La magistratura ha chiamato l’intervento nel quartiere Giambellino Lorenteggio del 13 dicembre 2018 “operazione Robin Hood” riconoscendo in qualche modo il valore sociale delle occupazioni abitative e al contempo, però, muovendo l’accusa criminosa di racket. Un tentativo finalizzato a screditare i movimenti politici per la casa paragonandoli al sistema del racket, esercitato ai danni dei più poveri. Un’operazione mediatica e militare che ha ribaltato i termini della questione mettendo in primo piano il ripristino di un presunto ordine pubblico e sociale, piuttosto che il contesto entro cui scaturisce, invece, la necessità per alcune persone di occupare un’abitazione. L’operazione, come già evidenziato, sembra strettamente connessa al progetto di rigenerazione urbana attraverso il quale si vorrebbe definire un nuovo ordine spaziale, sociale ed economico in questa porzione di città. Un ordine più incline a un’idea di sviluppo “smart”, dove è presente, in modo strumentale, anche l’ingrediente dell’inclusione. Inclusione per chi? Per chi ha bisogno? Per chi viene considerato meritevole?
Più è forte la domanda di casa, che non riesce a trovare risposta né nel pubblico né nel privato, più intransigente diventa la stretta delle istituzioni sul rispetto della legalità da parte della popolazione più vulnerabile; più forti sono le ambizioni di una città di competere sul piano internazionale, più difficili, deboli e inefficaci appaiono le politiche volte a includere coloro che risultano meno funzionali all’obiettivo e per i quali invece prevale la scelta del “controllo” e della marginalizzazione. La relazione tra sviluppo e coesione sociale, cui fa riferimento la giunta del sindaco Sala rispetto al recupero delle periferie, rischia di trasformarsi sempre di più in una contrapposizione. La realtà, letta attraverso la lente delle politiche abitative, mette in luce, infatti, aspetti della vicenda che i media ufficiali non raccontano nascondendo un’altra città.
A Milano nel 2018 erano circa 27mila le persone in lista d’attesa per una casa popolare (in Italia nel 2015 erano 650mila). Il dato è in continua crescita. I provvedimenti di sfratto emessi per morosità, ovvero per difficoltà a sostenere le spese per l’abitazione, nel 2017 sono stati 1.383 (in Italia 59.609), si tratta di circa uno sfratto ogni cinquecento famiglie. Sul fronte dell’offerta abitativa, gli appartamenti sfitti sul mercato privato esistono ma la loro stima è quasi impossibile, per la non collaborazione da parte dei proprietari a rendere pubblica questa informazione. Si tratta di uno stock che, per diverse ragioni (di mercato, fiscali, di tutela del bene), i proprietari preferiscono non vendere e non affittare. Ciò che si conosce è che la domanda di abitazioni in affitto cresce in modo direttamente proporzionale al costo medio degli affitti, che è tra i più alti tra le città italiane (tra gli 850 e i 900 euro al mese per un bilocale da 50-55 mq). Gli alloggi messi a disposizione per contratti ordinari di locazione (quattro anni più quattro) sono in generale diminuzione mentre sono in aumento quelli disponibili per gli affitti brevi, che risultano per i proprietari meno rischiosi e più remunerativi. Alcune agenzie hanno stimato una rendita finanziaria della locazione al 4-5% annuo al netto delle tasse. Chi è in grado di acquistare un’abitazione a Milano lo fa soprattutto per scopi di investimento e sempre meno per soddisfare un bisogno primario. Diminuiscono, infatti, le persone e le famiglie che, a causa della crisi e della precarizzazione del mercato del lavoro, riescono con risorse proprie a soddisfare questo bisogno, attraverso l’acquisto o l’affitto, per mancanza soprattutto di garanzie da offrire a banche e proprietari. Il settore pubblico appare debole e incapace di accogliere le famiglie tagliate fuori dal mercato, sia attraverso le misure di incentivazione all’affitto sia attraverso il proprio parco alloggi su cui insistono difficoltà di diversa natura: innanzitutto la saturazione degli alloggi abitabili, in secondo luogo il loro stato di manutenzione. Nel 2013 a Milano esistevano circa 7.000 alloggi pubblici non assegnati per carenze manutentive dovute alla mancanza di risorse da parte degli enti proprietari (ALER e Comune).
