«La tranquillità che ho qui a Esquina non la cambio per nulla al mondo». Maradona è su una barchetta rossa nel fiume Corriente, affluente del Paranà. L’imbarcazione si avvicina lentamente alla telecamera, il campo si allarga e spunta un cielo limpido d’autunno. Maradona lascia sulla barca il pescatore e suo figlio, scende a riva e parla agli spettatori. Mostra alla telecamera due grossi pesci gialli, li guarda con meraviglia. «Qui c’è gente che mi vuole bene, c’è tranquillità, pace, bellezza». Titoli gialli su sfondo rosso: “Con il patrocinio della Commissione Municipale del Turismo di Esquina, Estudio Vts presenta ‘Esquina: molto più di una bella giornata di pesca’”. Maradona prestò il suo volto a questo filmato di circa trenta minuti che pubblicizzava le bellezze naturalistiche di Esquina, cittadina di circa ventimila abitanti nella quale nel 1842 Garibaldi e i suoi uomini trovarono riparo dopo una sconfitta contro l’ammiraglio Brown. A Esquina il padre di Maradona faceva il guardiano delle barche e nel tempo libero era una buona ala destra.
Diego è morto. Era nella sua casa in affitto a Tigre, in una località chiamata Villanueva, all’interno di un parco dal nome Barrio San Andres, a pochi chilometri dal centro di Buenos Aires. Il decesso, ha confermato il procuratore generale di San Isidro, John Broyard, è avvenuto per cause naturali. Un infarto. Maradona era a Tigre per recuperare dopo un intervento al cervello, che si era reso necessario per ridurre un edema. Un intervento che sembrava perfettamente riuscito, e non è da escludere che l’infarto sia del tutto slegato dall’intervento chirurgico subito ventidue giorni prima. Nel Barrio San Andres sono arrivate nove ambulanze, una dietro l’altra. In Argentina era mezzogiorno. Le sirene hanno rotto la pace che regna nel complesso residenziale, circondato da alte siepi, con un piccolo specchio d’acqua e, sugli ampi prati verdi, giostre per bambini.
A Napoli la notizia è rimbalzata alle 17:20 circa. Un pomeriggio come tanti altri che all’improvviso collassa, una nefasta energia schiaccia tutto verso il centro della terra, il cuore sobbalza. La notizia potrebbe non essere credibile, si dice qualcuno, a volte queste fetenzie circolano per qualche minuto e poi tutto rientra. E invece al primo sito sportivo se ne aggiunge un altro, due righe, niente commento. Ecco, ancora: la notizia è rilanciata da versioni online di giornali più autorevoli, poi ne parla la televisione e si attivano già i primi collegamenti da Napoli. Solo adesso che tutto è chiaro qualcosa comincia a muoversi, sono quelle danze che ora proiettano in tv – i calzoncini bianchi, la maglia di un azzurro pungente, la capigliatura nera e l’armonia di questi elementi – a dare il via. Cadono scorze accumulate in età adulta, viene fuori il frutto della passione con la stessa tenerezza di quando l’abbiamo seminato. Queste sono le lacrime di Bruscolotti o forse sono le mie? Torna la gioia che scaturiva dai suoi piedi, sfiora Napoli ancora una volta, trent’anni dopo, e della stessa brezza piangiamo tutti.
