Pubblichiamo un nuovo approfondimento che riprende le vicende da cui è tratto l’articolo pubblicato sulla rivista, per introdurre i temi che saranno in discussione a Milano.
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Il 12 luglio 2022 la Procura di Piacenza dispone l’applicazione degli arresti domiciliari per sei sindacalisti del SiCobas e dell’Unione sindacale di base (Ali Mohamed Arafat, Aldo Milani, Carlo Pallavicini e Bruno Scagnelli; Abed Issa Elmoursi e Roberto Montanari).
In un fascicolo di oltre trecento pagine vengono menzionati centinaia di capi d’imputazione associati a scioperi, picchetti, sabotaggi e blocco delle merci, ricostruiti attraverso le denunce delle aziende (direttamente interessate dalla radicalità delle attività sindacali) e dagli estratti di alcune intercettazioni. Ne emerge un debole teorema giudiziario, volto a criminalizzare la vivacità del sindacalismo di base attraverso l’imputazione di un disegno criminoso finalizzato all’associazione a delinquere. I sindacati, descritti come due bande in guerra tra loro per il tesseramento dei lavoratori, poco più di dieci giorni dopo sfilano insieme per le strade di Piacenza denunciando l’accanimento giudiziario a danno delle lotte dei lavoratori. Più tardi il Riesame di Bologna smonterà le accuse, evidenziando il fraintendimento tra associazione a delinquere e associazione sindacale della Procura di Piacenza.
Ma per comprendere meglio i binari su cui viaggiavano le accuse, è utile addentrarsi tra i fatti accaduti in alcuni degli stabilimenti che vengono menzionati all’interno dell’ordinanza ed evidenziare l’interpretazione che di questi fatti dà la Procura di Piacenza: una lettura condizionata da un approccio pregiudizievole, e basata per lo più sulle dichiarazioni e le denunce di una delle parti in causa.
LA VERTENZA TNT-FEDEX
Piacenza, 2011. L’hub è il più grande centro di smistamento Tnt in Italia, nonché secondo d’Europa.
A gestire il lavoro dei facchini e dei driver stranieri sono le cooperative con l’aiuto dei caporali. Gli uomini addetti all’adescamento della forza lavoro avevano un potere enorme, decidere le sorti degli immigrati provenienti dal Medio Oriente e dall’Africa, che accettavano un lavoro a cottimo per spedire qualche centinaia di euro alle famiglie rimaste al paese. Ma “anche gli italiani erano prigionieri di Tnt”, racconta Arafat, coordinatore provinciale del SiCobas a Piacenza. La triade confederale Cgil, Cisl e Uil è organica alle istituzioni statali e avalla le cooperative della logistica nelle grandi truffe retributive e contributive ai danni dei lavoratori assunti indirettamente dalle multinazionali. «Per poche centinaia di euro – testimonia Arafat – firmavano gli accordi tombali, seppellendo gli arretrati degli stipendi, della liquidazione e dei contributi dei lavoratori».
Con l’ingresso del SiCobas, il sistema delle cooperative viene attaccato, le società e le multinazionali vengono costrette a migliorare le condizioni di lavoro, ponendo fine ai contratti part-time e restituendo le differenze salariali dovute, pena gli scioperi fuori ai cancelli delle aziende.
La maggiore conflittualità nei magazzini piacentini della Tnt Italia (poi acquistata da FedEx) si raggiunge alla fine del 2018 e corrisponde a una tensione interna tra i lavoratori del SiCobas e quelli dell’Usb (fuoriusciti proprio dal SiCobas).
L’Usb, come si evince dagli atti, individua proprio la Tnt come l’azienda in cui provare a contrastare la rappresentatività del sindacato concorrente, e organizza alcune iniziative di lotta che secondo la procura sono esclusivamente motivate dalla volontà “di acquisire ulteriore consenso sindacale” e “consolidare le proprie posizioni”. Eppure, i blocchi più efficaci strutturati dall’Usb sono in difesa dei lavoratori sospesi e licenziati per motivi disciplinari o per inadempienze nella gestione dei permessi per malattia. All’inizio del novembre 2018 i blocchi davanti ai cancelli della Tnt di Piacenza mettono seriamente in difficoltà tanto l’azienda quanto la procura, che non può procedere con la contestazione del reato di blocco stradale, perché il picchettaggio avviene strategicamente all’interno dell’azienda, in prossimità dell’ingresso carraio, consentendo l’ingresso dei camion ma bloccandone l’uscita. Secondo gli atti, questa (logica) strategia palesa una “regia” e una “strumentalizzazione” dei lavoratori da parte degli indagati Zaghdane, Montanari e Issa, al solo fine di “prevalere sulla contrapposta sigla sindacale del SiCobas”.
