Se la tecnologia della musica non è prerogativa delle tecnologie elettroniche venute fuori nel Novecento, ogni strumento si pone come artefatto tecnologico, se per tecnologia intendiamo il processo di consolidamento delle pratiche d’uso come significato del mezzo strumentale. Prendiamo come esempio il pianoforte. Il Novecento sembra porlo a un bivio: continuare per la strada di una tradizione che lo vuole piegato al gioco delle altezze, o percorrerne un’altra, nelle possibilità offerte dal corpo dello strumento come luogo di produzione del suono. La più nota esperienza del piano preparato di Cage, in Sonatas and Interludes, evidenzia la consapevolezza dell’intervento già dal titolo: legame con la tradizione, dunque suo sorpasso nella tecnologia impiegata. Cage ha ricordato come Henry Cowell – autore, tra le altre cose, di un trattato d’armonia poco considerato dagli addetti ai lavori – possa esserne considerato una sorta di precursore: sperimentatore infaticabile, fu l’ideatore e il teorizzatore del cluster, la cui realizzazione comporta l’impego dell’avambraccio, del gomito e del pugno.
L’ho presa alla lontana. Certo. Basti pensare che scrivo questo articolo un bel po’ di giorni dopo le performance in oggetto – domenica 3 aprile, Anthony Pateras; sabato 16 aprile, Fabrizio Ottaviucci – tenutesi al Riot Studio di Palazzo Marigliano, in via San Biagio dei librai 39. Nelle fresche serate primaverili è stata offerta al pubblico un’occasione per interrogarsi e riflettere sulla prassi di uno strumento ostaggio, spesso, di un repertorio fin troppo nostalgico. Due concerti completamente diversi, eppure tanto vicini nella sensibilità in azione.
Nel primo concerto in piano solo, Anthony Pateras ha premiato gli sforzi degli organizzatori – sotto il nome di Flussi.eu – che così fortemente hanno voluto la sua unica data in Italia, confermando lo stato di benessere del circuito napoletano nel campo della musica improvvisata. Un tutto esaurito che ha esaurito l’attenzione di tutti. Un concerto di rara intensità fisica, in cui un ragazzo australiano classe 1979, con una semplice t-shirt nera seduto a pianoforte a coda nero, è riuscito a infiammare la nera sala del Riot e il suo camino spento. Condensando in due brani totalmente improvvisati il programma della serata, il controllo dello strumento è stato lasciato al tocco energico di una mano rilassata, in grado di resistere a quasi quarantacinque minuti continui. Un’esecuzione in cui l’estensione del pianoforte viene utilizzata come parametro di organizzazione del dispositivo performativo, insistendo sulle basse frequenze con le note gravi per poi esplorare le frequenze alte; Pateras incrocia le mani per suonare note vicinissime tra loro, lavorando così sulla trama tessuta dalle vibrazioni di corde contigue. Eccita talmente tanto e ripetutamente la stessa corda da farle produrre per bene tutti i suoi armonici: nel senso, la corda li produce lo stesso, ma a un’intensità ridotta: lui cerca di esaltarli. Durante l’esecuzione del secondo brano, a chi lo fotografa o video-registra chiede di smetterla, intimando un «ora basta!». Il flusso è avvolgente e, a tratti, la percussione del tasto è più evidente che l’altezza della nota emessa, in una gestualità tesa all’auscultazione della meccanica dello strumento. Ritorna la questione dell’effimero confinato in uno spazio-tempo: una registrazione, in questi casi, può solo avere valore documentario.
Nel secondo concerto, stavolta di marca Dissonanzen, troviamo Fabrizio Ottaviucci impegnato in Psichedelia, un viaggio in cui la musica viene usata come sostanza psichedelica; questo il principio che sostiene il programma proposto. «Una misteriosa avventura ai confini del suono di Cage, i miraggi sonori dell’esoterico Scelsi, i tumultuosi spessori sonori di Curran, oltre a una mia piccola riflessione improvvisata, sono le tappe di questo viaggio», spiega Ottaviucci. Anche stavolta la sala è gremita. Lo scricchiolare dei listelli del parquet accompagna le esecuzioni che si susseguono precise, chiare e controllate, con una dinamica in grado di imporsi pur restando lontana dai picchi toccati nel precedente concerto. Abbiamo davanti un signor esecutore, interprete raffinatissimo di composizioni minimaliste: valgano le lodi a lui intessute da Terry Riley. Così, resto incantato dall’esecuzione diFor Cornelius, di Alvin Curran: un flusso minimale di quasi quindici minuti, delimitato da momenti accordali che incorniciano la composizione. Ancora una volta lo spazio diventa funzionale alla volontà del compositore, premiata dalla filologia esecutiva che Ottaviucci consegna prima delle sue fresche e leggere improvvisazioni, in cui si cimenta con un canto a bocca semichiusa di melodie dal sapore meditativo. Ogni esecuzione termina con un inchino in cui si rende manifesta quella natura “religiosa” cui faceva riferimento Riley.
Per onore di cronaca, il mese di aprile si è chiuso con il terzo appuntamento di Dissonanzen al Riot, dal titolo Recordari, il giorno 29. Sul palco Ciro Longobardi (pianoforte) e Tommaso Rossi (flauto dolce e flauto traverso) per un’esecuzione che ha spaziato tra la musica antica e quella contemporanea. Hanno dato appuntamento al 3 giugno. In una sorta di mappatura della musica contemporanea a Napoli il Riot Studio è una meta imprescindibile. (antonio mastrogiacomo)
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