da: Carmilla
L’Era Marchionne di Maria Elena Scandaliato è un bilancio critico e rigoroso, più che sulla carriera e il destino di un manager, su una stagione intera delle relazioni industriali e delle politiche del lavoro, in Italia, nell’ultimo ventennio. Attraverso la vicenda di Sergio l’Americano, si può leggere in controluce la regressione sociale e culturale di un intero paese.
Uscito subito dopo la morte di Marchionne – riprendendo materiale già pubblicato e arricchendolo ulteriormente – il libro può essere considerato una specie di controcanto rispetto alla stucchevole esaltazione che i media hanno messo in campo ad accompagnamento del funerale del Ceo. L’autrice accomuna questo clima, alla reazione innescata cinquant’anni prima dalla morte del vecchio Vittorio Valletta:
“I coccodrilli (gli articoli con cui la stampa commemora un personaggio appena morto) sono comparsi sui giornali e sui siti web quando il manager era ancora vivo, seppure in condizioni disperate. Quasi ci fosse l’urgenza di scriverne subito il panegirico, di erigere un unico intoccabile epitaffio del personaggio amministratore-delegato. L’uomo spezzato da una fine prematura, finisce per prevalere sulla sua funzione, sulle sue immense responsabilità sociali. Che non possono essere più discusse o criticate […] Ed ecco che Repubblica riporta come ‘voci dalle fabbriche’, Un coro unanime di ‘ci ha salvato, ha fatto scelte coraggiose'” (p. 4).
Per non parlare dei commenti del mainstream imprenditoriale e politico: “Oscar Farinetti: era una persona straordinaria e tutti gli italiani gli devono molto” (p. 5). “Matteo Renzi: ha creato posti di lavoro, non cassintegrati. Ha subito l’odio ideologico di chi detesta le persone di talento” (p. 5). E giù editoriali ammirati e reportage melensi sui media di ogni ordine e grado.
Una simile rassegna di acritica unanimità non ha precedenti, se non nei casi di figure catartiche come Madre Teresa di Calcutta o Ghandi – un ossequio ideologico che si autoalimenta e si sublima, fino a trasfigurarsi in una dimensione meta-storica e sovra-umana. Sugli operatori del sistema informativo, la morte di Marchionne ha scatenato la stessa reazione automatica che la morte di Lady Diana innescò nel tele-popolino globale: là il mito eterno della Principessa Triste destinata alla nobile morte romantica; qua la rappresentazione del manager inflessibile e lungimirante, che si immola fino alla fine sull’altare del più puro degli ideali: la tutela dell’interesse degli azionisti.
Ma già prima della improvvisa dipartita, il marchionnismo, aveva impregnato negli anni la società italiana, conducendo una battaglia di forza ed egemonia, proprio contro la società stessa e la sua legge fondamentale, la Costituzione.
“Questo libro lo scrissi sette anni fa, sull’onda della ‘rivoluzione Marchionne’. Che aveva mostrato come la lotta di classe fosse più che mai viva nel nostro paese, praticata non dagli operai, bensì dalla classe padronale, capace in pochi mesi di fare a brandelli diritti conquistati in decenni di battaglie. Sergio Marchionne era l’ariete che aveva demolito le vecchie relazioni industriali; che aveva portato la Fiat fuori da Confindustria e la Fiom […] fuori dalle fabbriche. Che aveva imposto agli operai le sue condizioni, con l’arma più potente offerta dalla globalizzazione, quella della delocalizzazione: o accettate o sposto la produzione in Polonia” (p. 5).
Nel corso di questi sette anni passati dalla prima stesura del libro, il veleno è penetrato sempre più profondamente nel corpo sociale e alcuni arretramenti appaiono irreversibili, soprattutto sul piano culturale e ideologico: è lì che Marchionne ha sfondato, sbaragliando le residuali difese immunitarie di un sistema che aveva già accettato di considerare diritti, tutele, retribuzioni e dignità del lavoro, come variabili dipendenti dalle ragioni d’impresa.
Marchionne viene scelto nel 2005 dalla famiglia Agnelli (sempre più simile alla tribù parassitaria e anacronistica dei Saud) alla morte del vecchio Umberto. Non è un outsider, negli ambienti internazionali il suo nome è già conosciuto. Il suo biglietto da visita è a due facce: da una parte abile e spregiudicato manovratore finanziario, dall’altra disponibile al dialogo sindacale e alle istanze operaie. Le manovre di bilancio servono a tamponare immediatamente la crisi di liquidità del gruppo e farsi legittimare dagli azionisti; le aperture sociali servono a lanciare segnali verso il mondo sindacale e la sinistra di governo, in un momento di grande fragilità dell’universo Fiat, bisognoso di consenso e pacificazione. Raccoglie successi immediati su entrambi i fronti. Bravo e fortunato nelle faccende finanziarie (il suo vero mestiere, altro che metalmeccanico, come amava definirsi per dare una vocazione industriale alla sua biografia di manager), si trova bella e pronta davanti a sé la famosa clausola che, sulla base di piani falliti e accordi già stipulati dalle gestioni precedenti, obbliga la General Motors a sborsare un miliardo e mezzo di dollari, in alternativa all’obbligo di acquisto del comparto auto Fiat: l’esercizio di tale opzione porta una provvidenziale boccata di ossigeno nelle casse dell’azienda torinese. I fondamentali del gruppo cominciano a stabilizzarsi rapidamente. Anche gli investimenti nel miglioramento delle condizioni di lavoro, soprattutto nello stabilimento simbolo di Mirafiori, provocano reazioni positive e vincono le diffidenze dei sindacati. Marchionne non risparmia i segnali e gli ammiccamenti in tal senso:
“I risultati raggiunti da Fiat dimostrano che simili trasformazioni sono possibili anche in un paese con forte coscienza sindacale. La maggior parte degli analisti finanziari ritiene che le riduzioni di organico siano per definizione positive, ma sono fissazioni. Il costo del lavoro incide solo per il 6-7%. Quindi certe richieste di tagli sono indiscriminate” (p. 35).
