Ogni anno, con l’arrivo dell’estate, si moltiplicano le segnalazioni e le denunce sulle condizioni estreme in cui vivono i detenuti nelle carceri italiane, condizioni legate al sovraffollamento, alla gestione segregante degli spazi, alla mancanza di attività di socializzazione, all’assenza cronica di educatori, psicologi, medici, tutte figure assai più carenti rispetto ai tanto invocati agenti della penitenziaria, che sindacati e istituzioni millantano essere “sotto organico”.
Due lettere, nelle ultime settimane, hanno avuto la forza di incrinare il muro di indifferenza su cui di norma sbattono questo genere di denunce, lettere scritte dai detenuti di due carceri tra i più abominevoli del nostro paese: quello di Regina Coeli a Roma e quello di Canton Mombello a Brescia. Sono assai diverse tra loro, sebbene condividano una impietosa descrizione della vita in carcere in Italia. La prima apre ad alcune riflessioni più complessive sull’inutilità e la brutalità delle prigioni; la seconda si rivolge al mondo della politica concentrandosi sulla folle assenza di diritti elementari chiedendone il rispetto. Abbiamo scelto di farle dialogare, con l’obiettivo di mostrare che ciò che raccontano i detenuti, anche partendo da punti di vista e con obiettivi molto differenti non è una tragica eccezione, ma la norma in questo genere di istituzione, un dato di fatto inaccettabile per una civiltà che si dichiara attenta e sensibile al tema dei diritti civili individuali e collettivi.
Non esiste altra via, nel rispetto universale di questi diritti, che lo svuotamento massiccio e immediato delle carceri attraverso la depenalizzazione dei reati connessi alla tossicodipendenza, alle sofferenze psichiche, alle diaspore migratorie; attraverso l’estensione delle pene alternative alla detenzione a tutti quei detenuti che hanno da scontare pene residue basse e a quelli che hanno commesso reati predatori direttamente legati a una condizione sociale ed economica di deprivazione. Tirar fuori da questi mostri l’enorme quantità di popolazione che in galera non dovrebbe nemmeno entrarci è condizione indispensabile per l’apertura di percorsi sociali e politici di massa, che abbiano l’obiettivo di dichiarare senza ipocrisie la reale funzione del carcere oggi, contenitore di povertà, emarginazione, esclusione, al fine di una sua ineluttabile e definitiva eliminazione.
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Detenuti di Canton Mombello: Il sovraffollamento in un carcere causa tutto questo, o meglio, in tutte le carceri di questo paese, non puoi aspettarti altro. E così, come soffriamo noi, allo stesso modo soffrono gli operatori che ci devono assistere, dagli agenti per la sicurezza al personale sanitario. E che dire di quelle migliaia di persone che in carcere ci sono finite, ma nulla avevano fatto per meritarlo? Tutte persone incrinate, inevitabilmente, irreparabilmente; una tristezza desolante e sconfinata, per i rei e non.
Detenuti liberi di Regina Coeli: Quello che vi chiediamo è di aiutarci, di rendere trasparenti questi muri, mostrando alla gente i crimini commessi da uno stato che, ipocrita, pretende il rispetto delle leggi che esso stesso vìola sistematicamente restando però impunito. Vorremmo che tutti e tutte riuscissero a capire che non c’è nulla di rieducativo nel carcere. Vorremmo che si superasse la solita narrazione della prigione che garantisce la sicurezza dei cittadini. È falso. Il carcere è criminale, criminoso e criminogeno.
CM: In quindici e un solo bagno, un vero e proprio stabilimento balneare per germi e batteri; per loro è la condizione migliore, una festa, per noi forse un po’ meno. Questa combinazione è il cocktail perfetto per far insorgere discussioni, litigi e tutto quanto di brutto può conseguirne. Oltretutto il cesso è una vecchia turca fatiscente con sopra un tubo dell’acqua per farsi la doccia, che d’estate scotta dannatamente, e d’inverno è maledettamente fredda. A pochi centimetri, sempre nel bagno, cuciniamo i nostri pasti. Se è vero che quando tiri lo sciacquone le feci nebulizzate schizzano fino a due metri, allora cosa stiamo mangiando da anni? In fondo, però, è notevolmente migliore della sbobba che ci servono dal carrello.
RC: Oggi in Italia vivono migliaia di persone (uomini, donne, ragazzini, perfino neonati con le loro mamme) chiuse come le bestie, in celle piccolissime nelle quali si boccheggia, buttate su brande di ferro con un foglio di gommapiuma lercia come materasso. Vivono chiuse senza servizi igienici adeguati, senza una doccia, senza un luogo sano nel quale cucinare. Quando vedete le immagini in televisione della solita rivolta o dell’ennesimo suicidio, dovete sapere che di carcere si soffre fino a diventare pazzi, di carcere ci si ammala, di carcere si muore. Fuori si vive un’immagine che, per quanto negativa, non riuscirà mai a rappresentare l’oscenità del carcere.
