Il 16 novembre 2013, quando la manifestazione Fiume in piena ha invaso Napoli sotto una pioggia propiziatoria, è iniziata una nuova fase in Campania – delicata, difficile, carica di aspettative – nell’elaborazione di un’esperienza costituente dal basso che possa riconfigurare gli spazi decisionali del vivere comune in maniera egalitaria e aperta. Un’impresa immane, che si misurerà sulle capacità di coordinarsi e di permanere dei gruppi eterogenei che vi sono confluiti e che vi confluiranno. Si dovrà resistere a tentativi di cooptazione, delegittimazione, assorbimento; ci si dovrà confrontare da subito con la complessità dei nodi che tengono insieme la fisicità dei luoghi, l’inerzia delle abitudini e le costrizioni degli apparati. Allo stesso tempo, dà fiducia il fatto che l’erompere di Fiume in piena non sia un fatto casuale né effimero, checché ne scrivano con ottuso snobismo osservatori dell’ultima ora. Fiume in piena appare pienamente inserito, per i temi scatenanti e per i valori che difende, nel momento attuale di scontro diffuso tra poteri che si riorganizzano per aumentare la presa sulle basi vitali, e le comunità che si scoprono tali nella lotta per la sopravvivenza fisica e culturale. In secondo luogo, si va a costruire localmente su un’autonomia organizzativa e riflessiva che si è formata in decadi di mobilitazione contro discariche, inceneritori e contaminazione, consolidatasi soprattutto durante e dopo quei presidi di mesi: nei saperi prodotti, e nei nuclei durevoli che hanno lavorato sulla vivibilità generale degli ambienti urbani e sulla cura reciproca tra territorio e genti. Non si vuole qui vedere più di quel che c’è, ma quel che c’è ora permette di pensare il crescere di Fiume in piena come un progetto irriducibile alle sole questioni dei rifiuti o delle bonifiche, e tendente invece, per la stessa natura dei soggetti che vi si riconoscono, verso la riappropriazione delle forme di produzione, gestione e distribuzione della ricchezza.
Il termine stesso “biocidio” ci parla della vita espropriata e capitalizzata, che in Campania ha avuto la declinazione della contaminazione da rifiuti. Un processo ecologico ed economico, intrecciato a scale di accumulazione ben oltre la regione, e realizzato tramite la convergenza d’interessi (che ha radici storiche profonde) tra il capitalismo armato delle organizzazioni criminali e quello industriale e finanziario dei settori trainanti della “crescita”, capaci congiuntamente di emanare a livello locale e nazionale gli assetti istituzionali e legislativi più favorevoli ai loro affari. Lo stabilizzarsi in Campania di procedure di smaltimento abusivo degli scarti da ogni dove, parallelamente al declino dell’agricoltura, ha avuto caratteristiche certamente peculiari, ma non rappresenta un’eccezione: le comunità nere degli Stati Uniti, i pescatori somali e nigeriani, persino i contadini giapponesi, subiscono scarichi tossici almeno dagli anni Settanta. La creazione di zone “sacrificabili” che proteggano i dividendi delle imprese tramite l’abbattimento dei costi di produzione è pratica diffusa a livello globale: l’interesse degli attori economici si orienta non solo dove il lavoro costa meno, ma anche dove la vita “vale” di meno. Nonostante l’agricoltura della piana campana sia ancora una presenza forte, per via della sua natura frammentata (che permette però un reddito diffuso) e per la difficoltà a confrontarsi con un mercato dislocato e brutale, il valore della terra viene sempre più misurato sulla capacità di assorbire policlorobifenili piuttosto che sementi e concimi. Poiché in tal modo i profitti si accentrano e le possibilità di investimento si differenziano. Ora che le necessità di bonifica sono state poste con forza dai movimenti nell’agenda nazionale, sembra quasi di vederli gli stessi autori del disastro sfregarsi le mani, come dopo terremoti e alluvioni, pensando ai soldi pubblici che verranno impiegati per appaltare i lavori nel clima emergenziale che si annuncia.
Nel documento-piattaforma di Fiume in piena, sono state messe in chiaro le azioni da intraprendere su quei meccanismi fuori dalla portata del movimento. Tracciamento degli spostamenti dei rifiuti, necessità di perimetrazione delle zone inquinate, pubblicazione di analisi puntuali delle matrici ambientali, disposizione di risorse ingenti che seguano la strada per il risanamento ambientale tracciata dal movimento. Bisognerà tenere il fiato sul collo degli attori istituzionali e segnalare ogni tentativo di dirottamento. La vera sfida, però, sarà di integrare il risanamento ambientale a un processo che leghi la produttività riconquistata della terra alla creazione di ricchezza diffusa sui territori, all’interno di un progetto autonomo che tenga insieme lavoro, dignità, diritti fondamentali e ipotesi di futuro. Affrontare questa sfida significa porsi criticamente dinanzi a un intero modello di sviluppo che ha fatto degli ecosistemi e delle vite che li abitano il terreno preminente di estrazione dei profitti, per ricostituirlo sulla base dei bisogni reali in tutti i campi del sociale. Ciò vuol dire che Fiume in piena deve rimanere una fucina in divenire, includente e dinamica, che alle trattative coi ministeri associ sempre più prioritariamente la costruzione a livello locale di esperimenti per il reddito, la cooperazione, lo svago fondati su partecipazione e iniziativa condivisa. E per far ciò si parte dal confronto.
Sabato 30 novembre alle 16 ci sarà la prima assemblea pubblica di Fiume in piena alla Galleria Principe di Napoli, di fronte al Museo archeologico nazionale. Un forum dove i gruppi che si sono incontrati lo scorso 16 novembre si rivedranno e si parleranno, al di fuori di cornici istituzionali, in un luogo pubblico deputato alla funzione di spazio politico. All’ordine del giorno, le integrazioni alla piattaforma e la strutturazione degli impegni per portare il Fiume in piena nelle realtà locali. Oltre a ciò, si spera sarà uno spazio aperto di presa di parola in cui proposte e riflessioni, anche controverse, avranno diritto di cittadinanza. Da questo primo momento assembleare collettivo, dopo anni di addestramento al confronto tra gruppi locali, si deve partire per rendere tale pratica ricorrente e diffusa. Che diventi un’abitudine farla ogni settimana, e poi propagarla nei paesi e nei quartieri, necessariamente in luoghi pubblici, bastano un microfono, una cassa e un ordine autogestito. Cosicché non si vada più solo a convegni e dibattiti (per quanto fondamentali, sono una cosa diversa dalla formazione politica attiva) ad assistere, ma ci si metta in discussione per partecipare, senza titoli, blasoni o lauree, e dire la propria su come avanzare l’autorganizzazione della città. Domani si metteranno alla prova le capacità di Fiume in piena di tenere insieme comitati, centri sociali, agricoltori, parrocchie, disoccupati, studenti, comunità offese, movimenti per la casa, per gli spazi verdi, per l’autoproduzione, e tutti quegli altri elementi, finora atomizzati e divisi, che in un modo o nell’altro, producono e riproducono una vita degna di essere vissuta. Da lì, ci sarà ancora molta strada da fare. Per tutti, si tratta di riappropriarsi dello spazio metaforico e fisico della politica, e di capire che essa non è qualcosa che si subisce o che si esprime una volta all’anno. È qualcosa che si fa, ogni giorno, dentro le città e insieme agli altri. (salvatore de rosa)
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