Sono passati vent’anni dalla contestazione organizzata a Napoli nel marzo 2001 contro il Global forum, un incontro tra governi e multinazionali per discutere di internet e governo elettronico, promosso dall’Ocse, insieme con l’Onu, l’Unione europea e la Banca mondiale.
Quella di Napoli, annunciata nel maggio 2000, è la terza edizione del Global forum. I precedenti incontri non hanno lasciato tracce rilevanti, ma pur non trattandosi di un evento di spicco nell’agenda internazionale, gli attivisti napoletani decidono di trasformarlo in una scadenza importante nel calendario del movimento. Non è un calcolo azzardato. A partire dal 30 novembre ’99, infatti, quando la World Trade Organization si dà appuntamento a Seattle per rilanciare i negoziati che dovrebbero accelerare la liberalizzazione dei commerci su scala mondiale, la protesta contro la globalizzazione neoliberista registra un’impennata, accrescendosi a ogni successivo appuntamento fissato dai burocrati internazionali: Melbourne e Praga nel settembre 2000, Nizza nel dicembre 2000, e dopo Napoli sarà la volta di Quebec City, Goteborg, Genova. Ogni riunione di organismi sovranazionali viene accompagnata dalle proteste di migliaia di persone. Nei resoconti dei media i controvertici del “popolo di Seattle” relegano in secondo piano i contenuti dei vertici ufficiali. La globalizzazione non accelera solo la velocità con cui si scambiano le merci, ma anche la circolazione delle informazioni. Il movimento ne tiene conto e prova a trarne vantaggio. Mai prima di allora le mobilitazioni anticapitaliste erano state così simultanee e transnazionali.
La rete No Global campana si inserisce in questo quadro in rapida evoluzione. Creata nei mesi che precedono l’appuntamento di marzo, costituisce un organismo che si vuole plurale, non gerarchico, suscettibile di continue modificazioni. Si autodefinisce “rizomatico”, i suoi principi sono l’eterogeneità e la connessione tra i diversi nodi. Se per un verso le entità che lo compongono hanno un forte radicamento locale, dall’altro la controparte è costituita da organi sovranazionali (Fondo monetario internazionale, Banca mondiale, Ocse, Wto) che vanno acquisendo sempre più potere rispetto agli apparati statali, influendo sulle linee guida delle politiche nazionali attraverso “raccomandazioni” ai singoli governi, ridotti al ruolo di esecutori e di garanti dell’ordine sociale. In questo senso, accanto ai temi tradizionali delle proteste (contro le disuguaglianze e lo sfruttamento, per la pace, per l’ambiente), si denunciano la mercificazione dei beni immateriali e l’uso repressivo delle nuove tecnologie, che minacciano di estendersi all’intero campo sociale criminalizzando ogni comportamento deviante.
I media ufficiali dipingono il movimento come una compagnia di giro formata da contestatori professionisti. In realtà, le radici della rete sono ben piantate nei singoli territori. Durante le manifestazioni si interagisce e ci si conosce, ma la comunicazione avviene in maniera più intensa e quotidiana attraverso i nuovi strumenti digitali, in particolare la rete telematica, che diventa in questi anni un fattore decisivo. Il carattere orizzontale della rete appare fin da subito minacciato dai colossi della comunicazione che controllano buona parte dei flussi informativi omologando le scelte, i consumi e le idee. “Tuttavia – scrive la rete No Global – la partita non è per nulla conclusa, e anzi la torrenziale condivisione di risorse in rete ha permesso negli ultimi anni la crescita esponenziale dell’open-source, che ha trovato nel copyleft, nella Glp (Licenza pubblica generale) un’efficace strumento per la salvaguardia della condivisibilità[1]”.
