
Ma il dado non è ancora tratto, e chi oggi canta vittoria potrebbe ancora scontrarsi con un fallimento finanziario, giudiziario o politico, come è già successo molte volte prima dell’Expo e, ricordiamolo, anche per il progetto delle cementatissime Vie d’acqua, che si concluse con un grande trionfo del movimento No-Canal. (lucia tozzi)
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