Un’enorme ragnatela di tessuto stretto a nido d’ape copre l’intera circonferenza sopra le teste di noi intervenuti alla santa messa per i cento anni dell’Associazione Scarlatti, presso la Basilica Palatina di San Francesco di Paola, lo scorso 17 novembre; occasione utile per celebrare anche il cinquantesimo articolo di questa rubrica – i luoghi della musica – laddove mancava ancora un contributo dedicato alla musica liturgica, e per fare il punto su questa nobile arte funzionale alla chiesa romana, soprattutto in considerazione delle indicazioni posteriori al Concilio Vaticano II che hanno aperto ai fedeli le porte del canto grazie a canzoni che, ricordiamolo, pur di avvicinare tutti sono arrivate a sostituire le parole del Padre nostro al testo di sound of silence, senza chiedere il consenso della signora Robinson.
Il canto gregoriano ha accompagnato il rito religioso cattolico fino al Concilio Vaticano II; un patrimonio di melodie modali, il cui ritmo segue l’accentuazione delle parole e diventato nel corso della storia musicale occidentale un modello di arte sacra al punto da essere completamente dimenticato, mentre l’incontro con i fedeli si realizzava sempre più attraverso la forma canzone da catechismo, vera antesignana della musica di consumo. Suggerito da una colomba a papa Gregorio secondo la vulgata, si fonda sulla centralità della parola nel rito a partire dalla sua intonazione. Lo sviluppo del monachesimo sarebbe corso parallelo alla fissazione dell’anno liturgico e, conseguentemente, della liturgia musicale della messa.
Ci sono gli abbonati, ci sono i turisti e ci sono pure io che scopro per la prima volta questa chiesa nell’esercizio della sua funzione quale palcoscenico della religione cattolica di rito romano: in scena la drammaturgia della transustanziazione. Fosse un teatro, parleremmo di un sold out; purtroppo sempre pochi i giovani richiamati dai fumi della fede mentre non mancano all’appello i ragazzi di ieri. Oltre alla liturgia della parola, sulle panche trovano riposo degli A4 in cartoncino piegati con il programma musicale da un lato, addirittura la partitura in tetracordo del Salve regina in notazione neumatica dall’altra, mentre la quarta di copertina riporta una citazione da Oliver Messiaen, compositore e organista francese il cui misticismo travalica i confini del sacro: “La musica commuove la nostra sensibilità, eccita la nostra immaginazione, aguzza la nostra intelligenza, ci permette di sorpassare i concetti, affrontare quello che sta al di sopra della ragione e dell’intuizione, cioè la fede”.
Il coro del laboratorio liturgico corale della Arcidiocesi di Napoli nella Basilica di S. Maria Maggiore alla Pietrasanta in collaborazione con il pontificio istituto di musica sacra di Roma viene guidato dal direttore Alessio D’Aniello, all’organo c’è Antonio Izzo. Dietro l’altare sono ben posizionati, mentre varie telecamere riprendono l’esecuzione. Oltre agli esecutori è la presenza del riverbero a imporsi all’attenzione definendo i tempi dell’ascolto: in altre parole, il vero esecutore di questa musica resta lo spazio, pur sempre a partire da una leva vocale. Fondamentale poi il rapporto costruito sul dialogo tra coro e celebrante De Gregorio, a proporre in altri termini le dimensioni di pastore e gregge. I suoni dell’organo raccolgono, come nella pesca a strascico, le voci dei tanti esecutori posizionati dietro l’altare quasi ad acusmatizzare la fonte, a mascherare la presenza del divino. Le letture del presidente e del direttore artistico, quali voci della stessa Associazione Scarlatti, anticipano il vangelo e la stessa omelia del celebrante, prima di un raffinato intreccio vocalico a partire dall’enunciazione dell’Alleluia.
La singolare omelia sviluppa un percorso musicologico applicato alla fede a partire dalla grandezza del canto gregoriano fino all’imporsi della scrittura come manifestazione di potere e all’arrivo della polifonia. Un’omelia da incorniciare per capire per quale motivo la stessa musica così grande un tempo sia oggi ridotta a canzonetta, pur passando per il tema dell’inafferrabilità del suono di matrice nietzschiana che, detta da un altare, fa la sua bella figura. (antonio mastrogiacomo)
Leave a Reply