In Italia gli antecedenti di un movimento che ha imparato a destreggiarsi con la tecnologia per adattarla ai propri obiettivi, vengono individuati nelle radio libere degli anni Settanta, e poi nella scoperta del fax da parte degli studenti della Pantera, “che rimediava a una comunicazione tra i vari soggetti frammentata, parziale, delegata ai filtri delle organizzazioni e dei loro organi di informazione”. Lo scambio di documenti in tempo reale cambia le carte in tavola e rafforza un’identità collettiva che travalica le distanze geografiche. Il primo gennaio ’94 in Messico irrompe sulla scena l’Ezln, l’esercito zapatista di liberazione nazionale, che dalla periferia del mondo è capace di rompere i vecchi schemi della guerriglia sudamericana favorendo la creazione di un’imponente rete di solidarietà internazionale. Cinque anni dopo sono più di millecinquecento le organizzazioni che attraverso internet sottoscrivono l’appello per la mobilitazione di Seattle contro il Wto, l’Organizzazione mondiale del commercio. Non è un caso che in quella occasione la polizia sgomberi proprio il “media center”, che trasmette in tempo reale immagini e aggiornamenti sulle proteste in corso. Nasce allora, in decine di paesi, la rete Indymedia, il network globale della comunicazione antagonista in rete.
Quella napoletana, rispetto alle precedenti mobilitazioni, si caratterizza per una composizione sociale più ampia: non solo giovani, spesso alle loro prime esperienze politiche, ma anche lavoratori, disoccupati, sindacalisti di base, insegnanti, che partecipano attivamente anche alla fase preparatoria delle “quattro giornate” di contestazione. L’organismo che ne viene fuori prova a tenere insieme tutti i soggetti, valorizzando la diversità di contributi e risorse, ma è innegabile che un nucleo forte esiste fin dal principio ed è strutturato intorno ad affinità ben precise. Ne fanno parte i centri sociali Officina 99 e Ska, i disoccupati organizzati, i Cobas, Rifondazione Comunista. La presenza dell’associazionismo è ridotta ai terzomondisti di Mani Tese e al raggruppamento di associazioni e cooperative denominato Cantieri Sociali. Così alcune rivendicazioni storiche del movimento antagonista vengono traghettate direttamente sul palcoscenico internazionale. Parole d’ordine come salario garantito e riduzione della giornata di lavoro a parità di salario, si affiancano alla battaglia contro il copyright e alla contestazione del trattato di Schengen con cui l’Europa, dopo l’unificazione monetaria, rafforza le frontiere esterne uniformando le politiche di polizia in funzione anti-immigrazione.
I no global napoletani puntano molto sulla comunicazione, sviluppando tecniche di resistenza ludica per ridicolizzare i luoghi comuni sui manifestanti e stimolare la partecipazione al di fuori degli ambiti di movimento. A metà gennaio viene occupato il centro telematico della facoltà di Architettura per un netstrike, un corteo telematico che ingolfa il sito della Siae. Due settimane dopo un sito d’informazione, ilnuovo.it, scopre la beffa telematica ai danni dell’Ocse, anticipando di qualche giorno il lancio ufficiale del contro-forum. Il finto sito internet dell’Ocse, messo in rete alcuni mesi prima, è infatti così credibile da confondersi con quello ufficiale, solo che le parole d’ordine rassicuranti scelte dall’organizzazione sono state interpolate con concetti di segno opposto, provocando un effetto di straniamento che non impedisce a molti delegati di attivare sul sito fasullo la registrazione al Global forum di marzo. Il giorno seguente il ministro della funzione pubblica, Bassanini, fa pervenire alla rete No Global un invito al forum ufficiale con un posto da relatore, ma la proposta è rispedita al mittente.
Il 6 marzo 2001 un centinaio di attivisti fanno irruzione nei locali del McDonald’s di piazza Dante con cinque galline, salumi, formaggi e altri prodotti genuini. Clienti e passanti si uniscono al corteo sotto gli occhi della polizia. La sala Gemito, offerta dal sindaco Marone per il controvertice, si rivela del tutto insufficiente. Alla fine il Comune metterà a disposizione la Casina del boschetto in Villa comunale e un ex deposito per ospitare i manifestanti che arrivano da fuori. Il 14 marzo i disoccupati bloccano la Circumvesuviana e poi manifestano in corteo nel quartiere Ponticelli. La sera stessa, nel corso di una festosa Street Parade, all’altezza della Questura due volanti e un’auto civetta dei carabinieri irrompono nel corteo ad alta velocità e con le luci spente: una ragazza viene travolta, cavandosela senza gravi conseguenze. Il corteo riparte fino a piazza Municipio, dove la musica di tre sound system segnala la protesta agli ospiti della serata di gala che apre il Global forum al teatro San Carlo.
