Il 21 novembre il sindaco di Londra, Sadiq Khan, è stato tra i primi a twittare l’inaspettata notizia: il Fabric riapre. L’annuncio è stato accolto con entusiasmo dai circa trecento lavoratori della struttura, dalla comunità transnazionale dei clubber, e da tutti quelli che vivono la notte londinese e non si sono ancora rassegnati alla sua, in apparenza inarrestabile, trasformazione.
Nelle ultime settimane della scorsa estate la mobilitazione contro la chiusura dello storico club aveva tenuto banco su quotidiani, telegiornali e tutti i media di informazione musicale e culturale. La battaglia per la salvezza del Fabric si era subito caricata di una forte valenza simbolica all’interno di uno scontro più ampio, la cui posta in gioco sembrava essere la sopravvivenza della stessa vita musicale della città. Tuttavia la raccolta di oltre centosessantamila firme e il supporto di personalità di spicco della musica quali Carl Cox, The Chemical Brothers, Pete Tong e Fatboy Slim non sembravano aver sortito l’effetto sperato. Il 7 settembre scorso la decisione del council di Islington di trasformare la sospensione della licenza in una revoca definitiva aveva assunto toni decisamente sinistri; la diffusa impressione era che le campane stessero suonando a morto per la vita notturna di Londra.
La chiusura del Fabric decretata a settembre era ufficialmente legata alle morti per assunzione di stupefacenti di due ragazzi poco più che maggiorenni, avvenute rispettivamente a giugno e ad agosto. In passato era già stata necessaria una revisione della licenza per lo stesso motivo, con la morte di quattro persone tra il 2011 e il 2014, in un solo caso indotta da stupefacenti acquistati all’interno del locale. In seguito a questo avvertimento la direzione aveva intensificato i controlli, facendo del Fabric il club britannico con il più alto rapporto security/utenti. A cavallo tra i due decessi della scorsa estate la polizia ha condotto un’ispezione in borghese nel club, sotto il nome di Operazione Lenor. Cosa alquanto insolita, questa ispezione non intendeva cogliere sul fatto i pusher, ma solo verificare eventuali negligenze nei controlli. Nonostante l’Operazione Lenor non avesse riscontrato alcuna evidenza di commercio, cessione o consumo di droghe, il rapporto recitava pressapoco che all’interno sembravano tutti “fatti”, “sudati” e “con le pupille dilatate”. Per quanto poco oggettive, queste considerazioni erano rimbalzate sui giornali, rendendo la chiusura più giustificabile agli occhi di molti. In una lunga inchiesta pubblicata i primi di settembre, The Independent aveva smontato questa narrazione. Secondo l’autorevole quotidiano la chiusura del Fabric era da imputarsi alla volontà politica di un council, quello di Islington, a corto di fondi pubblici e pertanto bisognoso di attrarre nuovi investimenti privati. È un copione che si ripete: negli ultimi otto anni la città ha perso il quaranta per cento delle sue venues musicali.
Londra è ostaggio di un particolare terzetto di “re”: re-newal, re-development, re-generation. Questa è l’artiglieria pesante nell’inarrestabile processo di gentrificazione che dal centro si irradia a cerchi concentrici verso le periferie. Il loro arrivo segue, nell’ordine, quello di artisti, hipster e negozi di organic food, e sancisce l’irrimediabilità del cambiamento. I redeveloper, per l’appunto, si occupano dello sviluppo di un posto. Questo posto può essere un block di casette popolari, ma anche un club di successo o un pub i cui affari vanno niente male: poco importa. I redeveloper possono aumentare esponenzialmente il valore commerciale di qualunque attività. Ciò che mettono a profitto è, infatti, la nuda metratura del suolo disponibile, spingendo al limite il modello che Neil Smith già quarant’anni fa aveva identificato con il nome di rent gap: il divario tra la resa economica attuale e quella potenziale. Massimizzare la rendita di una proprietà vuol dire spesso cambiarne la detinazione d’uso. Nessun club, pub o sala concerti riesce a generare la stessa rendita di un gruppo di residenti benestanti, e così i redeveloper il più delle volte acquistano il palazzo, lo tirano giù e lo ricostruiscono in altezza per ospitare miniappartamenti di lusso. Tra le vittime collaterali di questo processo vi sono in primo luogo i residenti e le attività storiche, che non possono sostenere aumenti dell’affitto nell’ordine del trecento per cento. Comunità, identità e memoria di intere porzioni di città vengono così cancellate per sempre. I cambiamenti sono visibili a tutti i livelli. Ma allo stesso modo si possono anche ascoltare.
Se assumiamo l’idea di paesaggio sonoro in termini un po’ meno conservatori di quelli di Murray Schafer, possiamo dilatare il concetto di soundscape in senso culturale e trovare una scappatoia alla sterile contrapposizione silenzio/rumore. Parte del paesaggio sonoro saranno allora non solo i suoni di tutti i giorni, ma anche quelli nascosti, sotterranei, sporadici, che giungono attutiti da un piccolo club interrato o che risuonano in una warehouse abbandonata per il tempo di una notte. Investiti di una forte carica emozionale e affettiva, questi suoni formano e sostengono l’identità culturale di una città al pari del colore della pelle di chi vi risiede, dell’accento che si parla e del cibo che si mangia. E questi suoni sono tra le prime vittime invisibili del processo di rigenerazione. Se riconosciamo l’audiosfera come terreno di scontro politico, la gentrificazione avviene anche a livello delle nostre orecchie. L’omologazione del paesaggio sonoro va a braccetto con quella, più visibile, etnica e sociale. E a farne le spese sono sempre i pesci più piccoli.
Il Fabric, una industria di primo piano sulla mappa dell’intrattenimento globale, è riuscito a resistere alla pressione dei redeveloper con una battaglia che ha assunto i toni dello scontro biblico tra Davide e Golia; facile allora immaginare che fine facciano i locali più piccoli. Ma Ricardo Villalobos non farebbe comunque mancare la propria presenza in città, anche dopo una eventuale chiusura del Fabric; invece l’entertainment di medio e piccolo livello, ovvero il cuore pulsante dell’innovazione musicale londinese, viaggia spedito verso un coma indotto che rischia di diventare irreversibile. Dove non bastano i soldi, le pressioni prendono la forma delle istanze di sicurezza e ordine pubblico. La bonifica dei suoni in eccesso sembra andare di pari passo con lo sviluppo economico e la pace sociale. Il risultato in termini urbanistici si legge residential; in termini sociologici white, middle class.
A sud come a est, le frequenze bellicose dei sound system e la puzza del pollo fritto cedono il passo al piattume acustico delle radio commerciali che accompagnano il bio-caffè fair-trade da tre pound a tazza. E la città, che vende se stessa a caro prezzo quale capitale multiculturale d’Europa, vede la profondità della propria dimensione sonora assottigliarsi giorno dopo giorno. La riapertura del Fabric è pertanto da intendersi come la piccola e non necessariamente definitiva vittoria di una piccola battaglia. Ma il fronte del conflitto è decisamente più ampio, e caratterizzato dalla disparità delle forze in campo. Non ci resta che tenere le orecchie ben piantate a terra e cercare di ascoltare ciò che il futuro ha in serbo per noi, come scriveva Jacques Attali. Sperando che qualcuno, da qualche parte, continui a fare un po’ di rumore. (brian d’aquino)
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