Nel frattempo i SiCobas iniziano a comprendere cosa significa l’assorbimento della Tnt da parte degli americani: la fuoriuscita della FedEx da Fedit e il diniego a presenziare alle trattative sindacali è presagio di una serrata dei magazzini a Piacenza e a Peschiera Borromeo (Milano).
Arafat tenta invano di arginare la chiusura di Tnt-Piacenza, con un incontro tra le parti in sede prefettizia, dove FedEx si impegna a garantire la continuità degli investimenti sul sito. In realtà, quello che è già scritto è il trasferimento del lavoro in un mega hub, preferibilmente a costi contenuti, senza contemplare alcuna ipotesi di assunzione di operai abituati a rivendicare diritti. Senza che passi molto tempo dall’accordo in prefettura, Arafat viene arrestato e FedEx ottiene il via libera per trasferire i macchinari dal capannone, prima ancora che il Riesame di Bologna decreti la sua scarcerazione e quella degli altri sindacalisti arrestati.
Segue una lotta degli operai piacentini, durata circa un anno, per far emergere il sistema di sostituzione dei lavoratori sindacalizzati con quelli iscritti alle agenzie interinali. I piacentini scatenano scioperi di filiera a singhiozzo e presidi a sorpresa fuori ai cancelli di Tnt-Peschiera Borromeo, San Giuliano Milanese e Tavazzano. Questi ultimi due, a detta degli operai solidali del milanese, venivano ben circoscritti dai bodyguard perché utilizzati come magazzini “satellite”, dove confluiva la merce destinata anche alle filiali in sciopero, altrimenti parcheggiata per giorni. Le sedi di San Giuliano e Tavazzano non vengono mai riconosciute ufficialmente dalla dirigenza di Tnt, eppure sono state spesso il teatro di aggressione da parte di bodyguard privati a danno dei lavoratori licenziati e solidali, qualche volta finiti anche in ospedale. I lavoratori, quelli all’epoca assunti nei siti satellite, da alcune settimane si sono rivolti al SiCobas, a causa di un licenziamento collettivo che riguarderebbe un centinaio di operai. Hanno dovuto constatare sulla loro pelle la politica aziendale, ammettendo di aver lavorato merce FedEx per aggirare i danni degli scioperi. I piacentini, diversamente, in parte hanno ottenuto dei ricollocamenti negli hub di Bologna e Novara, in parte hanno accettato un incentivo all’esodo.
LA POSTA IN GIOCO
La rivoluzione di FedEx ha uno scopo preciso, non è un caso che abbia spostato l’asse della produzione e del trasporto merci sul nuovo snodo logistico, Novara, a pochi passi dai cancelli di Amazon. FedEx protende al modello di lavoro Amazon e inizia con l’eliminazione dei lavoratori organizzati nei sindacati.
Alcuni mesi fa il SiCobas, in aperta opposizione al modello di lavoro a chiamata e all’utilizzo delle agenzie interinali, aveva ottenuto importanti vittorie in merito ad alcuni accordi con l’associazione datoriale Fedit. Tra queste, in prim’ordine, l’assunzione in organico di nuovi lavoratori a tempo indeterminato allo scadere dei diciotto mesi di lavoro prestato, anche non continuativi, tramite agenzie esterne. Al contrario, fonti del sindacato riferiscono la comunicazione di un ultimatum Fedit, per cui le aziende si riservano di chiudere le porte ai sindacati minoritari per numero di iscrizioni, concedendo la stipula di accordi di secondo livello e sul rinnovo dei contratti collettivi solo ai sindacati più rappresentativi.
La costruzione del teorema giudiziario del luglio 2022 messo in piedi dalla Procura di Piacenza, fa emergere un accanimento repressivo contro due note figure del sindacalismo di base, a cui è dedicato un intero capitolo scisso dalle attività sindacali e che riguarda specificatamente le attività patrimoniali di uno degli imputati e quella più generale dell’organizzazione SiCobas. Ad Ali Mohamed Arafat viene mossa l’accusa di aver estorto un buonuscita di centomila euro dal magazzino Leroy Merlin; per Aldo Milani, coordinatore nazionale del sindacato, già in passato, veniva disposto l’arresto per estorsione ai danni dell’azienda delle carni Levoni, nel modenese. La sentenza del Tribunale di Modena ha assolto quest’ultimo per non aver commesso il fatto.
Per fare chiarezza sulle due vicende e comprendere l’utilizzo della diffamazione come tentativo per indurre la sfiducia degli iscritti verso due personalità di spicco del SiCobas, c’è bisogno di una descrizione degli antefatti delle vertenze su cui l’impianto repressivo ha ricamato le accuse.