È piccolo: il torace forte poggia su due colonne di muscoli – le gambe – che sono gli strumenti del mestiere. Il baricentro è basso; le reni sono elastiche, buone per spiazzare di finta. Il corpo si raccoglie formando una palla che rotola in terra dall’altezza ideale di un metro e 66 (settanta chili). […] Napoli accoglie Diego a Capodichino in un abbraccio impazzito di gioia, corre al San Paolo per vederlo palleggiare pochi minuti, giusto il tempo di conoscersi. Sfodera vessilli con l’immagine del pibe de oro, sforna poster, magliette, manifesti, palloni, stendardi effigiati dedicati a Maradona. Giornalisti orecchianti scrivono che lo chiamano ‘o guaglione. Non è vero. Lo chiamano Diego e basta. Al primo nato napoletano del 1985 papà e mamma danno i nomi di Diego Armando, inconsueti all’ombra del Vesuvio. Sul San Paolo svetta uno striscione: “Diego, regalaci un sogno”. (Roberto Ciuni, Il Pallone di Napoli)
Comincia la corsa dei coccodrilli: l’aneddoto affilato, il ricordo, l’immancabile antropologia televisiva sui napoletani, i suoi compagni di squadra, i registi che l’hanno raccontato. Il legame con la città. È morto o è stato ucciso? Da chi? Qualcuno l’ha tradito? Poi ci si affanna, in tv, a separare l’uomo dal calciatore, perché sembra chiaro che oggi i due piani non siano più in nessun modo sovrapponibili. Impossibile pensare a – ne dico uno a caso – Matrecano uomo che non sia anche calciatore. Maradona, invece, spiegano i cronisti, rinnegava sé stesso dal novantesimo in poi, fino al calcio d’inizio successivo. Tra le disavventure e le sciagure c’erano novanta minuti circa di grazia a settimana.
Quello fu uno scudetto incredibile: il Sud che si prendeva la rivincita sul prospero Nord, i colori ocra e blu cielo del Vesuvio, la folla in delirio, i canti, l’esuberanza, i travestimenti, i cavalli variopinti, una festa come quelle che solo le antiche cronache riportano, in cui le divinità si mischiano agli uomini. Un carro coperto di fiori e, al centro, un piccolo Bacco dagli occhi febbrili con in testa una corona da vero sovrano. Un kitsch sublime! L’Argentina, che è una testa di ponte dell’Italia nell’emisfero australe, restituiva a Napoli il suo re, Diego Maradona, e la sua festa. (Vladimir Dimitrijevic, La vita è un pallone rotondo).
C’è una foto di Gianni Fiorito, nel volume Come eravamo, che è molto significativa. Il libro racconta le trasformazioni di Napoli dalla fine degli anni Settanta ai primi anni del nuovo millennio. Il motivo ricorrente è scandito dalle lotte che attraversavano la città e le sue periferie, sotto forma di cortei, manifestazioni, guerre di camorra, sit-in, scioperi. Ci sono disoccupati, movimenti per la casa, commercianti contro il racket, terremotati, operai che ascoltano Valenzi, morti ammazzati, poliziotti con il montone e la pistola in mano. Sembra un quadro in cui risulta faticoso inserire un calciatore. E invece eccolo, Maradona: è da poco arrivato a Napoli e, durante un allenamento, ha posizionato tre palloni in fila e si impegna a calciarli uno dopo l’altro. È anch’egli il simbolo di una lotta a cui l’intera città (dai borderline ai camorristi, dai doppiopetto ai pulciari passando per prostitute, scrittori, spacciatori, notai, ragionieri, finanzieri, vigili del fuoco, salumieri, pasticcieri e anche i tassisti) si appassionò. La lotta per la felicità.
Poi, ognuno è libero di perdersi (e ritrovarsi) come gli pare, ma se oggi affermo che Diego è stato più grande di Pelé è perché mi riallaccio a quello che dicono in Brasile: “Se parlate di Pelé, la gente si toglie il cappello. Se parlate di Garrincha, piange”. Era l’alegria do povo, l’allegria del popolo. Proprio quello che è stato Maradona. È qui la differenza. (Gianni Mura, il Venerdì di Repubblica)
È il primo giorno di vacanze dopo la fine della scuola. Fantastichi sulle occasioni che avrai nei tre mesi successivi, sei di buon umore per il solo fatto di avere ottime prospettive. Ed era forse così ogni volta che Maradona toccava palla o stava per toccarla. Un primo giorno di vacanze che si rinnovava, un momento di gioia che si ripeteva ma sempre diverso e mai deludente. Qualcuno pensava di non aver fatto nulla per meritarla, una felicità così. Diego aveva ingannato tutti, li aveva sorpresi ancora capaci di sognare. (davide schiavon)
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