«Infatti ha una certa età, peccato per l’eclissi» – ricorda il ragazzo dietro di me. Ha fatto una scorta di libri offerti gratuitamente da Casa Morra, li ha lasciati in macchina ed è risalito da via Imbriani a piedi, conquistando il suo posto sul campo. Avrebbe intavolato di lì a poco una lunga conversazione con un’artista visuale fiamminga (queste le sue parole di presentazione) ritmata da un numero non esiguo di «bello» e «interessante», precipitata nel senza tempo di un «ascolto di tutto». Ad avere una certa età è Terry Riley, il compositore americano che si è tolto lo sfizio di suonare a Napoli il giorno dell’eclissi, il 27 luglio.
Arrivati in cortile, la luna è solo un ricordo. Ci sono sedie da ufficio comunale, panche da sagra e posti a terra quanti ne vuoi. Arriviamo giusto in tempo per aspettare a lungo: il concerto è previsto alle 22 sebbene comunicato a più riprese per le 21. Hanno giocato d’anticipo, gli organizzatori, così da farci respirare il clima soavemente contemporaneo del quadrilatero all’aperto, laddove dovremmo sempre ringraziarli per dare spazio alle neo-avanguardie contemporanee. Ecco, questa loro definizione non l’ho capita, come può essere neo-avanguardia un cristiano che si è fatto conoscere negli anni Sessanta… Ma poi mi sono guardato intorno, ho visto il pubblico ed è diventato tutto più chiaro.
Tanti brizzolati, un bel po’ di signore e signori stagionati ed ex fricchettoni accompagnano le nuove leve del vintage culturale. E poi anche gente distinta, professionisti, anonimi sbarcati a Napoli per l’occasione. Non esiste il sold out in circostanze del genere, che più siamo meglio è, ma immaginate bene: c’era chiunque. Tutti in fila per il signor Terry Riley, sbarcato in città col figlioletto Gyan. Un tour europeo di tre date per il duo americano intento a promuovere la recente produzione discografica, non contento forse di suonare rigorosamente live. Una singolare osmosi tra réclame e performance segna infatti le stagioni concertistiche di alcuni attori culturali, ben disposti come sono nei confronti del pubblico se messo in fila dal ricorso storico della moda.
L’attesa è riempita da una musica opportunamente diffusa grazie a Spotify, versione base, perché gli inserti pubblicitari sono diversi, sempre messi in mute, come dovessero essere taciuti. E poi tante chiacchiere e sigarette, che l’aria aperta incoraggia entrambe. Una voce femminile ricorda alcune regole per partecipare al concerto, limitandosi a elencare una sorta di galateo fotografico da adempiere: no flash, non arrivate sotto il palco pur di fotografarlo, fate i bravi. Tacitamente, regala il consenso per diffondere le immagini a mezzo social, attivando un incessante riscontro pubblicitario, anche perché Casa Morra in foto è molto meglio grazie a un light design semplice ma efficace: essenzialmente bicromatico – rosso e blu – riscaldato dalle luci gialle del palco.
Quando Riley sale sul podio, uno del pubblico gli va incontro, lasciandogli un mazzo di fiori incartati in uno spartito. L’americano lo adagia sul pianoforte a coda. Camicia a fiori, barba bianca curata e lunga, diamonica alla mano, è Gyan ad aprire le danze con la sua chitarra; il papà gli viene dietro improvvisando. C’è una buona complicità tra i due, chiamati come sono entrambi a fare spettacolo più che musica, perché in effetti la musica sta da un’altra parte.
Non ce ne voglia una critica musicale sempre tesa all’entusiasmo, il concerto pesa ovviamente del nome dell’interprete la cui storia non può essere messa in discussione; semmai il ricorso alla storia per giustificare la performance, questo sì. Il concerto è gradevole ma niente di esclusivo, roba opportunamente archiviata in tempo reale da ciclopi tecnologici: tutto un fatto di incastri ritmici ben segnalato dal ripetuto annuire dei giovani seduti a terra, sui giornali.
Riley si preoccupa molto della resa; dialoga spesso con il povero fonico chiamato a un compito difficile: accontentare una star. E funzionava di certo solo il fronte stereo palco, non i laterali. Sa benissimo fare lo show man: si fa apprezzare per esempio quando interrompe l’esecuzione volteggiando sulle notine del pianoforte mentre un aereo sorvola Napoli. Gyan invece è più acerbo, si fa sgamare che lo cerca proprio il sorrisino, ogni volta che il paesaggio sonoro della città entra in gioco senza chiedere il permesso.
Se il secondo brano riesce quasi a giustificare il luogo comune del minimalismo, la questione di genere imposta al pubblico per la ricezione della produzione musicale, il terzo pezzo partecipa della diffusione di un suono fissato: una voce femminile si impossessa del primo segmento, variamente sostenuta da un giochino niente male prima del piano solo del nostro amico americano che trova pace nel suonare note vicine tra loro; il figlioletto invece ci mette il suo con la chitarra ma niente di serio. Poi incalza. Finalmente. Ne esce fuori un disegno chiaro, non per questo meno ammaliante. Segue un breve spazio promozionale per il buon Gyan in guitar solo, a mozione del suo disco.
Il concerto segue un andamento molto pop nelle durate e soddisfa in questo modo le attese di un pubblico pronto a battere le mani più volte nel corso della serata, interdetto com’è a partecipare in altro modo se non registrando l’evento. I tempi della musica minimale non possono proprio essere rilevati in un concerto del genere, dove il gusto per il frammento, per la proposizione semplice e non per il periodo, si impongono decisamente sulla forma musicale. C’è di meglio in giro da ascoltare, ma non gode dello stesso riscontro perché appunto di Terry Riley ce n’è solo uno. E fino a quando la musica sarà una questione di nomi, non la si ascolterà mai veramente. Ma va bene così: eravamo pur sempre a Casa Morra. (antonio mastrogiacomo)
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