Sarà presentato lunedì 23, a Napoli, La libertà è un organismo vivente, ultimo libro di Beppe Battaglia. Il libro racconta la storia di una comunità di detenuti politici che, esauritasi l’esperienza della lotta armata, alla fine degli anni Ottanta avvia un processo di liberazione dal carcere e di ritorno alla vita sociale, attraverso una progettazione autodeterminata negli spazi consentiti dalla legge penitenziaria, tra il carcere di Avellino e un bosco nel comune di Tufo.
Del libro si discuterà a Santa Fede Liberata, a partire dalle 18:00. Con l’autore interverranno Dario Stefano Dell’Aquila, Luigi Romano e Nicola Valentino.
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La parola libertà compare nei tre i titoli dei libri che Beppe Battaglia ha pubblicato per Sensibili alle foglie, forse perché l’attesa della libertà è stata il dispositivo centrale della sua vita da detenuto, oppure perché nella sua militanza come volontario in carcere ha cercato di sostenere processi di liberazione per le persone detenute, o ancora, più probabilmente, perché la sente come necessità irrinunciabile per l’essere umano.
Il primo libro, Le tre libertà, racconta la differenza sostanziale fra tre forme di liberazione dal carcere: la libertà conquistata fa riferimento al sapere collettivo necessario per un piano di evasione; la seconda forma di libertà, quella comprata, fa riferimento al momento in cui una persona reclusa collabora con l’istituzione carceraria o giudiziaria scambiando una via d’uscita con la vita altrui; la terza è la libertà che arriva per concessione istituzionale.
Ne La libertà ha le ali, il suo secondo libro, Beppe racconta della sua attività di volontario, che ha consentito a un gruppo di detenuti di scontare qualche giorno in meno di carcere per lavorare alla costruzione di un aereo a due posti completamente in legno.
La libertà è un organismo vivente intende invece la libertà come creazione di forme di liberazione dalla detenzione attraverso ciò che le leggi consentono. Una libertà che intercetta l’idea di solidarietà, spesso intesa a senso unico, ma che la supera, promuovendo una liberazione dalle mura per i detenuti che parteciperanno al progetto, ma anche e soprattutto una liberazione, per ognuno di loro, dal proprio carcere interno. In maniera orizzontale, senza un vertice, senza centri di potere, superando la politica, incentrandosi sulla reciprocità.
Questo organismo vivente della liberazione nasce a metà degli anni Ottanta a Bellizzi Irpino, in provincia di Avellino, quando un gruppo di detenuti politici avvia un progetto di lavoro sociale dentro un carcere nuovo di zecca, con tutti gli spazi necessari per poter renderlo possibile senza aiuti economici o scambi di favori (la libertà comprata). L’esperienza può essere avviata, provocando i primi respiri di libertà. Dal ricavato delle vendite dei manufatti prodotti, il gruppo genera una relazione a distanza con comunità in Brasile e in Perù, un mutuo aiuto tra gli ultimi della terra: “Il paradigma era semplice: se gli ultimi della Terra, non importa a quali latitudini e in quali forme si connoti lo stato di bisogno, mutuano le loro risorse, è possibile praticare territori di liberazione. Fin da subito abbiamo voluto esplicitamente sgombrare il campo da una possibile ambiguità: la nostra iniziativa non era di ordine filantropico! Anche noi eravamo in una condizione di bisogno dalla quale intendevamo liberarci […]. Si trattava, in fondo, di un’adozione reciproca fra ultimi della Terra”.
Ma il tempo in carcere non ha la stessa dimensione di chi lo vive all’esterno delle mura, e la libertà ha un peso differente da chi la cerca sfidando ostacoli quotidiani. Il desiderio di accelerare il processo di liberazione diventa sempre più forte, e il solo lavoro di pelletteria insufficiente a soddisfare questa esigenza. Un elemento necessario è la socializzazione del percorso, far conoscere ciò che sta accadendo a Bellizzi Irpino. Così la liberazione prende la forma di un convegno, organizzato non per raccontare desideri e buone intenzioni, ma per mostrare un fatto compiuto. Vi partecipano quasi duemila persone.
“Se quel convegno dette coraggio ad alcuni dei presenti, altri ne ebbero paura. Al Ministero della giustizia, per esempio, generò scompiglio. Il direttore generale delle carceri Nicolò Amato si precipitò a Bellizzi Irpino e, come era solito fare, mandò via tutti e rimase da solo con noi nei locali del laboratorio, per comunicarci con candore una sua decisione: «Voi avete il torto, che nessuno vi perdonerà mai, di aver realizzato un progetto che alimenta l’idea della libertà. Il carcere invece deve fare paura! Vi credevamo socialmente morti e invece, con questo convegno e questi laboratori, avete dimostrato di essere più vivi che mai. Non c’è più ragione di tenervi in carcere. Via via che si avranno le condizioni tecniche andrete tutti a casa. Nessun altro detenuto però sarà autorizzato ad aderire a questa associazione». […] Il rischio era grande per tutti. Ma per noi si trattava di vita o di morte, di libertà o di carcere”.
È più o meno così che nell’Irpinia terremotata ha preso vita un processo di restituzione e di liberazione: un pezzo di bosco e un capannone abbandonato messi a disposizione di un gruppo di detenuti, che avevano un unico e chiaro scopo, produrre liberazione. “Detenuti, uomini, donne, bambini, persone anziane dalla comunità di Tufo – racconta Battaglia – sono andati oltre la semplice relazione d’aiuto, mettendo in gioco ciascuno le proprie possibilità, operando in nome e per conto della libertà come un organismo vivente che soffoca e gioisce inchinandosi alla bellezza!”.
La libertà era stata conquistata. Il bosco e le relazioni riportano a ricordi lontani, a una vita fuori dal perimetro dell’istituzione, a una vita senza sbarre, senza relazioni disumanizzanti, generando libertà attraverso il superamento della mortificazione quotidiana a cui inevitabilmente ci si abitua. La misura alternativa, però, crea allo stesso tempo nei partecipanti al gruppo anche una nuova dimensione di uomo semi-libero, che in qualche modo deve diventare il secondino di se stesso, tenendo sempre a mente che la sera dovrà tornare dentro le mura di cinta, rispettando orari e regole, pur respirando aria di libertà: “Avevamo imparato nei lunghi anni di prigionia che quando il recluso è solo nel rapporto con l’istituzione è sottoposto al suo arbitrio. Solo la dimensione collettiva può rendere possibile un percorso di liberazione proteggendo ogni millimetro del suo avanzamento”.
Il giorno di San Valentino del 1991 finisce l’odissea carceraria di Beppe Battaglia (la libertà per concessione istituzionale), che già aveva iniziato un percorso di volontariato in una comunità per tossicodipendenti. Il carcere non l’ha mai lasciato del tutto, ed è tuttora volontario presso l’istituto a custodia attenuata di Solliccianino. Di carcere continua a parlare e scrivere – anche se i suoi libri hanno la parola libertà nei propri titoli – e per la totale abolizione del carcere continua a lottare. (sara manzoli)
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