Scampia è sempre alla ribalta, in un modo o nell’altro. Si susseguono articoli, lettere, manifestazioni, comunicati, post che rilevano come, ancora, ci siano delle questioni completamente irrisolte, mai affrontate, interrotte, scandalose, paradossali, a partire dall’assenza di panchine e giardinieri fino allo stallo dei cantieri nelle Vele – a due anni dall’abbattimento della Vela verde, uno degli ultimi grossi eventi mediatici – passando per la condanna al Gridas, dopo oltre dieci anni di un percorso giuridico-burocratico sfiancante. L’oggetto del malcontento è prevalentemente l’amministrazione cittadina, il comune di Napoli, che dopo l’insediamento della giunta Manfredi sta riprendendo le fila di vari discorsi cercando una propria linea di condotta su questioni complesse e annose.
“Dal basso” ci si continua a sobbarcare piccole e grandi fatiche, in una o più reti, con organizzazioni solide e di lungo corso o neonate ed estemporanee, con e senza finanziamenti, oggi anche con una municipalità con pochissime risorse ma capitanata da chi è sensibile sui temi della ecosostenibilità e della giustizia sociale. L’obiettivo è sostanzialmente uno: vivere meglio negli spazi pubblici e privati che si hanno a disposizione, con uno sguardo in prospettiva per le future generazioni. Tutti rilevano la situazione paradossale di un quartiere che vanta alcuni primati importanti – la periferia più giovane d’Europa, la più vasta rete di associazioni cittadina, la più alta percentuale di spazi verdi, la presenza di molte scuole, fiore all’occhiello per una serie di iniziative sociali e culturali, una sede universitaria che prima o poi verrà inaugurata, uno snodo di trasporti che collega Napoli a una parte importante della sua area metropolitana, piani edilizi in fase di sviluppo – ma che continua a essere una periferia molto povera, con alti tassi di inoccupazione, e continua a percepirsi come un luogo dimenticato ed emarginato, con un’incrollabile sfiducia verso le istituzioni.
GLI INVISIBILI
I grandi assenti in questa sorta di cahiers de doléance che attraversano il panorama mediatico delle ultime settimane sono, come sempre, gli abitanti rom del quartiere. Eppure, dopo il biennio della pandemia in cui non si sono potuti praticamente muovere dalle loro baracche e in cui sul piano amministrativo si è bloccato tutto, i rom di Cupa Perillo non sono assenti dalle agende istituzionali. L’ordinanza di sgombero che pende sul loro capo dal 2018 – con una notifica per centinaia di persone, famiglie con anziani, donne, bambini, che non contemplava alcuna alternativa in merito alla loro ricollocazione, né sul breve né sul lungo termine – non è più solo una minaccia ma può diventare esecutiva. Un nuovo stato di emergenza che ha iniziato a smuovere le acque. Ad agosto 2021 un incendio colpisce una parte del campo con la distruzione di un gruppo di baracche. Per queste famiglie non viene trovata nessuna soluzione abitativa alternativa. Nel frattempo si intensificano i movimenti sull’area per l’apertura dell’asse mediano. Nel 2022 la nuova amministrazione comunale impedisce lo sgombero, ottiene una proroga e istituisce un nuovo “tavolo” di progettazione che non si vedeva ormai da anni.
La storia dei tavoli di progettazione sul tema dell’abitare a Cupa Perillo, è lunga, tortuosa e sempre con lo stesso esito: un nulla di fatto. Una questione che a partire dai primi anni del nuovo secolo si è sviluppata su due livelli: uno interno agli stessi campi, in cui attraverso grandi assemblee che gravitavano intorno ad alcuni luoghi di aggregazione, baracche autocostruite che sorgevano nelle tre diverse macroaree dei campi – la Scola Jungla di Chi rom e…chi no, il bar di Nino e la chiesa evangelica –, ma anche all’interno dei cortili del cosiddetto campo rosa o nel campo dei musulmani, gli abitanti del campo di tutte le età erano chiamati a ragionare sul proprio futuro abitativo in prima persona. Parliamo di comunità note per la capacità di auto-organizzarsi e dotate di quella famosa resilienza – una qualità tanto osannata oggi da dare il titolo ai piani di sviluppo nazionali – che, accoppiate a investimenti progettuali veri, potevano essere le chiavi di volta per la messa in pratica di nuove soluzioni abitative. Invece sono diventate armi a doppio taglio per i rom stessi, che hanno continuato ad adattarsi come hanno potuto con estrema scarsità di mezzi e in un contesto diventato negli anni sempre più ostile.
