Un giudice coraggioso ha finalmente reso giustizia al giovane soldato siciliano Emanuele Scieri, morto di bullismo in caserma quasi vent’anni fa. Commilitoni e superiori hanno risposto con l’omertà al dolore della famiglia e alle domande del magistrato. Ma questi non s’è scoraggiato: ha continuato le indagini, incurante di tutto, conscio del proprio dovere nei confronti della giovane vittima e della nazione che entrambi – il giudice solitario e il ragazzo ammazzato – servivano onestamente. Al giudice Alessandro Crini va il nostro ringraziamento di cittadini; alla famiglia di Emanuele, e agli amici che non l’hanno scordato, un abbraccio fraterno. L’Italia, in uomini come questi, vive ancora.
Per onorarli, e anche per legittimo orgoglio, riproponiamo uno degli articoli con cui abbiamo cercato di tener vivo il caso in questi tanti anni.
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da: La Catena di San Libero, 7 ottobre 2002 / n.147
Soldati. Esattamente un anno fa è stato definitivamente archiviato il caso di Emanuele Scieri, il giovane paracadutista siciliano morto in circostanze misteriose in caserma, forse per nonnismo. Il giudice ha espresso il suo rammarico per non aver potuto scoprire la verità: «Non credo che la morte di Scieri sia accidentale». L’inchiesta, ha aggiunto il magistrato, è stata fermata da “oggettive carenze investigative che non ci consentono di pronunciarci in un modo o nell’altro”. Fra i commilitoni di Scieri l’omertà è stata praticamente totale. È una “piccola” storia, che i giornali hanno dimenticato da tempo. Noi invece abbiamo il dovere di ricordare.
È auspicabile che le operazioni cui dovranno partecipare le forze armate italiane abbiano sempre un carattere di polizia coloniale e non di vera e propria guerra fra eserciti pari, e che le nostre forze armate debbano affrontare limitate resistenze locali e non offensive e controffensive su vasta scala. È auspicabile anche (e soprattutto) che tutte queste operazioni si svolgano sempre in paesi lontani, con l’integrità del paese non direttamente correlata al successo delle operazioni militari.
Tutto ciò auspicato, c’è da dire che si tratta di auspici molto fragili. Non è affatto da escludere che prima o poi una guerra convenzionale possa scoppiare anche nella nostra parte di mondo. E in questo caso alle nostre forze armate verrebbe richieste non l’azione brillante e “professionale” a cui sono orientate oggi ma la guerra di fango e logoramento contro un nemico più o meno pari. La guerra vera, insomma.
Sono le nostre forze armate preparate oggi ad affrontare una situazione del genere? Sull’aspetto tecnico non mi pronuncio. Su quello psicologico ho i miei dubbi. Gli episodi di indisciplina, spesso ai danni di civili, fra le truppe italiane all’estero non sono stati pochi in questi anni. Somalia, Mozambico, Macedonia – tanti piccoli casi limitati e “individuali”, spesso legati al tempo libero dei militari, che nel compresso dimostrano però una cosa precisa: nell’esercito italiano, in un certo numero di situazioni, c’è uno scarso controllo della truppa da parte degli ufficiali. Nelle “operazioni di polizia” ciò non ha importanza. In una guerra vera metterebbe in pericolo il paese.
L’esercito italiano non ha mai brillato per la qualità dei generali (vedi l’8 settembre), ma può vantare episodi di tenuta saldissima da parte della truppa. Gli alpini nella ritirata di Russia, i fanti di Cefalonia, i granatieri a Porta San Paolo, sono tutti esempi di questa tenuta: in condizioni disperate, malissimo armati, con le comunicazioni e la catena di comando in pezzi, i nostri militari sono rimasti aggregati, hanno costituito centri di resistenza e hanno tenuto duro. Questo spirito di resistenza individuale è stato tipico (insieme al ribrezzo per le atrocità) del soldato italiano; e possiamo esserne orgogliosi, almeno per il passato.
Quanto alla Folgore, che adesso è un corpo – come si dice – d’élite e molto propagandato, non era affatto d’élite quand’era la Folgore vera. La Folgore, nel ‘42, era un reparto arruolato in fretta (mio padre, sorridendo: «Qualcuno veniva dai riformatori»), addestrato alla meglio e spedito nel deserto senza armi pesanti, teoricamente come paracadutisti ma in pratica come fanteria. Laggiù, questi ragazzi non fecero molti alzabandiera, grida di «Folgore!» e scenografia truculenta (quella si fa in tempo di pace, al sicuro). Fecero quel che ha sempre fatto tutta la buona fanteria di questo mondo, e cioè si schierarono sulle posizioni assegnate e si prepararono a difenderla con i mezzi che avevano. In particolare, mancando quasi del tutto i cannoni anticarro, usarono bottiglie molotov per contenere gli attacchi dei corazzati nemici. Ad Alamein si sacrificarono fin quasi all’ultimo, senza tante parole e senza eroiche canzoni. Furono comandati di tenere una posizione espostissima, mandati consapevolmente come carne da cannone (il comando tedesco di solito affidava questo ruolo alla fanteria italiana) ad assorbire per qualche tempo l’attacco dell’avversario; e non solo lo contennero ma addirittura, nel loro settore, lo respinsero del tutto, anche se alla fine solo un velo di uomini vivi difendeva ancora la linea italiana. Churchill, alla Camera dei Comuni, rese omaggio al loro valore.
La Folgore di oggi è un’altra cosa. Si è parlato di scioglierla, in passato, a seguito di vari episodi. Io non vorrei affatto che fosse sciolta. Vorrei semplicemente che le fosse cambiato il nome, per rispetto alla Folgore vera. Non per le torture in Somalia o quell’imbecille libretto del colonnello: quelle sono cose cui si poteva ovviare con una buona pulizia (che non è stata fatta). Ma proprio per la storia di Scieri. In guerra, il primo comandamento di un soldato è di non lasciar mai abbandonato un compagno ferito. Ma in quella caserma, Emanuele Scieri ha agonizzato da solo. (riccardo orioles)
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