Quando scendevano le ombre del tramonto, a Nagyszékely, indossavamo maglioni e cappucci. Se il cielo era coperto dalle nuvole, il buio era una coltre su di noi e in tenda sentivamo meno il freddo; erano brividi invece durante le notti stellate. Lontani risuonavano boati a salve per allontanare i cervi dai campi. Usavamo torce ricaricabili per leggere le note di Jean Celan. “Nelle terre australi insorgono spesso conflitti nelle aree esterne, guerre lungo frontiere lontane. Esse sono una disgrazia: triste per gli australi ricevere notizie di distruzione. Eppure anche i conflitti, come la disoccupazione e la povertà, sono inevitabili. Il Grande Necessario colpisce cieco e la Banca del Bene prepara bandi per aiuti umanitari, accoglienza dei rifugiati”. (Jean Celan, Note sul campo, foglio f43).
Una mattina, quando le gocce d’umidità ancora vibravano sulla tenda sfiorate dalla prima luce del sole, abbiamo ritrovato una strana scritta a matita su una pagina interna dell’Enciclopedia australe. Era la grafia di Celan, riportava dei versi: “Cuore: / fatti conoscere anche qui, / qui, al centro del mercato. / Gridalo, lo Scibboleth, / nella patria estraniata: / Febbraio. No pasaran”. Karl falciava l’erba accanto al cancello e assicurava serio che non era uno stornello o poesia trovata in terra australe. Faceva no con la testa, ma non disse altro.
Voce: Ancêtres. Dall’Enciclopedia australe di Jean Celan. “La religione degli australi espone una particolare concezione del tempo storico. Le popolazioni indigene ritengono di vivere nel Grande Necessario: un presente senza fine e vuoto di futuro, ma non privo di passato. Raccontano i sacerdoti che esisteva un’altra era chiamata il Tempo delle Possibilità Aperte. In quest’epoca lontana il presente poteva essere cambiato, le condizioni di vita trasformate. Gli australi ricordano grandi eroi che si batterono per la rivoluzione, e gloriosi condottieri. Poi il Tempo delle Possibilità Aperte si concluse con una Grande Cesura, o Fine dei Possibili. Sono rimaste memorie dove gli eroi appaiono come figure mitiche di antenati, o ancêtres. Nelle terre australi è facile incontrare edicole, angoli votivi, santuari dedicati agli ancêtres. Nelle aule scolastiche un ancêtre è incorniciato in una foto antica, porta la barba e un foulard al collo. Ci sono circoli dedicati al culto di un ancêtre con lo sguardo sognante verso il cielo: al bancone si vendono birre in onore del glorioso antenato. In primavera e in autunno s’organizzano riti collettivi per le strade dove gli australi cantano ed espongono le immagini degli ancêtres. Gli ancêtres non esistono più e non possono tornare, ma sono un palliativo sentimentale. Il loro culto è un’esecuzione pratica di una religione civile e compensa l’accettazione del Grande Necessario imperante”.
“Grande Necessario imperante”, “palliativo sentimentale” – scriveva Celan. Ci sembrava un segnale, o sintomo: queste notazioni enciclopediche s’allontanavano dalla consueta, oggettiva neutralità. «La crisi di Jean Celan emerge nei suoi ultimi scritti», suggeriva Karl mentre ripuliva le bici dalle ragnatele. «Dovrebbero funzionare», ci assicurava con voce nasale e affaticata. Così siamo partiti in bici per Pincehely, oltre le colline a occidente. Abbiamo attraversato boschi e coltivi abbandonati da tempo in un’aria di pioggia fine.
Eravamo al bar delle torte di Pincehely, c’erano pochi tavolini dinanzi a una strada d’asfalto con auto sfreccianti. Leggevamo uno degli ultimi plichi di note di Jean Celan, v’erano informazioni sugli ancêtres. “La Banca del Bene finanzia convegni, serate teatrali e gruppi informali che diffondono la memoria degli ancêtres. Ogni partito politico ha un ancêtre d’adozione e prima delle elezioni realizza manifesti elettorali che sono al contempo tributi al culto. (Senza manifesti votivi i partiti non hanno diritto ai finanziamenti della Banca del Bene). I collettivi delle facoltà accademiche organizzano seminari con letture rituali di discorsi e scritti degli ancêtres. La Banca del Bene copre le spese delle fotocopie, basta rendicontare”. (JC, Note…, foglio p32).
A Pincheley, sulla collina accanto a vecchi casolari di campagna, abbiamo trovato un cancello nero legato appena con un filo di ferro. Alte siepi circondavano la collina oltre il cancello, per osservare siamo entrati. Era il cimitero ebraico. Qualcuno aveva tagliato l’erba attorno alle prime lapidi. Molte pietre erano storte, un poco sprofondate e portavano scritte in ebraico, poche in caratteri latini. Le date richiamavano anni lontani dell’Ottocento o i primi decenni del secolo successivo, poi non più. Sorgeva un bosco poco più in alto sul versante. Tra edera che scendeva dai tronchi, rovi e sterpaglie, abbiamo intravisto lapidi nascoste da un oblio verde. La pioggia era aumentata, ma abbiamo avuto il tempo di sfogliare l’Enciclopedia e trovare nuovi versi scritti a matita: “E le pietre che ammucchiasti, / che ancora ammucchi: / le loro ombre, verso dove / e di quanto si stendono?”. (Relazione a cura dell’Assembramento di Ricerca Etnografica)
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