LEROY MERLIN
Le agitazioni all’interno dello stabilimento piacentino dell’azienda che si occupa di bricolage, fai-da-te e arredi cominciano a interessare la procura a partire dall’ottobre 2018. Oggetto della vertenza è il mancato rinnovo del contratto per centodiciotto lavoratori aderenti al SiCobas, dipendenti dei servizi logistici dell’appaltatore Ucsa. La vertenza si conclude con un accordo piuttosto soddisfacente per il sindacato, con il riconoscimento di incentivi economici e decine di esodi volontari per i lavoratori.
Un ruolo chiave nei processi conflittuali dei facchini di Leroy Merlin lo assume Arafat, uno dei più combattivi delegati del SiCobas, coordinatore dell’area di Piacenza, descritto come una specie di mostro dai datori di lavoro, a cui la procura prova a fare le pulci cercando elementi che ne provino la corruttibilità e la capacità di utilizzare i lavoratori per interessi personali, anche economici (il Riesame smonterà totalmente questo teorema).
Nel mese di dicembre la tensione tra il SiCobas e l’Usb raggiunge livelli altissimi a causa del caso El Battawi, lavoratore iscritto al SiCobas, licenziato dall’azienda perché indagato per terrorismo, che riesce a farsi riassumere dopo essere passato con l’Usb. È un bel colpo per l’Usb, che lo rivendica all’interno dello stabilimento e contemporaneamente prova a guadagnare ulteriore terreno attraverso una serie di iniziative di lotta sul tema della sicurezza sul lavoro. La procura presenta queste iniziative come una “strumentalizzazione” da parte dell’Usb, evidenziando come dal canto loro Arafat e il SiCobas mettano in atto altre iniziative, anche sulla spinta delle pressioni dei lavoratori (scontenti del fatto che quando i loro colleghi dell’Usb protestano, tutto il lavoro si accumuli sulle loro spalle).
Il SiCobas rilancia così la lotta, ma a una lettura onesta degli atti si può notare come le azioni non arrivino soltanto in risposta all’accelerazione del sindacato rivale, ma per questioni concrete e delicate, come la richiesta di alcuni contratti a tempo indeterminato e degli inquadramenti del livello di alcuni lavoratori (dicembre 2018). Tuttavia, ciò che interessa alla procura è solamente la dinamica conflittuale tra i due sindacati e le campagne di discredito che i lavoratori e i delegati mettono in atto gli uni contro gli altri, decontestualizzate da ciò che fa da contorno a queste.
Nella descrizione delle lotte in Leroy Merlin, l’ordinanza si sofferma poi sui presunti reati legati alla situazione patrimoniale di Arafat (e della sua compagna, non indagata). I riflettori si accendono sui processi di conciliazione con l’azienda che alcuni lavoratori, pur essendo legati all’Usb, chiedono ad Arafat di portare avanti. Come è naturale, su queste conciliazioni il sindacato prende una percentuale per il lavoro legale e burocratico che svolge (nel caso specifico il 3%), soldi che il SiCobas sceglie di utilizzare per coprire le spese legali dei lavoratori – spesso soggetti a denunce e processi per le loro proteste – e per alcune spese come quelle legate al trasporto e ai bus noleggiati per manifestazioni e assemblee. «Nel fascicolo – spiega Arafat – si descrivono come esagerate le spese di trasporto. Ma i pullman costano! Se noi prendiamo un pullman per andare a Roma da duemila euro, e tra un’iniziativa e l’altra ne prendiamo duecento, la cifra mi pare sia già parecchio grossa. Sulle conciliazioni poi, che la Procura descrive come una pratica estorsiva nei confronti delle aziende, non dimentichiamoci che queste vengono fatte spesso nell’interesse delle multinazionali che vogliono eliminare i lavoratori che costano di più, e metterne dei nuovi che costano di meno. Nel caso di Leroy Merlin si volevano eliminare settanta persone. Se si fa un conto dei soldi spesi in bonus per i lavoratori e di quelli risparmiati sui loro stipendi, è l’azienda che fa l’affare. Ed è ovvio che le cifre siano più alte nel caso di delegati sindacali, che l’azienda ha maggior interesse a mandar via perché rompono le scatole».
LEVONI
Il processo al sindacalismo piacentino, e quello dove era direttamene coinvolto Milani a Modena, sono caratterizzati da una similarità che emerge soprattutto nelle ipotesi di reato mirate a screditare le due figure su un piano morale di fronte alla platea degli iscritti, in assenza di un registro di prove legato a fatti e illeciti di natura patrimoniale e a danno dei lavoratori.