Il 15 marzo un corteo attraversa il centro storico oscurando con la vernice le decine di telecamere disseminate lungo il percorso. Le forze dell’ordine scortano il corteo fino a palazzo Gravina, sede della facoltà di Architettura: un pallone gigante viene posto al centro tra carabinieri e celerini per metterli in ridicolo. La facoltà viene occupata e diventa la base operativa del movimento. Si occupano anche i centri telematici di Lettere e dell’Orientale per preparare il netstrike contro la Fineco, un’agenzia di commercio online, previsto nel pomeriggio. Il 16 marzo gli attivisti si presentano davanti al McDonald’s del Vomero con due pecore, ma trovano la porta sbarrata e la polizia ad attenderli. Si imbandisce una tavolata davanti al negozio chiuso. La sera quattro attivisti della rete si infiltrano nel gala di Palazzo Reale spargendo fialette puzzolenti ed esibendo magliette con la scritta Stop Global Forum.
La decisione più controversa della rete è quella di dotarsi di un portavoce, con il compito di fare da catalizzatore nei confronti degli organi d’informazione. Il ruolo è ricoperto da Francesco Caruso, ma l’inedita figura suscita perplessità sulla coerenza di un movimento che rifiuta il principio della delega e si definisce “senza centro”. Gli episodi di “guerriglia comunicativa” attirano l’attenzione dei media, e in questo senso l’obiettivo sembra raggiunto. “Al tempo stesso, i comunicatori antagonisti, specializzandosi sull’effetto, sullo scoop, possono rischiare di cadere nella trappola dei media, della mera ‘notiziabilità’ degli eventi, che non presta molta attenzione ai contenuti delle contestazioni quanto piuttosto alla cronaca di esse. Il che provoca l’inseguimento dei tempi, degli spazi e degli interessi stabiliti dai media, esponendo il movimento al rischio di un cortocircuito comunicativo[2]”.
La delimitazione di una “zona rossa” – misura con cui si cerca di tenere a distanza la contestazione e che assumerà risvolti tragici qualche mese dopo a Genova – viene comunicata alla città una decina di giorni prima. A Napoli sono attesi oltre mille delegati internazionali. La zona proibita si espande intorno a Palazzo Reale interessando circa diecimila abitanti, mille esercizi commerciali, due presidi sanitari. All’interno possono circolare solo i residenti e chi lavora nell’area, ma solo con i permessi rilasciati dalla questura. Gli agenti coinvolti sono cinquemila, compresa una squadra antihacker di quaranta uomini.
La mattina di sabato 17 marzo un corteo di trentamila persone parte da piazza Garibaldi e attraversa corso Umberto in direzione di piazza Municipio. La prima carica della polizia si registra poco prima di mezzogiorno davanti alla sede centrale dell’Università, poi più avanti, in via Depretis. Ma il corteo si ricompatta, vuole raggiungere piazza del Plebiscito, nel cuore della zona rossa. Quando i manifestanti entrano in piazza Municipio, alla testa del corteo compaiono i lastroni di plexiglas e un’enorme pannocchia di gommapiuma da usare come mezzi di difesa contro le cariche. Quando tutti sono dentro, la polizia “chiude” la piazza[3]. Il plexiglas e la gommapiuma si rivelano un fragile schermo e dopo i primi assalti dei celerini comincia lo sbandamento. Le vie di fuga, però, sono bloccate. Migliaia di agenti caricano i manifestanti da ogni lato della piazza. Gli agenti picchiano tutti, compresi gli individui isolati e giovanissimi studenti. Pestaggi feroci, indiscriminati, sotto la regia del questore Izzo. I manifestanti feriti si recano in ospedale, dove vengono prelevati ancora sanguinanti e portati nella caserma Raniero con i loro accompagnatori. Qui, con la scusa di identificazioni e perquisizioni, cominciano gli insulti, le minacce, le percosse. Alla fine saranno circa duecento i feriti, cento dei quali avranno bisogno di cure ospedaliere.