L’autrice recupera dichiarazioni che sembrano uscite da un’altra era geologica. A parlare è lo stesso Marchionne che qualche anno più tardi fonderà un’intera stagione sulle “richieste di tagli” e sulla distruzione manu militari di quella “forte coscienza sindacale” che all’inizio sembrava voler rispettare.
Nella fase del Marchionne “progressista” i politici, soprattutto di centro sinistra, non vedono l’ora di genuflettersi al borghese illuminato con cui rinnovare l’eterno “patto tra produttori”. Liberazione scrive che “c’è un manager che dice che licenziare non va bene. Non vedo perché non dobbiamo essere d’accordo” (p. 35). Valentino Parlato dice di lui: “Uno con cui farei volentieri una chiacchierata” (p. 35). Cesare Damiano, ineffabile ministro del lavoro, afferma: “Dobbiamo saper distinguere tra manager e manager, tra chi ha una vocazione industriale, e così difende anche l’occupazione, e chi pensa solo alle stock options e ne ha fatto una filosofia dagli effetti perversi” (p. 35). Senza troppi fronzoli, il lungimirante Fassino lo definisce direttamente “un socialdemocratico”; mentre Dario De Vico sul Corrierone scrive che l’avvento di Marchionne conferma come il “darwinismo sociale” applicato al personale d’impresa, dimostra la bontà della selezione della specie. Insomma un tripudio liberal-progressista nel quale tutto un mondo sembra aver trovato il suo eroe metalmeccanico.
A rompere l’idillio sono proprio i metalmeccanici e proprio a Mirafiori, dove Marchionne ha speso soldi per migliorare mense e spogliatoi.
“L’idillio tra Lingotto, governo Prodi e sindacati confederali, infatti a qualcuno dà fastidio. Sono gli operai di Mirafiori – quelli veri – che alla fine del 2006 accolgono i rappresentanti di Cgil, CISL e UIL in un coro di fischi e contestazioni. Epifani, Angeletti e Bonanni erano andati a parlare – per la prima volta dopo ventisei anni – all’assemblea dello stabilimento Fiat, per spiegare i contenuti della Finanziaria e le ragioni per cui l’avevano appoggiata. I lavoratori, però, quelle ragioni le sentivano premere già da un pezzo sulla loro carne: riduzione delle pensioni, allungamento dell’età lavorativa e salari stagnanti; in compenso il governo aveva adottato una serie di misure liberiste – dal taglio del cuneo fiscale, all’utilizzo del TFR come investimento – a favore dell’impresa” (p. 38).
I lavoratori fischiano il tavolo dei sindacalisti, tenuto a distanza chilometrica dalla platea, difeso da transenne. I destinatari delle contestazioni sono innanzitutto vertici sindacali e “governo amico”. Ma quei fischi arrivano diretti, anche alle orecchie di Sergio. Sono un campanello d’allarme, le chiacchiere possono bastare per i politici e i sindacalisti in perenne crisi di legittimazione. Ma per la forza lavoro non bastano: in Fiat bisogna irrigidire e verticalizzare le gerarchie se si vuole ottemperare al mandato (e ai piani operativi) che gli azionisti gli hanno affidato. Scandaliato è molto efficace nel raccontare la brusca “inversione a U” del socialdemocratico Marchionne:
“Sergio Marchionne, però, con la crisi ha cambiato completamente volto. Non è più l’uomo della speranza, del ‘sindacato-partner’, dei licenziamenti come ‘fissazioni’ del mercato. Il ‘borghese buono’ ha lasciato il posto al borghese senza aggettivi, all’amministratore delegato che fa il suo lavoro e che sa farlo bene, tutelando l’interesse dell’azienda e del profitto (p. 90).
Eclettismo padronale? Estri caratteriali? No, meglio parlare di flessibilità nei metodi di gestione e capacità di leggere in tempo la crisi che in quegli anni si profila e che provocherà un terremoto terribile nel mercato mondiale dell’auto. Da questo sconvolgimento, la Fiat può uscire solo con due mosse: unirsi a un partner di peso internazionale, per raggiungere quella soglia minima dei cinque milioni e mezzo di veicoli giudicata indispensabile per stare a galla, e sganciare del tutto il settore auto dall’asfittico mercato nazionale, ripristinando nel contempo un pieno comando sugli stabilimenti, le retribuzioni e la prestazione lavorativa in Italia. Così è il capitalismo: le maschere socialdemocratiche cadono in un attimo, quando il gioco si fa duro… (giovanni iozzoli – continua a leggere…)
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