CM: In quindici è pressoché impossibile permanere in piedi in cella, figuriamoci seduti tutti al piccolo tavolino per mangiare, quindi facciamo a turno. Nei turni, con noi, si accodano cimici, scarafaggi e altre bestiacce, che non ne vogliono sapere di rispettare la fila. Ben pensandoci, più che mancanza d’intimità, non stiamo forse parlando di una vera e propria violenza? Violentati, intimamente, mentalmente, moralmente, proprio in linea con l’articolo 27 della Costituzione. Di persone non auto sufficienti in questo istituto ce ne sono parecchie, si va dalle malattie psichiatriche più accentuate alla tossicodipendenza, e come visto sopra, alle malattie senili. […] Un anziano di circa settantaquattro anni ha il mio stesso problema: purtroppo per lui, e per noi, non fa in tempo a dire che gli occorre con urgenza il bagno. Ha una scarica di dissenteria, mentre dimenandosi cerca di alzarsi a fatica dalla branda con il materasso vecchissimo in gomma piuma. In un attimo, lenzuola e materasso s’impregnano di liquame e urina, lui non sa come comportarsi, indifeso, imbarazzato, umiliato, impietrito, attonito. Piange, un uomo di settantaquattro anni, i capelli radi e canuti, piange e si scusa, geme, si lamenta, impreca, bestemmia, chiede a Dio di morire.
RC: Qui a Regina Coeli abbiamo quasi raggiunto mille e duecento detenuti (a fronte di seicento ottanta posti ufficiali). Col sovraffollamento è saltato tutto: le educatrici non si vedono più, molte attività sono sospese, l’area sanitaria è totalmente inadeguata, con mesi di attesa per una visita. Anche la magistratura di sorveglianza è intasata al punto che non vengono nemmeno concessi i benefici di legge. […] Tra noi c’è chi reagisce con forza, sbatte sulla porta, cerca di uscire almeno nel corridoio. Chi invece si lascia andare e decide di imbottirsi di psicofarmaci, dormire e non pensare (quasi il quaranta per cento dei detenuti), chi urla, chi piange, chi prega. Potremmo raccontarvi ancora tanto, ma non basterebbe un quaderno interno! Non si tratta più di riforme, decreti o disegni di legge. Qui, ora, si stanno commettendo crimini contro l’umanità. Le persone sono sottoposte a torture, trattamenti degradanti. Qui, proprio ora c’è gente che sta morendo. E non parliamo solo dei cinquantaquattro suicidi dall’inizio dell’anno, di quelle vite spezzate che oggi sono un numero sui giornali, ma ieri erano reali, avevano un nome, una storia, legami affettivi polverizzati dalla galera. Parliamo anche degli oltre trecento tentativi di suicidio dichiarati dal Dap, sventati il più delle volte da altri detenuti. Parliamo anche degli altri settantadue morti per malattie o cause considerate naturali, ma anche quelli sono morti in carcere e di carcere. Qui con noi c’è un anziano nordafricano. Ha settantotto anni, cammina a fatica, gira spaesato. Dopo quasi due mesi ancora si confonde e non ricorda la sua cella. Dobbiamo aiutarlo per tutto, ha un’autonomia molto ridotta. Abbiamo fatto di tutto per segnalarlo, non può stare qui! Siamo molto preoccupati per lui. Non vogliamo che diventi l’ennesima “morte naturale”, conteggiata cinicamente tra i numeri che non contano!
CM: Giusto pagare per chi ha sbagliato, perché occorre rieducazione; è altresì vero che oggi, con questo sovraffollamento, le persone detenute vengono poco alla volta, girano dopo giorno, defraudate della loro umanità. E questa cosa deve fare paura, e fa concretamente spavento. La violenza fatta a quell’anziano prima citato, non è simile a compiere un reato? È uno dei tanti è vero, ma quanti, quanti ce ne sono come lui? Non sono dei veri e propri reati, trattare le persone in questo modo, e non è forse vero che le condizioni in cui ci troviamo in carcere sono un costante incitamento al suicidio? Non pensiamo sia edificante, ma umanamente avvilente per un agente di turno dover sciogliere un nodo che un detenuto esanime si è messo al collo ponendo fine alla sua esistenza. […] Leggendo i giornali abbiamo letto che alcuni considererebbero la concessione dei giorni in più di liberazione anticipata come un fallimento dello Stato. […] Con la concessione di questi giorni, non solo si allevierebbe la sofferenza dei detenuti e degli operatori del carcere diminuendo sensibilmente il problema del sovraffollamento, ma s’incentiverebbe un sistema virtuoso che dà una speranza ai meritevoli.
RC: Ci sentiamo soli, esclusi da una società cieca, ma capace di catalogare, marchiare ed escludere. Non si riesce a non pensare almeno una volta a farla finita. Non vuoi soffrire più. Qualche volta reagiamo, lottiamo, cerchiamo di unirci. Ma ogni protesta è sedata, repressa. In tanti hanno paura. Dopo la prima rivolta in Sesta hanno spedito quindici capri espiatori nelle carceri più remote (perfino in Sardegna) facendo perdere loro la possibilità di vedere i familiari. Nonostante ciò, e nonostante il DL sicurezza, in sole tre settimane ben quattro sezioni sono insorte, per disperazione. Ci sono stati incendi, lanci di oggetti. Almeno una volta a settimana il carcere è invaso dal fumo acre e tossico dei roghi. Dalla settima, dove stanno chiusi ventitré ore su ventiquattro (con l’ora d’aria spesso negli orari più caldi) quasi ogni sera si sentono battiture e grida di aiuto. Sentiamo ogni giorno notizie da altri penitenziari. Viterbo, Firenze, Milano, Trani, Trieste. Stesse storie, stesse proteste. A volte siamo costretti a urlare, fare rumore, accendere fuochi. Vogliamo farci sentire, vogliamo essere considerati vivi perché, per quanto ci vogliano zitti, fermi, passivi, noi non siamo ancora morti.
A questi link potete leggere le lettere nella loro versione integrale (Regina Coeli, via Radio OndaRossa e Canton Mombello, da Qui Brescia)
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