Dopo un anno di produzione a singhiozzo lo stabilimento Fiat di Pomigliano mette a cassa integrazione i cinquemila dipendenti. Eppure c’è chi non crede che la crisi possa continuare a lungo
Pomigliano. Assemblea davanti ai cancelli della fabbrica. Duecento persone si affollano intorno al casotto dei guardiani. Piove a dirotto e tira vento, l’acqua arriva a folate oblique. Qualcuno si appiattisce sotto l’esigua tettoia. In sottofondo il richiamo gracchiante di un megafono nelle mani di un operaio. È un tipo tozzo, robusto, l’espressione mobile, quasi ironica sul volto. Un cappello di lana in testa, arancione con il pon pon blu. La voce cadenzata da comizio. Intorno a lui, si forma un circolo abbastanza serrato. Sotto gli ombrelli filtra un’aria azzurrina. L’uomo riepiloga gli ultimi eventi, le ore di lavoro e quelle di cassa integrazione, l’aumento inesorabile delle seconde; poi passa all’elenco delle richieste, o piuttosto delle domande, da portare lontano da lì: all’Unione industriali di piazza dei Martiri; a Roma davanti al parlamento; ma anche, da subito, all’imbocco dell’autostrada, dall’altra parte del cavalcavia, distante poche centinaia di metri (in tempo per uscire sul telegiornale delle due e il giorno dopo su tutti i giornali)… Il secondo megafono parte all’improvviso, alle spalle dell’uomo con il pon pon. Un’altra voce metallica si sovrappone alla sua: invita a sottoscrivere la lista di quelli che andranno a protestare a Roma il giorno dopo. C’è un banchetto sotto la tettoia, all’asciutto. Il pon pon si affloscia su un lato, l’uomo esita, abbassa il megafono, poi riprende il filo. Le due voci continuano dissonanti, assorbendo l’attenzione, tenendo compatta la folla. Poi il primo megafono passa di mano. La voce comincia a muoversi, a ondeggiare. Richiama gli operai che accennano a disperdersi, li invita a seguire la lotta, a oltrepassare il cavalcavia. A fatica si forma il corteo, si srotola uno striscione. La pioggia concede una tregua. Gli operai si avviano in colonna a bloccare l’autostrada.
Alla Fiat auto di Pomigliano, la fabbrica che impiega cinquemila persone, l’attività procede a singhiozzo. Cassa integrazione a gennaio, una settimana di lavoro a febbraio, forse un’altra a marzo. A dicembre 2007 l’amministratore delegato Marchionne era venuto ad annunciare il nuovo nome dello stabilimento, intitolato da allora a Gianbattista Vico. In quella occasione spiegò anche che la produzione si sarebbe fermata per due mesi: un tempo da dedicare alla ristrutturazione degli impianti, disse, e alla formazione del personale. Non rispose però alla domanda sulla bocca di tutti: quale sarà la nuova “missione produttiva” di Pomigliano? Ovvero: quali macchine produrrà in futuro lo stabilimento campano? Oggi si producono tre tipi di auto: l’Alfa 147, l’Alfa Gti e l’Alfa 159. Ma sono auto vecchie. «Tutti gli stabilimenti Fiat sanno quali auto produrranno – dicono gli operai –. Solo noi non abbiamo auto nuove da produrre».
Alla ripresa del lavoro, nella primavera scorsa, la direzione ha esiliato a Nola, in un “reparto logistica”, 316 persone, scegliendole tra gli Slai Cobas più turbolenti e i lavoratori con qualche menomazione fisica. Un “reparto confino”, secondo tanti, usato come spauracchio per tenere sulla corda tutti gli altri. Poi d’estate cinque mesi di ferie per tutti, evento che non si verificava da dodici anni. E da settembre fino a oggi l’altalena della cassa integrazione.
Con tali premesse, raccontare Pomigliano sembrerebbe un’impresa a senso unico: operai sull’orlo di una crisi di nervi, alle prese con la quarta e forse anche con la terza settimana da superare indenni per arrivare alla fine del mese, dove li aspetta una busta paga di ottocento euro, salvo integrazioni per gli assegni familiari… Ma poi parli con Antonio, collaudatore di ventisette anni, nella cameretta piena di peluche che divide con la sorella più piccola e lo senti liquidare questi mesi in un paio di frasi. «È un periodo così, ci vuole pazienza. Tra un po’ tornerà tutto al suo posto». Antonio non è ancora sposato, anche se la fidanzata lo accompagna dappertutto. Abita a Secondigliano con i genitori e la sorellina. È in Fiat da quattro anni. «A me piace stare con la gente. Ho cambiato spesso squadra di lavoro, ma ho avuto buoni rapporti con tutti. Certo, ci sono sempre quelli che vogliono mettersi in mostra con i capi».
Diego invece ha trentacinque anni, abita a Chiaiano, e racconta la fabbrica come una galera. «Dopo otto ore là dentro non servi più a niente. Io ci sto da sette anni, ma dopo il primo anno ho avuto una paralisi dovuta allo stress. Sono svenuto all’improvviso. C’è voluto qualche mese per riprendermi». Prima di entrare in Fiat, faceva l’istruttore in palestra. «Guadagnavo anche bene, ma non l’avrei potuto fare per sempre. La fabbrica rappresentava la sicurezza di uno stipendio».
Il sorriso accogliente dietro le lenti spesse, Ciro siede al tavolo di cucina di casa sua, settimo o forse ottavo piano di un palazzone in un rione di case popolari a Casalnuovo. Intorno i suoi quattro figli, la più grande diciotto, ultimo anno di istituto tecnico, che guarda la tv del pomeriggio raggomitolata in poltrona; la più piccola sette, che non molla il centro dell’attenzione neanche quando i grandi si mettono a parlare di cose serie. Ciro sta nel sindacato, e come Antonio ha avuto l’esempio del padre operaio; anche lui non sembra allarmato. Racconta di questi mesi passati più a spasso che a faticare con inaspettato ottimismo. «Chiudere la fabbrica? – spalanca gli occhi – No, non ho questa paura. La fabbrica è grande. Un posto del genere non chiude da un momento all’altro». Ciro sta in Fiat da vent’anni. Ne ha quarantacinque. È uno degli anziani di fabbrica. In questi giorni un po’ vuoti dà una mano in casa, cucina, fa la lavatrice, va a prendere la bambina a scuola. La moglie lavora in un albergo, fa turni pesanti, certe volte torna tardi; il suo darsi da fare è apprezzato. Ciro è iscritto al sindacato da vent’anni, perché nel sindacato ci stava suo padre, che faceva l’operaio come lui. Lo vedi a tutte le manifestazioni, ma lui stesso ti racconta che quando l’atmosfera si fa tesa non ci tiene a mettersi in prima fila. Eppure, nelle foto c’è sempre. Mantiene lo striscione e sorride. (luca rossomando)
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