Arriviamo, purtroppo, a concerto iniziato. Ascoltiamo in lontananza levarsi le note mentre percorriamo le scale che ci portano al palchetto. La porta si apre: ci consegna Leonardo Colafelice alle prese con l’esecuzione di Beethoven. Camicia nera sgargiante, anima la Sonata in mi bemolle maggiore op. 81 Lesadieux di Beethoven, il cui finale sembra non arrivare mai – come forse dovrebbe suonare un addio.
Confessa gli piaccia molto suonare musica destinata ai balletti. Lo farà due volte, questa sera – giovedì 30 novembre 2017. Quando diciamo balletto pensiamo subito alla Russia; e anche stasera non siamo smentiti. Secondo la marca gouldiana non trattiene il corpo dall’accompagnare l’esecuzione: la partecipazione emotiva si rende ben visibile nei tratti somatici, finanche con un leggero canto. L’incalzare di note su note che animano un motivo tra i più conosciuti – anche grazie all’impiego mediatico visuale sempre differente che ne è stato fatto – sostiene l’esecuzione della Suite da concerto da Lo Schiaccianoci di Cajkovskij trascritta da Pletnev.
In sala c’è davvero il rischio siano tutti più grandi di lui – finalmente il largo ai giovani nel posto che meritano. Non è così: qualche adolescente delle prime note e sbarbato studente universitario trova posto anche in platea. Purtroppo, l’adesione del pubblico non è da tutto esaurito: peccato, lo avrebbe meritato.
I silenzi che scandiscono i segmenti di Cajkovskij si colorano anch’essi di enfasi musicali ed è magnifico ammirare la sua assoluta concentrazione nella comunione con lo strumento. Tocco sempre energico, sa muoversi con disinvoltura nelle dinamiche, e arrivare al melodico è una conseguenza temporale che ben si coniuga alla sua duttilità: fraseggio carico di pathos, timbro forte e chiaro, potenza che diventa tratto esecutivo e non mera forza applicata alla tastiera. Il suo cantare data la condizione di flusso in cui è immerso risulta davvero profondo e significativo. Legge nella memoria spartiti che non esprimono più convenzioni grafiche ma efficaci direttive musicali. Dopo tanta musica ascoltata, raramente un po’ di sana musica archeologica.
Qualche volta, in un eccesso di foga, sporca un po’ un’esecuzione che sa farsi impeccabile nel ricamo tra le diverse parti. Pulirsi gli occhiali, gesto di estrema quotidianità, si carica di dolcezza meritevole dell’attenzione di un pubblico che non fiata: neanche un colpo di tosse! Riprende poi a sfilare le note nel tempo su una tastiera quanto mai ardente, stasera.
Sincero nel riconciliarsi con il pubblico nel lungo applauso che accompagna i suoi triplici inchini, nonostante la giovane età dimostra la maturità di un veterano. L’intervallo è illuminato dal fade-in delle luci in platea. Ci si alza per scambiarsi quattro chiacchiere, quattro: di quelle che sempre sostengono il decorso delle serate in società, in attesa di sfidare il freddo pungente che ormai condiziona le serate di dicembre. Resto sempre sul posto, durante l’intervallo.
L’impatto con Debussy riscrive il mio umore della serata. Finalmente ascolto Suite bergamasque, in una esecuzione che ho forse già dimenticato, ma ho vissuto profondamente nell’attimo dell’ascolto in cui mi ha radicato. Spiace solo che all’inizio delle scale modali, non ci sia proprio il silenzio totale, ma è pur vero che subito ci trasportano in un mondo sonoro fortemente evocativo, dalle linde suggestioni. Come suona diversa questa composizione rispetto a tutta la musica tedesca con cui solitamente si riempiono tanto le sale quanto i programmi. Grandissimo.
Il meglio, pare difficile a dirsi, doveva ancora arrivare. Una scheggia, anima il pianoforte con i russi di cui è prestigioso interprete, facendo cosa assai gradita a chi poche volte li può ascoltare! La prossima volta che vieni in città esegui Skrjabin? Devo ammettere che anche Trois mouvements de Pétrouchka di Igor Stravinskij è roba che scotta: devi essere un caspita di pianista se fai i tre movimenti di Petruska. C’è tutta la forza che bisogna. Le risonanze del pianoforte sono delle strisce di suono che penetrano lo spazio dandogli vita. Sul palco solo lui e un insetto che gli vola intorno, senza mai disturbarlo. L’energia che ha profuso spesa per la creazione del suono è tanta, traduzione di una grinta propria al più giovane docente nella storia dei conservatori italiani, con una cattedra di pianoforte principale per un classe ’95, che suona deciso a chi consegna ai giovani solo il futuro del calcio o dello sport in generale.
Così, lasciare il nero teatro Sannazzaro diventa un’elaborazione dell’attesa, al prossimo concerto. (antonio mastrogiacomo)
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