Sul fronte delle risorse è da ricordare come dalla fine degli anni Novanta in poi, dalla chiusura del fondo Gescal (Gestione case lavoratori, fondo destinato alle politiche abitative che veniva alimentato da un prelievo fisso sugli stipendi dei lavoratori), le risorse destinate alla casa sono diminuite drasticamente. Si pensi che solo in Lombardia sono passate da 400 milioni di euro nel 2002 a 44 milioni nel 2016. Questo ha avuto delle ricadute importanti sia sulla manutenzione degli immobili, con la conseguente difficoltà di riassegnare velocemente gli alloggi liberati dai vecchi inquilini, sia sulla mancata realizzazione di alloggi nuovi. A questo si è aggiunta, nello stesso periodo, la liberalizzazione del mercato dell’affitto. Un passaggio che ha consentito ai proprietari di seconde case di affittare al prezzo più alto che riuscivano ad applicare sul mercato, diversamente da prima quando era possibile applicare il cosiddetto equo canone. Per capire quante risorse vengono investite nelle politiche abitative, sia quelle dedicate al patrimonio sia quelle destinate al sostegno all’affitto, basta analizzare i bilanci degli enti pubblici. Nel 2016 le risorse dedicate alla casa rappresentavano lo 0,26% della spesa corrente dello stato. Milano è una delle città in Lombardia che ne spende di più (circa il 2,6% del bilancio comunale).
I problemi, oggi, riguardano l’espulsione delle persone dal mercato privato (sia in affitto che in proprietà), la mancanza di risorse strutturali da destinare alle politiche abitative, la mancanza di case accessibili (pubbliche o private) e di soluzioni abitative per chi rimane senza casa. Seppure le risorse destinate alla ristrutturazione degli alloggi popolari inutilizzati siano aumentate negli ultimi anni, la velocità con cui sono resi disponibili non rispecchia i tempi dell’emergenza abitativa. Per chi riceve uno sfratto esecutivo e rimane senza una casa, nella maggior parte dei casi non esistono risposte che abbiano la dignità dell’abitazione, né nel pubblico né tantomeno nel privato.
La risposta del pubblico è di carattere temporaneo e può riguardare comunità alloggio, centri di accoglienza, dormitori, alberghi, posti letto messi a disposizione dal terzo settore, in rari casi appartamenti messi a disposizione dalle associazioni del territorio. Soluzioni nella maggior parte dei casi definibili “quasi abitative”, che diventano inevitabilmente definitive in assenza di una qualunque altra possibilità nel mercato e nel pubblico. Soluzioni che, tra l’altro, non risultano accessibili a tutti. Se nel nucleo familiare rimasto senza casa c’è un “soggetto fragile”, un bambino, un anziano, un disabile, si ha più possibilità di essere tutelati, anche se spesso significa accettare una separazione del nucleo che prevede, per esempio, che la madre col bambino vadano in una comunità alloggio e il padre in un dormitorio (se la città ne è dotata). Nel caso di adulti soli, i comuni non sono tenuti a fornire una risposta abitativa.
L’utilizzo senza regolare assegnazione di un alloggio pubblico rimasto sfitto per anni per carenze manutentive e per mancanza di risorse degli enti proprietari, di fronte a un quadro simile non può che essere letto come occupazione per stato di necessità. Eppure, nel quartiere Lorenteggio Giambellino le risorse non mancano. Su di esso, infatti, sta convergendo una quantità di risorse pubbliche che difficilmente sarà ripetibile in altri quartieri: finanziamenti europei, regionali e comunali per un totale di circa 96 milioni di euro. Nel Masterplan datato 2015 sono previsti interventi di rigenerazione sia spaziale che sociale; gli interventi sociali riguardano l’inserimento lavorativo dei disoccupati, la creazione di nuove imprese, il sostegno di soggetti fragili ma anche il coinvolgimento della popolazione nel processo in atto. L’avvio del progetto è stato preceduto da un’accurata analisi del quartiere realizzata da un gruppo di ricerca del Politecnico di Milano composto da urbanisti, antropologi e sociologi, che ha messo in evidenza, tra l’altro, il valore delle attività del comitato di quartiere in un contesto difficile e per anni abbandonato dalle istituzioni. Tra queste la mensa comune autogestita. Sempre nel Masterplan, si prevedeva un percorso di regolarizzazione degli occupanti irregolari in stato di bisogno.
A questo punto non resta che chiedersi che fine abbia fatto questo studio. O meglio, vi è da chiedersi perché mai in Italia (esempi positivi e numerosi esistono in Europa) le iniziative autorganizzate che operano nei vuoti lasciati dalle istituzioni pubbliche non possano essere considerate un soggetto politico con il quale confrontarsi, una risorsa per la città, piuttosto che un problema di ordine pubblico. (alice boni)
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