Le assemblee al campo sul tema dell’abitare hanno vissuto varie stagioni, con la presenza non solo di attivisti e abitanti rom e non rom legati al territorio, ma anche di reti del centro storico della città in un tentativo di coordinamento con quanti si occupavano di tematiche legate a migrazioni, diritti e discriminazioni. La partecipazione dei rom, un unicum nel panorama italiano, era notevole, anche perché c’era contemporaneamente un fiorire di attività pedagogiche, culturali, sociali soprattutto attraverso la Scola Jungla, per cui il campo non era più il famoso “non-luogo”, come andava di moda definirlo, ma piuttosto un centro propulsore di pratiche e riflessioni che hanno lasciato il segno.
Inserite in una sorta di laboratorio permanente in cui ciascuno poteva dare il proprio contributo a seconda di età, tempo, desiderio, competenza, capacità, le assemblee erano il luogo naturale della possibilità di discutere di tematiche urgenti come il diritto all’abitare e molto si basava su un presupposto di fiducia reciproca e forse di ottimismo nel poter migliorare le proprie condizioni. Altri elementi metodologici importanti sono stati la determinazione nell’innescare ragionamenti congiunti tra rom e non rom, superare l’approccio assistenziale e assimilatore, con intenti più o meno malcelati di civilizzazione, superare l’idea stantia di ragionare per settori specifici adottando un approccio integrato che intrecciasse vari ambiti. Il discorso chiave era: i rom fanno parte di questo territorio che condividono con i non rom da almeno venticinque anni e quindi la riqualifica dei loro spazi e delle loro condizioni abitative riguarda tutte e tutti.
Come è noto, la partecipazione è un processo sempre reversibile e per trovare un orizzonte fattivo ci sarebbe stato bisogno di un interlocutore istituzionale, e comunale in particolare, che in quel periodo era abbastanza sordo rispetto alla possibilità di interagire con la cittadinanza attiva – possiamo chiamarla così? – e non sentiva l’esigenza di essere in alcun modo innovativo rispetto alla politica dei campi. Un altro tema ostico, che si è ripetuto nel tempo, fino a oggi, è stata la questione della rappresentanza rom: con il metodo assembleare ciascuno aveva diritto di parola, anche se chiaramente sono stati solo alcuni a esporsi di più e coerentemente con un discorso di esigenze comunitarie. Questo ha reso tutto più lento e faticoso, e anche conflittuale, laddove non si riuscivano a raggiungere visioni comuni. Prendere decisioni richiedeva numerosi passaggi, rispetto alla possibilità di parlare semplicemente con uno o due persone individuate come “capi”, o mediatori – per usare un linguaggio più correct. Il gruppo che si crea, eterogeneo, informale e trasversale, che successivamente verrà denominato Comitato Abitare Cupa Perillo, segue, denuncia, racconta in particolare le evoluzioni della questione abitativa battendosi per il superamento dei campi, elaborando dossier importanti – per esempio un libretto prezioso, Ambito 7, fatto da OsservAzione e Chi rom e… chi no, che racchiudeva linee di indirizzo frutto di studi accurati e, soprattutto, maturate “sul campo”. Tutto questo processo non ha trovato modo di dialogare con gli assessorati alle politiche sociali di quel periodo, prosecutori delle politiche inaugurate con i campi comunali del 2001 sulla Circumvallazione a Secondigliano e il centro di accoglienza “temporaneo” ex scuola Deledda a Soccavo. Anzi, i rapporti erano piuttosto ostili, e gli incontri nelle sedi istituzionali sempre tesi. Comune e Provincia si muovevano su un altro livello, parallelo, realizzando ricerche con la collaborazione dell’Università, riuscendo a non intersecare quasi mai quei gruppi di discussione partecipata, tranne che per ottenere dati.