I lavoratori del comparto macellazione carni di Modena nel 2015 sono in agitazione sindacale e si danno da fare per promuovere una lotta radicale fuori ai cancelli degli stabilimenti Alcar Uno, Global Carni e Bellentani. In questi stabilimenti i regimi di lavoro e la corsa alla produzione non consentono un riposo adeguato e una lavorazione in sicurezza. Si susseguono gli incidenti, spesso gravi come quello ai danni di Sebastiano Dugo (all’epoca diciannovenne) che viene infilzato alla schiena dopo la caduta di un macchinario di aggancio prosciutti. Come se non bastasse, le cooperative in appalto non utilizzano i contratti collettivi degli alimentaristi, ma quelli del trasporto merci e logistica, dunque non rispettano i minimi delle tabelle retributive e pagano le ore di straordinario a titolo di trasferta, una voce retributiva su cui non è prevista la normale contribuzione.
Nel mese di novembre 2016, un’operazione di cambio appalto mette a rischio più di cento posti di lavoro in Alcar Uno e Global Carni, poiché la scelta degli operai da assumere viene affidata a una agenzia interinale (Trankwalter, celebre per essere stata sull’orlo di un crack finanziario poco prima dei fatti). Mentre la dirigenza sindacale denuncia la volontà del committente di fare fuori gli iscritti SiCobas, diventato maggioritario negli stabilimenti, gli operai adotteranno diverse forme di picchettaggio subendo una violenta repressione, fatta di intimidazioni e minacce individuali, poi cariche della polizia e lacrimogeni per sgomberare i cancelli. Dopo qualche settimana cinquantacinque lavoratori non vengono ricollocati e il sindacato accerta che la cooperativa uscente, Alba Service, aveva evaso tre mensilità di contribuzione, dunque ai cinquantacinque non è dato neanche accedere al sussidio di disoccupazione.
Seguono una sfilza di cause di lavoro per gli arretrati, per cui il SiCobas fa riferimento all’azienda madre, quindi citando Levoni a versare centomila euro sottratti dalla cooperativa uscente ai lavoratori. Ma i fratelli delle carni sono ostili a concedere una trattativa ai sindacalisti di Modena a causa dell’accesa conflittualità ai cancelli. In causa è chiamato anche Danilo Piccinini, arrestato in concorso con Aldo Milani, che poco prima concorreva con altri due fornitori per l’ottenimento di un appalto da Levoni. Piccinini aveva chiesto qualche tempo prima ad alcuni delegati del SiCobas di fare pressioni con l’azienda affinché venisse favorito per entrare, promettendo in cambio l’assunzione di tutti i lavoratori licenziati. Lo scambio di comunicazioni tra questa figura e il sindacato termina però ben presto, poiché i Cobas riferiscono di non avere mai ottenuto un incontro con Levoni. Eppure, nel fascicolo dedicato al processo modenese, alla tesi accusatoria sulla presunta estorsione si intreccia “lo sviluppo della trattativa sindacale”, nonostante la sola trattativa esistente si sia svolta con la Ballentani per l’accordo sull’applicazione del contratto alimentaristi.
Successivametne, Piccinini otterrà in effetti un appalto Levoni, in un’altra città, e da quel momento comincia a fare pressioni per riunire al tavolo con il colosso delle carni direttamente Aldo Milani, intascandosi tra le altre cose diecimila euro per una consulenza. La “trappola”, uscita su tutti i giornali il 26 gennaio del 2017, sembra quindi una risposta all’operatività sindacale su un territorio dove il tessuto politico è strettamente connesso alle aziende e alle organizzazioni criminali: Milani viene accusato di aver ottenuto diecimila euro come anticipo di un’estorsione di novantamila euro, il prezzo di una pace sociale fuori agli stabilimenti, in alternativa al favoreggiamento di appalti e consorzi di propria conoscenza. «C’è poi il sospetto che altri imprenditori siano stati vittime di questo sistema estorsivo, chiediamo loro di farsi avanti», dichiara Lucia Musti, capo procuratrice di Modena.
In realtà Milani sbugiarderà poi i fratelli Levoni, evidenziando la loro indisposizione a garantire la continuità del lavoro nella Global Carni come fatto in Alcar Uno. L’azienda aveva infatti spostato il reparto scarnificazione-carni in Spagna, giustificando i cinquantacinque licenziamenti, e così dimezzando in un solo colpo la forza sindacale costruita con le relazioni tra gli operai dei due impianti. «Nel dispositivo della mia denuncia si sostiene che io manderei in giro degli agitatori a fare gli scioperi per chiedere successivamente la parte economica. Questa è la loro tesi, dimostrare che lo sciopero è un’estorsione. In realtà, mettono in discussione la lotta per il salario e per i diritti». (alessandra mincone)
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