Qualche giorno fa ci ha lasciato Renato Barisani, classe 1918, pittore e scultore. Tempo fa, dopo aver visto per strada alcune nostre opere, aveva voluto incontrarci. Gli abbiamo fatto visita nel suo studio poco lontano dal bosco di Capodimonte, in quel che resta di una campagna napoletana ormai satura di metrocubature, carenti anche solo della velleità del bello. Ci ha accolti con la curiosità tipica di quelle persone, ormai rare, che non si stancano di conoscere quanto ancora non sanno. Ci ha raccontato le sue esperienze senza rinunciare all’ascolto delle nostre che, a ben vedere, non sono poi così diverse. Ciascuno con le proprie ossessive ricerche, inutili e per questo giuste. Ci ha mostrato i lavori in corso — che per un pittore sono sempre i migliori — parlandone con l’entusiasmo di un ragazzino.
Ci ha dato consigli e fatto complimenti, ci ha raccontato la città attraverso il suo sguardo. Ci ha mostrato, sottopelle, l’orgoglio dell’autonomia, del lavoro sistematico, dello stare dinanzi al già pieno di una tela vuota. Questi incontri tra diverse generazioni di persone che condividono un mestiere, prima ancora che una passione, dovrebbero essere sistematizzati. Anche di questo si dovrebbe occupare la politica culturale di una città. Soprattutto per evitare che, senza il travaso di esperienze, si ricostruisca sempre tutto ogni volta daccapo, affinché non cambi nulla. Per esempio, ieri, abbiamo saputo che la casa di Guido Tatafiore (che insieme a Barisani e De Fusco fu fondatore, nel ’50, del Movimento Arte Concreta) sta per essere o è stata appena venduta. La premura di un caro amico ha voluto che prima di essere liberata di tutto il suo contenuto potessimo, un’ultima volta, averne una visione d’insieme. Ci ha scortato e dolcemente inzuppato di ricordi uno dei figli dell’artista, che di mestiere fa il restauratore e di conseguenza, o viceversa, ha presenza e movenze incredibilmente delicate.
Con voce pacata ci ha raccontato in ordine più emotivo che cronologico le avventure del padre, partendo dai lavori inchiodati alle pareti, ma anche dalle chitarre che Guido, musicista dalla giacca rossa, inserì anche in molti disegni, e dalla mobilia, anche questa disegnata dal padre con lo stesso spirito sobrio e geometrico delle sue più compiute opere astratte. La casa risulta essere un neanche tanto piccolo museo che contiene brandelli di opera di uno dei più grandi pittori che la nostra città abbia avuto nel Novecento.
Il corridoio che prelude alle stanze è tappezzato di quadri, da quelli del tempo dell’Accademia, in piena epoca fascista, agli ultimi dello scadere dei Settanta. Nature morte che raccontano la migrazione interiore dalla figurazione all’arte concreta, lavori dove la sensazione di un imminente cambiamento è tangibile. E poi incisioni, disegni dal segno immediato, sintetici nella narrazione più che di storie di gesta, di gesti. Bassorilievi di legno dipinto, caratteri di legno che sporgono ammicanti dal supporto piano. Dopo la mostra organizzata dall’Accademia di Belle Arti nello scorso inverno quando un ragazzo, appena navigato alla pittura, potrà rivedere quest’opera, intera, nel suo farsi? E quella di Barisani? E i De Stefano e i Persico? L’ultima antologica dedicata a Raffele Lippi risale al 2004, e i Ruotolo? Questo ipotetico giovane pittore dovrà accontentarsi di qualche sparuta opera della collezione di Capodimonte, qualcosina a Sant’Elmo, nella Galleria dell’Accademia e poi?
Come entrare in relazione con le generazioni passate? Tanti artisti napoletani — percepiti sempre con un certo fastidio da istituzioni in cerca più di consenso e glamour che di valorizzare quanto questa terra ha prodotto — hanno preteso, al tempo della retorica rinascimentale bassoliniana, maggiore attenzione e visibilità ottenendo in fin dei conti, tra non poche polemiche e a rinascimento già sbriciolato, il Museo del Novecento. Il suo limite è che resta un museo, ossia un luogo preposto all’archiviazione e alla conservazione, quasi un’imbalsamazione del passato. Per non mortificare (alla lettera) la fertilità del già citato ipotetico giovane pittore forse la cosa migliore dovrebbe essere creare, nei luoghi di cui la città già dispone, occasioni d’incontro confronto e scontro tra generazioni. Farlo con continuità e lungimiranza lasciando convergere, come raggi in una lente d’ingrandimento, le ricchezze di un patrimonio umano altrimenti destinato all’abbrutimento. Ché il seme si pianta ora, il frutto potrebbe vedere la luce oltre le brevi intermittenze delle scadenze elettorali. Proposte forse già fatte, ma mai ascoltate. (cyop&kaf)
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