È del 2006 l’elaborazione di “Linee Guida per la realizzazione di insediamenti rom nella Provincia di Napoli”, con il centro di ricerca Cittam Federico II che faceva da consulente alla Provincia. Queste linee guida portano nel 2008, sindaco Rosa Russo Jervolino, alla stesura di un primo progetto per l’area urbana di Cupa Perillo, che riproponeva la struttura del campo/container, simile a quella di Secondigliano: un’area con prefabbricati per circa ottocento persone, con l’unica differenza che la zona era la stessa dove vivevano i rom. Il progetto venne inserito dalla Regione nel parco progetti con assegnazione di fondi Fesr. Ma nel 2008 c’è un altro passaggio fondamentale, che cambia lo scenario, perché i prefetti di Roma, Milano e Napoli vengono nominati dal ministero degli interni commissari delegati “per la realizzazione degli interventi necessari al superamento dello stato di emergenza in relazione agli insediamenti di comunità nomadi nei territori delle rispettive regioni”, che si traduce in primo luogo in un censimento su base etnica, a cui vengono sottoposti anche i rom di Cupa Perillo. Questo provoca uno spostamento dell’asse decisionale e un rallentamento progettuale. L’interlocutore privilegiato diventa la Prefettura, con cui pure si cerca di far passare l’idea che ai tavoli bisogna far sedere una pluralità di soggetti e non cedere alla logica della rappresentanza unica, che conviene un po’ a tutti. Il blocco del progetto segregante presentato dal Comune per Cupa Perillo nel 2008, porta alla prosecuzione dei tentativi di co-progettazione interna al campo e nel 2011 viene siglato un accordo di collaborazione per “sviluppare forme di progettazione partecipata” con il Dipartimento di Urbanistica della Federico II. Nasce l’esperimento del Laboratorio Abitare Cupa Perillo, finalizzato alla revisione del progetto e del concetto stesso di “campo”.
Il laboratorio si è svolto soprattutto a Cupa Perillo, attraverso periodici incontri partecipati da rom e non rom, singoli e associazioni, con il confronto diretto con esperienze nazionali e l’obiettivo di riaprire e riformulare la progettazione sulla base dei principi europei e dei migliori esperimenti di housing. È dello stesso periodo la pubblicazione della Strategia Nazionale di Inclusione per Rom Sinti e Caminanti, imposta dall’Ue, che favorisce il discorso dell’approccio integrato. Ma dopo aver presentato un documento di proposta alle amministrazioni – uno spunto per la nuova progettazione anche se molti temi sono stati “aggirati” e non affrontati – i partecipanti al laboratorio, sia i professionisti che gli abitanti, sono rimasti esclusi dalla progettazione, affidata a tecnici comunali.
Finalmente nel 2014, sindaco de Magistris, una delibera comunale annuncia che l’area di via Cupa Perillo è interessata da un progetto di riqualificazione che intende realizzare “strutture socio-assistenziali e servizi per l’abitare” – strutture temporanee che avrebbero dovuto ospitare 409 persone per circa 75 abitazioni su due livelli. Il progetto è inserito nel Parco Progetti Regionali per un importo complessivo di sette milioni. Questo progetto, in cui ancora una volta si evita accuratamente di usare la parola abitazioni, diventa l’oggetto di un contenzioso tra il Comune e alcune associazioni locali e nazionali che ne rilevano il carattere segregante e interpellano la Commissione europea. Con due comunicazioni la Commissione giudica il progetto presentato non in linea con le norme europee che disciplinano l’erogazione dei fondi Fesr. Le ragioni sono due: la collocazione spaziale non deve generare segregazione ed è necessario un approccio integrato. La prima comunicazione è datata agosto 2014. Il Comune delibera comunque il progetto definitivo nel dicembre 2014 e nell’aprile 2015 la Commissione europea riafferma gli stessi principi. Seguono mesi di tavoli di (finta) concertazione e di trattative che non portano a niente, solo alla perdita da parte del Comune del fondo che andava speso entro il 2015. Da quel momento in poi, fino all’incendio del 2017 che provoca lo svuotamento di metà dei campi, tutto tace sul fronte amministrativo, con la giunta de Magistris che se da un lato ha fatto della “partecipazione dal basso” uno dei suoi cavalli di battaglia, dall’altro sulla tematica rom ha espresso il peggio che poteva esprimere, toccando il fondo con l’inaugurazione di un nuovo campo-container nel 2017 a Poggioreale.
Il Comitato Abitare Cupa Perillo, che in qualche modo ha resistito agli eventi con un lieve ricambio generazionale e si è allargato coinvolgendo gruppi rom dell’area metropolitana, ha dovuto insistere con appelli, documenti, mail, denunce pubbliche sia per essere riconosciuto come interlocutore ed essere presente ai tavoli, sia per convincere l’amministrazione della necessità di aggiornare vocabolario e pianificazione urbana per gli abitanti rom di Scampia, ma più in generale dell’area metropolitana in un momento in cui si intensificano gli sgomberi coatti.