Zona Rossa, il libro pubblicato dalla rete No Global nel giugno successivo, raccoglie un’infinità di testimonianze sugli abusi delle forze dell’ordine, che sembrano rispondere a una strategia preordinata e non a un “momento di follia” collettiva, come emergerà in seguito dalle inchieste giudiziarie. Centinaia di voci e memorie scritte, inviate spontaneamente alla Commissione difesa legale della rete, che indurranno Amnesty International a chiedere al ministro dell’interno del governo Amato, Enzo Bianco, una commissione d’inchiesta indipendente sull’operato di poliziotti, carabinieri e finanzieri. La magistratura napoletana aprirà un’inchiesta che porterà il 26 aprile 2002 all’arresto di otto funzionari della squadra mobile, rilasciati dieci giorni dopo per il pronunciamento del Riesame. Siamo ormai sotto il governo Berlusconi. Alla notizia degli arresti dei loro colleghi, i poliziotti napoletani inscenano una protesta senza precedenti, accerchiando con le manette ai polsi il palazzo della Questura in via Medina. Nove anni dopo il processo di primo grado si concluderà con la condanna per sequestro di persona (due anni e otto mesi) per due funzionari di polizia e per altri otto agenti (due anni), con l’assoluzione di altri undici poliziotti e la prescrizione per tutti dei reati minori come violenza privata e abuso d’ufficio. Nel gennaio 2013 la sopravvenuta prescrizione cancellerà anche queste condanne.
“Il sentimento dell’intollerabile è possibile solo quando non c’è spazio per nessuna complicità nei soggetti afferrati dalla violenza: non è un caso che le prese di posizione più nette siano venute da soggetti non organizzati né fortemente politicizzati, ‘sbalorditi’ da ciò che gli accadeva[4]”. Maurizio Zanardi, nel libro Zona Rossa, riflette su come sia stato possibile che nella Napoli appena uscita dal “rinascimento bassoliniano” venisse considerata nemica, e repressa con ferocia, un’esperienza tutto sommato pacifica di critica pubblica. Forse i fatti di marzo 2001 – scrive Zanardi – contribuiranno a rompere la credenza in una parte della città che parole d’ordine come “normalità” e “tolleranza zero” siano in grado di promuovere una vita metropolitana più libera, rivelando invece la carica di esclusione che contengono, perché gli obiettivi di quelle parole non sono solo i piccoli delinquenti ma soprattutto chi mette in discussione “pubblicamente” quel codice sociale che vorrebbe far funzionare la città, la vita in comune, secondo una logica d’impresa.
La cosiddetta politica dell’immagine, inaugurata dalla giunta del sindaco Bassolino con il G7 del ’94, produrrà tra l’altro simboli rigidi e impermeabili come piazza del Plebiscito, che non a caso sarà interdetta ai manifestanti no global, quasi a proteggerla da una massa critica che avrebbe potuto sfigurarne il simbolismo. “È naturale – scriveva ancora Zanardi vent’anni fa – che questo tipo di politica desideri la ‘città normale’ e tenda a esaurirsi in una pedagogia e in una cultura della legalità, favorendo il passaggio dalla politica alla polizia[5]”. Perché quando si contribuisce a diffondere e praticare una certa idea di metropoli si è poi impotenti di fronte a chi intende portare questa idea alle sue estreme conseguenze. Di certe parole, concludeva Zanardi, non è possibile fare un uso moderato. (luca rossomando)
[1] AA. VV., Zona Rossa. Le “quattro giornate di Napoli” contro il Global Forum, DeriveApprodi, Roma, 2001, p. 207.
[2] Festa F. A., “L’alchimia ribelle napoletana. Materiali per una storia della città antagonista”, in Cappelli O. (a cura di), Potere e società a Napoli a cavallo del secolo. Omaggio a Percy Allum, ESI, Napoli, 2003, pp. 381-423.
[3] Zona Rossa…, cit., 2001, pp. 59-60.
[4] Zanardi M., “La città murata”, in Zona Rossa…, cit., 2001, p. 191.
[5] Zanardi M., cit., p. 195-196.
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