Quest’opera di persuasione è sostanzialmente fallita. I documenti istituzionali dimostrano che il massimo dei risultati nelle progettazioni per l’abitare rom finora ottenuti su carta sono stati “insediamenti o attrezzature di natura socio-assistenziale che si possono connotare come strutture abitative provvisorie”. Per i rom di Cupa Perillo, da circa venti anni, non si parla di case, alloggi, trasferimenti, ma di soluzioni sul breve termine, temporanee, in attesa di una definitiva “inclusione sociale” sul lungo termine. Che tradotto significa: mai. Questo può essere spiegato in molti modi: vincoli urbanistici, difficoltà giuridiche, annose questioni legate alle politiche per la casa in città, ma è soprattutto l’approccio con cui si affronta la materia e le eventuali progettazioni a essere distorte da una visione perennemente emergenziale che detta tutta la linea. D’altra parte, è emblematico che il progetto Restart Scampia, avviato nel 2019, che “prevede l’abbattimento delle Vele A, C e D e la costruzione di un moderno quartiere destinato a ospitare la collettività, dotato di attrezzature e di servizi urbani integrati con la Città Metropolitana”, non contempla da nessuna parte i rom – anche se far presente questa lampante mancanza è quasi un tabù –, che sono evidentemente esclusi dalla collettività e per i quali vanno cercate soluzioni a parte e preferibilmente senza mai raggiungere un risultato concreto. Lo testimonia il fatto che le comunità rom di Cupa Perillo, ormai ridotte a circa trecento persone, vivono ancora come vivevano all’inizio di questa storia.
“CI MANDANO STUDENTI”
Oggi il nuovo tavolo comunale di co-progettazione, partito in risposta allo sgombero per l’imminente apertura dell’asse mediano, di nuovo con il coinvolgimento del Dipartimento di Urbanistica, in una rete in cui stavolta prevalgono gli enti religiosi, parte con rinnovato entusiasmo ma a nostro avviso con premesse pericolose. La temporaneità e la transitorietà restano infatti le parole d’ordine: siccome questa apertura è imminente (un’imminenza che dura dal 2018) bisogna prima trovare una soluzione a breve termine – quindi alloggi sottodimensionati e nei fatti un campetto transitorio – e nel frattempo ragionare su una progettazione a lungo termine. Tradotto: si realizzeranno magari dei moduli abitativi temporanei che tali resteranno per molti anni ancora.
Lo studio in atto da parte di un gruppo di ricercatori e dottorandi è lodevole dal punto di vista delle intenzioni ma rischia di essere solo un buon esercizio laboratoriale. Inoltre, il tema dominante della ecosostenibilità rischia di diventare uno specchietto per le allodole e di offuscare quello di cui veramente si sta parlando: la realizzazione di alloggi temporanei in un’area per soli rom, che da un punto di vista concettuale non differisce molto dai campi. Favorire un meccanismo di partecipazione estesa, autentica, critica e attiva, non è lo scopo principale di questo nuovo tavolo, che punta all’individuazione di poche voci rappresentative, magari tra i più giovani. Tuttavia, in caso di sopralluoghi, i rom più anziani, in particolare le donne, con pazienza atavica, accolgono sconosciuti e generosamente condividono saperi e racconti di vita, anche se sono perfettamente consapevoli di ripetere le stesse scene e trovarsi intrappolati nel ruolo di comparse più che di protagonisti, mantenendo un certo distacco e anche sarcasmo – non ci hanno mandato il comune ma un gruppo di studenti, se volevano fare un progetto fatto bene non facevano tutte queste chiacchiere –, non per questo rifiutandosi di sedersi allo stesso tavolo, da esperti navigati, non avendo davvero nulla più da perdere.
Nel frattempo, la zona dei campi è sempre più deserta, le famiglie che possono se ne vanno in cerca di nuove sistemazioni. La grande spianata sotto l’asse mediano sta lì a testimoniare della vasta area incendiata nel 2017 e mai bonificata, resta il ricordo delle baracche distrutte. Il paradosso dell’isola ecologica e dei camion dell’Asia accostati ai cumuli di rifiuti che nessuno raccoglie, risalta ancora meglio ora che l’area è più vuota. Rifiuti straordinari sversati da italiani sotto gli occhi dei militari che non intervengono; rifiuti ordinari sversati dagli abitanti della zona ai quali non è concesso nemmeno un cassonetto. Sotto il ponte dell’asse mediano – il tetto ponte – è ben visibile il grande murale: “È permesso!?” e riecheggiano le voci di quella giornata di molti anni fa in cui lo abbiamo realizzato, con gli abitanti piccoli e grandi, e in cui le condizioni non erano migliori ma l’area brulicava di vita e le prospettive sembravano più incoraggianti. I piccoli di allora, cittadini italiani di fatto e alcuni anche per legge, sono cresciuti e in qualche modo sopravvivono, alcuni si sono spostati, altri sono rimasti. Passeggiare oggi per Cupa Perillo dà la sensazione di attraversare una vecchia storia che in qualche modo deve finire. (emma ferulano)
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